HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Me medesimo, prefazione a “ECCO PERCHÉ JUANITA” Arequipa, Perù, 28 ottobre 2011 – Genova, 27 gennaio 2012 1a Edizione Illeggìoanoveposizioni, 27 gennaio 2012 Volume non in vetrina

Alcune considerazioni su questo lavoro. Due righe su di me.

Potrebbe essere una buona antologia. Oppure una cosa insensata. O una tesi, un componimento, anche una favola. Comunque credo sia una discreta idea. Specialmente quando nasce da un’esigenza che è difficile spiegare. Credo, però, di conoscerne la causa: una memoria eccellente (solo per ciò che trovo interessante) che mi accompagna ovunque. Lo strumento invece sono le buone letture, mie fedeli amiche fin dall’infanzia merito l’educazione ricevuta da mamma, papà e la sorella maggiore. Quindi da “Pinocchio”, “Il capitano di quindici anni” o “Il corsaro nero” piuttosto che “Il barone di Munchausen” e “Il tesoro della Sierra Madre” sono precocemente saltato, usando i punti di appoggio dei Cronin, Vicki Baum e l’indimenticabile “Il villaggio sepolto nell’oblio” di Theodor Kròger, ai Melville, Cervantes, “La saga dei Forsyte” poi ancora “L’amante di lady Chatterley” e tanti altri della famosa superba collana Omnibus Mondadori. Ricordo benissimo quanto ero attratto dalle illustrazioni delle copertine. Approdare poi, in breve tempo, ai Calvino, Cassola, Moravia, Pratolini, Fenoglio, Pavese, seguire le tracce di Hemingway e Caldwell per passare ai “maledetti americani” del calibro dei Ginsberg, Burroughs e Kerouac è stato facile perché inevitabile. I dissociati da questi ultimi, o “seconda generazione”, quelli del tipo Bukovski, Henry Miller, Fante tanto per intenderci, hanno avuto un particolare irresistibile fascino, la mia personalità ne è stata influenzata non poco. Sbarcare sui classici russi, i francesi Camus, Mauriac e Sartre, i tedeschi tipo Gunter Grass, il portoghese Fernando Pessoa, i latino-americani della statura di Márquez, gli ebrei americani alla Philip Roth, i Cormac McCarthy… è stato utile per sfociare infine nella filosofia alla ricerca di risposte impossibili. Per quelli della mia generazione Marcuse è stata una tappa obbligata. Se aggiungo che il 27 febbraio 1945 sono nato a Genova dove risiedo, sono sposato, ho due figlie, due splendide nipotine, Lucrezia e Angelica, ho fatto diversi lavori che in fondo non mi piaceva fare e ho avuto incarichi e mansioni di responsabilità che non avrei voluto avere, ecco che ho anche completato la mia biografia.
Questo non è un libro nel senso stretto del termine, cioè, tanto per restare in tema, una “creazione” nata dall’idea buttata giù dall’estro di una persona che vuole raccontare una storia. Neppure lo classificherei un saggio, anche se gli somiglia. Lo definirei, come dice il sottotitolo, un “arabesco”, un “ordito”, una “mescolanza” dei pensieri di diversi autori che, a mio avviso, hanno affrontato l’unico vero tema sensibile dell’umanità le cui ramificazioni s’intrecciano con la lotta tra il Bene e il Male, la ricerca del destino dell’uomo, il significato della sua presenza in questo immenso spazio, l’enigma del fine ultimo, il rapporto con le Chiese e le religioni imperanti. Tutto quanto visto da angolazioni diverse ma sempre convergenti su questi ossessionanti interrogativi.
La sua “costruzione” non è stata semplice per i motivi che spiegherò più avanti. Per gli autori geniali qui citati è sicuramente meno difficoltoso edificare ex novo partendo dalle fondamenta piuttosto che assemblare perfette opere architettoniche come in questo mio modesto lavoro.
C’erano una volta quattro grandissimi scrittori, Saramago, Bulgakov, France e Dostoevskij, che, fra tutte, hanno composto in particolare quattro opere da sembrare fatte apposta per essere messe in fila una dietro l’altra al solo scopo di realizzare una profezia. Ho ritenuto che la loro unione potesse tradursi in un nuovo Vangelo, ovviamente apocrifo, oppure in un romanzo lungo di fantascienza. La cronologia è perfetta. Allora l’impulso è stato irrefrenabile. Mi si era insinuata una spina nella mente e dovevo assolutamente toglierla. Era maturata in me la convinzione che in un modo o nell’altro gli Autori avessero un comune denominatore che è poi di tutti, compresi quelli che dichiarano di esserne esenti, cioè la ricerca di risposte ai troppi dubbi che la vita impone. Questi quattro scritti, stavo dicendo, sono stati creati apposta per coniugarsi tra loro. Almeno così mi è sembrato. Come se gli ideatori avessero stretto un patto segreto. Congruenti gli accadimenti che vi si narrano, i diversi stili irreprensibili, sublimi, non potevo fare a meno di realizzare l’intreccio. In conclusione: mi erano stati forniti i pezzi per mettere insieme questo gioco d’incastri e ho assolutamente dovuto lavorarci sopra per vedere come sarebbe stata l’opera finita, e poi che occasione unica aver la possibilità di poter mettere in bocca a Dio, Satana e Jeshua le risposte alle domande che ci poniamo. Non avevo alternative. Tra l’altro ne intravedevo l’utilità per il potenziale lettore, come se per lui dovessi posizionare uno scivolo per invogliarlo a calarsi nel mondo della letteratura e filosofia con estrema facilità e renderlo partecipe degli stessi quesiti che questi scritti hanno insinuato nella mia mente. A questo scopo, per dirne una, del vangelo di Saramago ho evitato di citare la grandiosa descrizione dell’incisione del Dürer sulla crocifissione, roba da palati finissimi, per affrontare direttamente il “racconto” vero e proprio. Così, senza preamboli, al fine di catturare da subito l’attenzione e la curiosità dell’anonimo e paziente interlocutore. In generale una “storia” suscita maggiore interesse che l’analisi, eccelsa, di un’opera d’arte. E questa è una vera storia, anzi la storia.
In totale gli scrittori, poeti, registi, filosofi riportati, sono una cinquantina, autentici giganti della cultura mondiale. I quattro che costituiscono la spina dorsale dell’intero percorso già li ho nominati, gli altri, dei quali ho raccolto i riverberi, li incontrerete di volta in volta. Per ciascuno ho riportato i vari riferimenti fin dove la memoria mi ha aiutato. Sto lavorando a questo libro da qualche tempo, adesso che l’ho terminato, mi lascerà un gran vuoto. La “costruzione” ha richiesto diversi aggiustamenti per poter “incastrare” adeguatamente e coerentemente la cronologia e gli avvenimenti narrati nelle opere degli autori che ne costituiscono le fondamenta. Ho dovuto quindi prendermi qualche licenza e tante libertà. In concreto e in ordine sparso:
La conclusione del dialogo tra il cavaliere di ritorno dalle crociate e la morte l’ho adeguata allo spirito di tutta l’impalcatura. Ne “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, Antonius Bloch incarna il secondo e il terzo dei tre paradigmi di uomo teorizzati dalla filosofia di Kierkegaard: l’etica e la religiosità rappresentati in un solo personaggio, il cavaliere appunto. L’esempio del nobile che ha svolto il proprio dovere andando in guerra (etica) si coniuga con la sua forte tensione di ricerca del divino (religiosità) che lo pervade durante il viaggio di ritorno in patria. Egli ha come unico obiettivo il ricongiungimento con la moglie e sfida a scacchi la Morte per rinviare il momento della sua dipartita. Nel nostro racconto si è omesso che per vincere il confronto, la Morte lo inganna due volte, la prima durante la sua confessione: fingendosi un frate, la Morte ottiene dal cavaliere utili informazioni circa la strategia che intenderà adottare per le prossime mosse sulla scacchiera; la seconda quando, con un movimento del suo ampio e nero mantello, scompiglia i pezzi del gioco per ricomporli a suo favore. Invece nel nostro racconto il dialogo dei due personaggi si concentra esclusivamente ai dubbi e tormenti del cavaliere. Mi pare anzi di ricordare che non si faccia alcun cenno della sfida a scacchi tra i due. A incarnare invece il primo dei tre paradigmi di Kierkegaard, cioè l’estetica è Jons, il fido scudiero di Antonius Bloch. Egli è uomo cinico e pragmatico legato alla soddisfazione terrena e al puro godimento fisico. Vuole ottenere il massimo dei piaceri che la vita può concedergli e il suo essere è riassunto nelle parole che esprimono il suo pensiero: “La miapancetta è tutto il mio mondo, la mia testa è la mia eternità, le mie mani due soli meravigliosi, le mie gambe sono i dannati pendoli del tempo, e i miei
piedi sporchi sono le due splendide basi della mia filosofia. Tutto quanto ha esattamente il valore di un rutto, l’unica differenza è che un rutto dà più soddisfazione”. Anche con questo personaggio mi sono preso qualche libertà.
Nei primi due libri, “Il Vangelo secondo Jeshua Cristo” e “Il Maestro e Margherita”, la morte di Giuda di Kiriat avviene in due diversi modi. Intanto in Saramago Giuda non è un traditore bensì esegue un ordine preciso di Jeshua. È lo strumento necessario al completamento del disegno divino. Non prende denari per la delazione, e subito dopo aver compiuto la sua missione, s’impicca a un albero di fico perché non riesce a sopportare il peso di tale macigno. In Bulgakov invece Giuda si vende per trenta tetradracme per essere poi assassinato e rapinato della borsa con il denaro. Per conciliare questi due aspetti rispettando ciò che gli autori hanno concepito ho dovuto fare ricorso a un artificio. Durante il tragitto di Jeshua verso il patibolo, circondato dalle guardie di Erode che lo scortano, l’uomo trovato impiccato all’albero di fico è somigliante a Giuda di Kiriat al punto che Jeshua s’inchina per osservare attentamente il suo volto deturpato. L’artificio ha dovuto anche conciliare le due personalità di Giuda di Kiriat che in Saramago è un fedele discepolo del Cristo mentre in Bulgakov è un uomo normalissimo con tutte le debolezze che gli competono. Altre sono le differenze che si è reso necessario “incastrare” e “adattare” una con l’altra come nell’interrogatorio di Jeshua da parte di Ponzio Pilato e nel colloquio fra Dio, Satana e Jeshua in barca fra le acque del mare di Galata. Nello specifico:

  • In Saramago Jeshua è affisso alla croce con chiodi che gli perforano i polsi nello spazio fra le due ossa (radio e ulna) al contrario di quanto sovente viene raffigurato nell’iconografia classica che vede il Cristo, crocifisso con chiodi conficcati nelle mani. Cosa quest’ultima impossibile anche “tecnicamente” poiché tale sistema non avrebbe consentito che il corpo del condannato potesse essere sorretto senza provocare la completa lacerazione delle stesse. Un’ipotesi è che ciò fosse una crudeltà ulteriore.
  • Il tragitto fino al Golgota è compiuto a piedi. Il mendicante (Satana) lascia la ciotola ai piedi della croce, dove è raccolto il suo sangue dopo averlo dissetato con una spugna imbevuta di acqua e aceto.
  • Personaggi di contorno sono tutti i discepoli.
  • Uno dei tre pastori (Magi) è il diavolo.
    In Bulgakov:
  • Jeshua è affisso alla croce con corde che gli legano le braccia alla traversa del patibolo.
  • Il tragitto fino al Golgota è compiuto su un carro, insieme ai criminali Disma e Hesta, dove sono deposti anche i pali degli strumenti di tortura.
  • È il boia che disseta Jeshua con la spugna prima di finirlo con la lancia.
  • Solo Giuda Iscariota (di Kiriat) e Levi Matteo sono suoi amici e compagni.
  • Levi Matteo s’impossessa di un coltello per tagliare le corde e liberare il corpo di Jeshua dalla croce. Ho dovuto fargli eseguire la stessa operazione sui chiodi con siffatto strumento, evidentemente improprio a tale scopo. Sommando quindi questa complicazione alla fretta, l’ansia e il dolore intimo dell’apostolo, questi nel manovrare l’attrezzo ferisce anche i palmi delle mani del Cristo provocando profonde lacerazioni. Ecco, tra l’altro, come potrebbe essere spiegata la presenza delle stigmate.
  • Amici fedeli di Ponzio Pilato sono Afranio (capo del servizio segreto) e l’Amazzatopi.
  • Nella parte finale del supplizio Levi Matteo porta via il corpo di Jeshua.
    In Anatole France il solo L. Elio Lamia è prezioso e insostituibile collaboratore di Ponzio Pilato.
    In Dostoevskij:
  • Si è eliminato il dialogo tra i due fratelli Ivan e Alesa quindi è rimasto solo il confronto fra Jeshua e il Grande Inquisitore.
  • Alla frase pronunciata dal Grande Inquisitore “il Grande Spirito ti parlò nel deserto” è stato aggiunto “e in mezzo al lago di Galata” per rendere il tutto congruente con il vangelo di Saramago.
    Nel capitolo che fa da “ponte” tra il finale del vangelo di Saramago e l’inizio del Ponzio Pilato di Bulgakov sono evidenziate in corsivo le parti del primo inserite nell’episodio dell’altro e viceversa.
    Tutte le citazioni sono in corsivo tra virgolette e così i “pezzi” di altri autori inseriti nello sviluppo della narrazione vera e propria. Ho inoltre applicato un diverso carattere grafico “normale” a quanto è stato aggiunto dal sottoscritto per poter “modellare” gli incastri tra un autore e l’altro.
    L’illustrazione di copertina è un’opera dell’amico e artista genovese Enrico Bafico che si attaglia perfettamente all’argomento. Le dotte conversazioni fra noi mi hanno dato lo stimolo per comporre quest’arabesco letterario.
    Mauro Giovanelli – Genova, 27 gennaio 2012

Ecco perché… Juanita (spagnolo: Momia Juanita), è il nome di una bella bambina che tra il 1440 e il 1450 d. C. fu sacrificata dai sacerdoti Inca al Dio Apu Illapu (conosciuto anche come Illapa, Ilyap’a, Katoylla) che era il dispensatore della pioggia e del tuono. Un Dio molto importante e venerato dalla gente, dato che la pioggia era fondamentale per la vita. Gli Inca credevano che Apu Illapu prendesse l’acqua della pioggia dalla Via Lattea e la portasse fino a loro. I templi di Apu Illapu solitamente erano situati in luoghi molto elevati. Quando le persone invocavano la pioggia, si arrampicavano fino al tempio e celebravano un sacrificio. In periodi di grande siccità gli erano offerti sacrifici umani. Si riteneva che Apu Illapu agisse in accordo con Apocatequil, il Dio della luce e dei lampi. Si narrava inoltre che, soprattutto in occasione di tempeste molto violente, i due Dèi lavorassero insieme per placarle. La mummia di questa bambina fu rinvenuta vicino alla vetta del Monte Ampato (parte della cordigliera delle Ande), nel Perù meridionale, nel settembre del 1995, dall’antropologo Johan Reinhard e dal collega peruviano Miguel Zarate. L’Ampato è un vulcano delle Ande. La sua vetta raggiunge i 6.288 metri e fa parte di un gruppo di tre grandi stratovulcani, insieme all’Hualca Hualca, 6.050 metri, e al Sabancaya, 6.040 metri.
Nota anche come Signora di Ampato o Ragazza congelata, la piccola Juanita, al momento della sua morte, aveva l’età di circa 12-14 anni.
Tra i molti cerimoniali che si officiavano per quest’offerta, era previsto che la Bambina fosse portata al luogo del rituale da una corte di persone importantissime della regione, essendo attesa e poi ricevuta dal gran sacerdote Inca il quale le avrebbe trasmesso la divinità. Da quel momento la Bambina assumeva la realtà della sua morte e il contatto con gli dèi della montagna, per cui era pronta per il viaggio senza ritorno verso la sua deità. Ci furono grandi festeggiamenti e liturgie. Prima che un colpo sicuro sull’arco sopracciliare destro le provocasse la morte, la bimba fu addormentata. Fu l’eruzione del vulcano Sabancaya, che favorì il disgelo della vetta del vicino Ampato, la causa prima del ritrovamento della mummia, ritenuto una delle più importanti scoperte recenti. La Bella Bambina del vulcano Ampato è oggi mostrata al mondo affinché la scienza e le cognizioni umane traggano profitto dallo studio dei suoi resti ottimamente conservati. Uno scrigno prezioso d’informazioni per ogni disciplina.
Al Museo Santuarios Andinos di Arequipa, mentre osservavo la mummia della piccola Juanita e ascoltavo la spiegazione asettica che la guida dava del suo dramma, ebbi finalmente l’ispirazione per il titolo da dare a questo mio componimento. Ci stavo lavorando da diverso tempo, volevo raccogliere le prove dell’unico, vero e autentico messaggio che i resti di questa bimba ci trasmettono. Esso è nell’affermazione di uno dei più grandi fisici e filosofi della storia:

“Ci sono due cose infinite: l’Universo e la stupidità umana, ma riguardo all’Universo ho ancora dei dubbi…”. Albert Einstein

Mauro Giovanelli, Arequipa, Perù, 28 ottobre 2011

A proposito della follia umana:

“Sia Clark, che ha guidato la spedizione dell’anno scorso nella zona più remota dell’Etiopia settentrionale, sia Tim D. White dell’Università di Berkeley, hanno anche affermato che un riesame condotto su un cranio umano fossile di trecentomila anni fa trovato in precedenza nella stessa regione ha dimostrato che il proprietario era stato scalpato”.
“The Yuma Daily Sun”, 13 giugno 1982

“L’uomo che crede che i segreti del mondo resteranno nascosti per sempre vive nel mistero e nella paura. La superstizione lo trascinerà in basso. La pioggia eroderà gli atti della sua vita. Ma l’uomo che si assume il compito di individuare nell’arazzo il filo che tutto ordisce, in virtù di questa sola decisione si fa carico del mondo, ed è soltanto facendosene carico che egli può trovare il modo di dettare i termini del proprio destino”. Cormac McCarthy

Mauro Giovanelli – Genova

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