IL NOSTRO ORTO

IL NOSTRO ORTO

Potrebbe essere che mai
riesca a trovare
uno sbocco in questa
estensione del pensare,
smettere di soffrire
senza causa vera
o apparente, o giusta.
Perciò ho voluto scrivere
a mano il mio lamento
buttare il fottuto cellulare
e lasciar scorrere la penna
che a quel tempo facevo
volare alta, veloce più del
vento, al di sopra degli argini,
allora sì virtuali, nebulosi,
estesi seppur inadeguati
a contenere poliedrici
riverberi dei sogni miei.

Potrebbe essere che fanciullo
non avessi percezione delle albe
che ancora mancano al sasso
che ci ospita, figurarsi le mie,
ignorare che il tutto avesse fine,
perciò credere essere sovrano,
era ovvia conseguenza.
Adesso neppure mi avvicina
ad alcun dio la consapevolezza
che già sussiste l’attimo
in cui tutto sarà implosione,
turbinio di colori,
emissioni di gas misti a
cromatiche, gigantesche
deflagrazioni, immisurabili
lingue di fuoco, scudiscianti,
sempre più fioche,
stanche, lanciate radialmente
dal nostro morente astro
rimasto senza carburante.
Fine della fusione!
Espulsione dei suoi strati
esterni… Per un fottuto elettrone
sarà nebulosa planetaria
che già avrà vaporizzati
Mercurio e Venere…
Lungo ogni fittizio parallelo
vili folle impazzite fuggiranno
credendo di evitare l’estremo
bagliore, incoscienti confideranno
nelle loro certezze accelerando
verso il buio perenne per giungere
alle spalle del niente.
Nel travolgere, calpestare
vecchi, donne, bambini
finanche percorreranno
gli ingannevoli meridiani al fine
di ammirare da tutte le
trascendenti prospettive
l’attimo ultimo di cui
neanche nascerà il ricordo…
I teschi si dissolveranno
in ghigni da sembrare sbadigli
di tagliole incandescenti.

Potrebbe accadere che
decida di cambiare strada,
svoltare un angolo
mai considerato,
magari in una stupida mattina
prossima all’autunno,
fresca della pioggia
caduta nella notte.
Aspro, vaporoso profumo
sale dal selciato mischiandosi
ai sapori di un orto superstite
fra lussuosi palazzi residenziali.
Quindi porto lo sguardo
al brillio dell’ultima stella
mentre all’incongrua staccionata
con cautela mi avvicino…
A che staranno pensando quel curvo,
decrepito, silenzioso contadino
e la vecchia che lo sta a guardare,
braccia conserte, scialle, seduta mesta
dinanzi al fatiscente casolare?

Mauro Giovanelli – Genova
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SPOGLIATI – Ernesto “Che” Guevara

SPOGLIATI

E adesso struccati tutta
ostenta con fierezza
le rughe, le piaghe,
non temere
anch’io sono ferito,
spaventato dalla vita.
Strappa ora, con rabbia
quei veli adornanti,
che occultano lividi,
togli quella maschera di ghiaccio
che il freddo e le troppe lacrime
hanno reso spessa.
Mostrati a me
nei tuoi lineamenti più puri
e quando, come un albero d’autunno
sarai spoglia,
e solo quando sarai nuda ed indifesa
come un bambino appena nato,
ti donerò le mie ricchezze.
In quel giorno di sincerità
consegnerò nelle tue mani
tutta la mia fragilità
le mie insicurezze
le paure ancestrali
le impurità nascoste.
Solo allora,
sopra un vassoio di rose bianche,
ti porgerò con grande amore
la verginità della mia anima.

Ernesto “Che” Guevara de la Serna

Mauro Giovanelli – Genova
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IL LEGGÍO A NOVE POSIZIONI – AD UN PASSO DALLA VERITÀ

ESTRATTO DA
“IL LEGGÍO A NOVE POSIZIONI”
Di Mauro Giovanelli
EDIZIONE SPECIALE CONCORSO NAZIONALE “LaFeltrinelli Il mio libro” sezione Narrativa

CODICE ISBN: 9788892346161
PAGINE 196
COPERTINA MORBIDA
INTERNO BIANCO E NERO

Reperibile su Amazon, IBS.it, lafeltrinelli.it e nelle Librerie Feltrinelli di tutta Italia

AD UN PASSO DALLA VERITÀ

[…] – Ascoltami. Mentre tu parlavi con quell’essere, quello alto, grosso, glabro dalla testa ai piedi, volgare, ho visto in sogno la Dea Namagiri, mi ha preso per mano conducendomi in un luogo meraviglioso, insieme abbiamo percorso i setti di una gigantesca ammonite fossile, pareva di puro cristallo, sarà stata alta come una montagna, e siamo scesi girando attorno al suo asse di evoluzione, non saprei dirti per quanto, perché il tempo non esisteva, ne sono certo, sembrava un percorso di purificazione. Siamo giunti in una valle stretta per tre lati da monti coperti di alberi a me sconosciuti, fogliami carnosi, verdeggianti, con riflessi d’oro, che infondevano una pace infinita, e là in fondo un mare blu, fulgido, piatto ma con leggerissime increspature argento e delicate onde che carezzavano appena la rena di sabbia finissima, quasi impalpabile, bianca al punto da alterare la vista. Su tutto un cielo pulito, acceso, immenso. Ogni cosa era luce ma non di questo mondo. All’ultimo opercolo l’uscita, una lieve frescura accarezzò il mio viso. Mi fermai un attimo, strabiliato dal senso di appagamento che pervadeva il mio essere poi Namagiri, con gesto elegante della mano, indicò un punto lontano della spiaggia, delimitato a monte da un costone di rocce basaltiche. Mi incamminai sicuro come mai lo sono stato nella mia vita e in lontananza notai oggetti in movimento. Solo quando giunsi più vicino fui in grado di constatare trattarsi di alcuni fogli che, mossi da una leggera brezza, si libravano nell’aria in mulinelli simmetrici, a forma di doppia elica, per ricadere, ondeggiando, fino a posarsi dolcemente sulla riva. Quello che più mi colpì fu l’ordine prestabilito, il fine cui il fluttuare di quelle pagine pareva fosse destinato, come tasselli di un mosaico divino, obbedivano a un preciso ordine oppure sviluppavano un programma concepito oltre. Questo moto non cessava mai e solo la disposizione a terra di ciascun foglio mutava sempre, il loro insieme formava grafemi ogni volta diversi, dapprima ermetici, successivamente più comprensibili, poi si involavano, scendevano a ricollocarsi, di nuovo in alto, e ancora sulla sabbia in un moto perpetuo. Mi resi conto che il loro disporsi formava ogni volta caratteri diversi di varie scritture che in ultimo lasciavano traccia di frasi compiute, in greco antico o aramaico, perfino arabo, anche copto, o egiziano, demotico, ieratico, pure geroglifico da alcune figure che ne scaturivano, di sicuro comunicavano all’umanità in tutte le lingue. Pareva una cosa viva, un segnale. Dopo un po’ che avanzavo incantato verso la “creatura” mi accorsi di essere rimasto solo, Namagiri era svanita. Provai una sensazione mista a disagio, freddo e ansietà, quella che sicuramente avverte il neonato appena venuto alla luce. Quando arrivai tanto vicino da distinguere i caratteri impressi su quelle pergamene, notai alla mia sinistra, dietro un cespuglio di fiori che parevano girasoli, due uomini, uno seduto a lato di una duna sormontata da un ciuffo d’erba, appoggiato al tronco dell’unica palma, tanto inclinata da sfiorare il suolo, era assorto nell’osservare i gabbiani che lontani volavano bassi ad accarezzare il mare, l’altro adagiato sulla rena poco distante con le mani unite a cingere le gambe, il mento poggiato sulle ginocchia. Entrambi parlavano tra loro a bassa voce, sussurravano, senza guardarsi, fissando l’orizzonte, e chissà cos’altro, parevano soddisfatti, appagati, in pace.
– Descrivimi quei due uomini, presto!
Egli non aveva mai usato un tono così perentorio, di comando, tanto più verso l’unico amico che abbia mai avuto ma l’indiano cerca di non farsi condizionare, nega all’altro ogni possibilità di distrarlo da quanto deve riferire.
– Lasciami terminare, è importante ciò che voglio dire, e il tempo sta per scadere.
– Dimmi solo che aspetto avevano, per favore. Cerca di descriverli.
– Uno molto elegante, quello accanto alla palma, aveva un orecchino al lobo sinistro, lunghe basette. Dal berretto da capitano portato con noncuranza sulle ventitré direi che avrebbe potuto essere un comandante di marina, giaccone blu doppiopetto, bottoni dorati, pantaloni bianchi abbondanti, larghi in fondo, cravattino nero, aveva…
– L’altro?
– …teneva tra le labbra un sigaro sottile. L’altro non saprei, piuttosto anonimo, camicia bianca, pantaloni neri, occhi da esaltato ma quieti. Che importanza ha? Hai detto qualcosa…
– Niente! Parlavo a me stesso. Cosa accadde dopo?
– Quando si accorsero della mia presenza uno di loro, il marinaio, andò a raccogliere le pagine, interrompendo il loro ciclo terra aria, le legò insieme con un elastico dopo averle impilate con cura come fossero numerate. Al momento che gli fui di fronte me le diede con delicatezza per consentirmi di osservarle, come se mi stesse aspettando. Disse che in realtà il vero leggìo ha infinite posizioni, come le incomprensioni tra gli uomini, il terzo decimale del quoziente di meno un dodicesimo, che è proprio tre periodico…
– Il tuo teorema! Che ne poteva sapere lui?
– Sapeva, sapeva… tutto. Aveva un sorriso rassicurante. Aggiunse che si sono fermati a nove per concentrare il potere, impedire che si raggiungesse l’apice. Contai quei fogli come si fa con un mazzo di carte, erano 14, in pergamena di capretto, sgualciti dal tempo, scritti fittamente in una lingua sconosciuta, macchiati, e ciascuno di essi riportava disegni, anzi direi simboli, anagrammi, esattamente al centro di ogni facciata, di sicuro non appartenenti alla nostra realtà. Capii subito che erano le pagine mancanti del manoscritto di cui ti ho parlato.
– E cosa c’entra tutto questo con la storiella che mi devi raccontare?
– C’entra, c’entra… la soluzione non è nel contenuto e nelle figure riportati su quei codici, almeno non solo, ma il loro disporsi indica la strada, i segnali che quelle pagine hanno la capacità di concertare, ogni sosta della danza che eseguono è un messaggio e l’insieme una frase comprensibile a chiunque. Credimi, sono astronavi del pensiero unico, programmate per penetrare i nostri dubbi.
– Soluzione di che? Quali segnali?
– È molto più semplice di quanto tu possa immaginare, lasciami finire ti prego, poi capirai se, come penso, fai parte degli illuminati.
– Continua! Che accadde dopo? Perché sei tornato?
– Perché sono tornato? Per te… quel marinaio mi tolse di mano i fogli, garbatamente ma con decisione, dicendomi che preferiva conservarli lui, aggiunse che a loro avevano già parlato, in tutte le lingue, idiomi, dialetti, insomma in ogni forma di comunicazione tra umani, e forse chissà in quali altri gerghi, anche non di questo Mondo, tutto era chiaro, il Mistero svelato, e quando il suo amico ci raggiunse mi riferì ciò che sto per dirti. Poi tutto si dissolse ed eccomi qua.
– La storia?
All’indiano si illuminano gli occhi, è estasiato. Possibile che la soluzione fosse così a portata di mano? Semplice, definitiva, dimostrata, incontestabile. Guarda il cielo e pregusta la gioia di poter soddisfare ogni incubo dell’amico, offrire pure a lui l’armonia con il Creato. È un suo lieve scossone che lo riporta al punto.
– La storia?
– Tu sei uno dei pochi che potrà comprenderne appieno il significato intimo, elementare e proprio per questo celato nei dirupi dell’illimitata presunzione dell’uomo.
– La storia!
– È una parabola. Tu ne sai tante vero? Direi tutte, so anche questo.
L’amico scuote leggermente la testa e risponde con sicurezza.
– Sì! Certo!
– Eh già! Ah… lo sapevo, sicuro.
Era la prima volta che l’indiano sorrideva, forse l’unica in tutta la sua vita.
– Questa non la conosci o almeno non l’hai soppesata, peggio ancora mai presa in considerazione, insomma ti è sfuggita.
– Che hai? Cosa stai guardando? La tua espressione è strana.
– C’era una volta… […]

Mauro Giovanelli – Genova
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IL LEGGÍO A NOVE POSIZIONI – SANTA MERETRICE

ESTRATTO DA
“IL LEGGÍO A NOVE POSIZIONI”
Di Mauro Giovanelli
EDIZIONE SPECIALE CONCORSO NAZIONALE “LaFeltrinelli Il mio libro” sezione Narrativa

CODICE ISBN: 9788892346161
PAGINE 196
COPERTINA MORBIDA
INTERNO BIANCO E NERO

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SANTA MERETRICE

[…] La donna si passa un batuffolo di cotone lungo le spalle, sul petto, nella parte lasciata scoperta dalla camicetta leggera appena sostenuta dai seni perfetti, giovani. Una spallina è abbandonata lascivamente lungo il braccio a dichiarare l’appartenenza all’uomo. La carnagione creola è liscia e profumata, il viso di una Madonna delle Ande tanto la dolcezza ha aderito a quell’ovale perfetto. Gli occhi grandi, neri e profondi esprimono soddisfazione femminile per aver dato godimento all’uomo, essere piaciuta e desiderata, compagna e consolatrice. Osserva con languore l’amante che si sta rivestendo nella speranza di attirare ancora la sua attenzione e cogliere in lui l’appagamento dei sensi. Bella, bellissima, fronte proporzionata, liscia, naso meticcio, regolare, muliebre, le orecchie precise, i capelli nerissimi, lucidi, con riflessi della notte, anche per la leggera patina del sudore di un rapporto appena consumato. È seduta accanto a un robusto tavolo in noce e mentre con calma e serenità immerge il tampone nella piccola coppa per raccogliere altra essenza profumata, non stacca lo sguardo dal viso del compagno, e quello sguardo è ammiccante, generoso, dice che è pronta ancora ad offrirsi, non fosse bastato. Lui la osserva malinconico, studiandola come fosse l’ultima volta e volesse imprimere quell’immagine nella sua mente. Fatica ad infilarsi il secondo stivale poi, con uno strattone, ecco fatto. Si alza, abbottona distrattamente la camicia, pensieroso, pure i polsini, continua a guardare la femmina, un’opera d’arte definitiva, creatura perfetta. C’è calore in quell’istante, più profondo e intenso di qualunque altro vissuto, e rimpianto. Come un fulmine il ricordo della donna amata rischiara i suoi occhi. Dopo aver allacciato i pantaloni controlla il revolver traguardando il tamburo, i colpi ci sono tutti, con determinazione ripone l’arma nel fodero. Raccoglie l’automatica, fa scorrere il carrello per mettere la pallottola in canna, poi dedica molta cura nel riporla dietro la schiena, sotto la cintura. Nell’istante in cui si infila il gilè viene interrotto da un vagito, scosta il lenzuolo steso a fare da divisorio, un bimbo si agita nella culla, vuole la sua parte. Ora verifica ogni tasca, ritrova le sue cose, l’astuccio del tabacco, cartine, fiammiferi, e quello che sapeva doveva esserci, un sacchetto in pelle con monete d’oro. Ne raccoglie alcune, le conta facendole saltellare nella mano, ci ripensa, torna in sé e le depone tutte sul letto. I due si guardano e il loro discreto, impercettibile sorriso è la storia del mondo. Questa volta il rumore che ode improvviso non proviene dalla culla, egli va alla finestra, solleva cautamente la tendina, e lungo il corso in direzione contraria a quella da lui presa non più tardi di due giorni fa, una folla immensa procede lentamente intonando laudi e preghiere. A guidare questo corteo, al centro, un’accozzaglia di pezzenti, alcuni in abito bianco, altri vestiti di sacco, a piedi nudi, in processione di penitenza, propiziano il Signore, volto coperto, corona di spine in capo, piedi nudi, flagelli in mano. In questa lunga sfilata nobili e plebei, vecchi e giovani, a due a due, preceduti da gonfaloni e da cappellani con la croce, piangono mentre si fustigano a sangue le spalle, il torace. Cento, mille, avanzano lenti, cadenzati invitando tutti a pentirsi dei loro peccati. A un segnale il corteo si ferma, i frati aspergono incenso a simboleggiare l’essenza divina del Cristo. Uno degli incappucciati dirige la litania:
– O Dio, creatore e custode di ogni cosa, concedici di essere ministri della tua carità secondo lo spirito del Tuo Verbo.
– Per questo ti preghiamo – risponde in coro la folla.
– O Padre, concedici di giungere alla perfezione della carità evangelica.
– Per questo ti preghiamo.
– O Padre, santifica con il tuo Santo Spirito i nostri corpi infetti.
– Per questo ti preghiamo
– Signore Gesù, benedici le nostre carni martoriate.
– Per questo ti preghiamo.
I flagelli con cui si percuotono sono composti da una specie di bastone dal quale, sul davanti, pendono tre robuste corde con grossi nodi a loro volta attraversati da spine di ferro incrociate, molto appuntite, che li passano da parte a parte sporgendo dal nodo stesso per la lunghezza di un chicco di riso o anche più. Con questi strumenti i disgraziati si battono il busto nudo, così che si gonfia, assume una colorazione bluastra, si deforma, mentre il sangue scorre in ogni direzione imbrattando il selciato.
– Signore, donaci la forza di portare insieme ogni pena che incontriamo sul nostro cammino.
– Per questo ti preghiamo.
– Signore, accompagnaci nella missione della vita terrena per ritrovarci uniti per sempre nella gioia del tuo Regno.
– Per questo ti preghiamo.
– Signore, nostro Padre e nostro Dio, per la rinuncia alle tentazioni di questa vita terrena voglia tu accogliere le nostre speranze per il mondo che verrà.
– Per questo ti preghiamo – fa eco quella congrega di fanatici.
Alcuni si configgono spine di ferro in profondità nella carne, nelle cosce, al punto che per toglierle devono fare ripetuti tentativi, poi ricominciare. Le donne si tirano i capelli, a volte ne rimangono ciuffi nelle mani, stramazzano a terra e urlano, indemoniate, si strappano le vesti, tutto un contorno di isteria collettiva.
– E aiutaci a preparare l’avvento del regno dello spirito, donaci la salvezza eterna.
– AMEN! – Risponde all’unisono la moltitudine, ed è un segnale.
La processione riprende. L’uomo osserva questa macabra rappresentazione, la mortificazione della carne, spettacolo osceno. La sua convinzione si fa sempre più forte. Ormai la risposta l’ha avuta, ora si tratta di apporre il sigillo.
– È per placare l’ira divina – dice ingenuamente la donna che lo richiama alla realtà, tanto per dire.
Lui si volta di scatto, vede la purezza fatta persona che con un cenno del capo lo invita a restare, gli occhi languidi, profondi, incantevoli, lo reclamano. L’uomo getta un rapido sguardo al bambino, ritorna alla donna, abbassa la testa per vestire il cappellaccio nero, un vecchio Stetson a tesa larga e calotta schiacciata, apre la porta, la chiude dietro sé.
È l’oste che lo blocca sulla veranda.
– Mi sembri più rilassato, quasi un’altra persona, anche se non hai perso l’aspetto di uno che sembra aver fatto molto cammino, più ti quanto la tua età potrebbe far supporre. Mi sbaglio?
– Così sembrerebbe. No, non sbagli.
– Ne valeva la pena?
– E chi lo sa! Per la carne, forse. Solo per quello.
– Carne? Che stai dicendo? […]

Mauro Giovanelli – Genova
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TANTO PEGGIO di Jacques Prevert

TANTO PEGGIO
di Jacques Prevert

Fate entrare il cane coperto di fango
tanto peggio per quelli a cui non piacciono
nè i cani nè il fango
Fate entrare il cane completamente coperto dal fango
tanto peggio per quelli a cui non piace il fango
che non capiscono
che non conoscono il cane
Fate entrare il cane
e che lui si scuota
Si può lavare il cane
e l’acqua anche si può lavare
ma non si possono lavare quelli…
Quelli che dicono che amano i cani “a patto che”…
Il cane coperto di fango è pulito
il fango è pulito
Anche l’acqua è pulita talvolta
Quelli che dicono “a patto che…”
quelli non sono puliti…
Assolutamente no.

Jacques Prevert

Mauro Giovanelli – Genova
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EFFETTO “DOMINIO”

EFFETTO “DOMINIO”

…Amato I, Ciampi, Berlusconi I, Dini, Prodi I, D’Alema I, D’Alema II, Berlusconi II, Berlusconi III, Prodi II, Berlusconi IV, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni… (Salvini?)… (Martina?)… Non può essere un caso!

Mauro Giovanelli – Genova
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BONICA

BONICA

Quando scruti il cielo
osserva con attenzione
la continua metamorfosi
delle nuvole,
l’incessante diradarsi e ricomporsi,
gli squarci di sereno,
le stelle e il loro brillio sul mare,
gli infiniti riverberi…
Ti giungerà il fioco bagliore
di un lontano vascello.
Oltre l’orizzonte
è riflesso da un fitto
banco di nebbia
che dirada,
avanza…
Carico di domande
ed una sola risposta.
Ti amo!

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza: Foto Mauro Giovanelli, “Rosa Bonica nella nebbia”

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