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ISTINTO GLOBALE

ISTINTO GLOBALE

Anthony Hopkins è magistrale nell’interpretare la parte del naturalista Ethan Powell, in attesa di giudizio fra le mura di un ospedale psichiatrico. L’accusa è omicidio. Il silenzio in cui si è rinchiuso viene penetrato dal dott. Theo Caulder (Cuba Gooding Jr.), determinato e competente psichiatra che più si addentra nella mente dello scienziato più questi si insinua nella sua, finché nell’orrore che ha travolto l’uomo vedrà riflesse le ambizioni che insegue, specchio di un mondo bestiale, il nostro. Chi non avesse visto “Istinto primordiale”, pellicola di Jon Turteltaub, è meglio corra subito ai ripari.
Il film, comunica allo spettatore una sorta di percorso inverso. Infatti non è l’antropologo ad aver commesso il reato, al contrario sono i cacciatori di frodo che, insinuatisi nel branco di gorilla dove lo studioso si era inserito, ne fanno una carneficina. Gli assassini sono loro. Uccidendo un paio di queste canaglie per fermarle, Ethan Powell ha difeso il territorio, la sua famiglia, ha fatto giustizia. In un dialogo tra i due protagonisti si coglie la vera essenza del messaggio che si vuol dare, in particolare quando lo scienziato racconta al medico l’esperienza vissuta nella giungla con i primati. “…Avevo perfino bisogno di loro” gli dice “ad un tratto, senza preavviso, accadde, non mi sentivo più un intruso, per la prima volta ero nel gruppo, lì nel cuore di quella foresta, lontano da tutto ciò che conosci, che ti è stato insegnato a scuola, dai libri o dalle canzoni, dalla poesia… trovi la pace, l’affinità, l’armonia, finanche la sicurezza”. “C’era violenza?” domanda lo psicoterapeuta affascinato da quella storia. “No! C’erano… segnali. Mi avvicinai a un cucciolo, intervenne la madre, dovetti allontanarmi ma… quando capì, fu lei a portarmelo. Era una brava madre e una valida maestra, il piccolo era sempre protetto, disciplinato, seguito, sempre accarezzato, al sicuro, vegliavamo su di lui, come il vecchio capobranco vigilava su tutti noi, anche su di me. È sorprendente la sensazione di essere protetto, nel suo sguardo ho scoperto più che semplice sorveglianza… c’erano tolleranza, accettazione.”
Segnali al posto della violenza, protezione anziché abbandono, il capobranco che controlla. È la società dei gorilla descritta da Dian Fossey, la zoologa statunitense mancata il 26 dicembre 1985 dopo un vita dedicata e trascorsa fra questi animali.
Con tutto il compatimento che mi ha provocato l’espressione smarrita di Dell’Utri, seduto all’ultimo posto di un volo di linea, destinazione carcere, dico che mi ha fatto riflettere l’annuncio che sarà portato all’ospedale della casa di pena per essere “monitorato”. È giustissimo che ci si preoccupi della sua salute, come di chiunque altro, e sacrosanto preservare la dignità dell’uomo. Però mi domando… Federico Aldrovandi? Studente ferrarese di 18 anni perito il 25 Settembre 2005 per “anossia posturale” causata dal caricamento sulla schiena di uno o più poliziotti durante l’immobilizzazione. Stefano Cucchi, 31 anni? Deceduto il 22 ottobre 2009 nel reparto detentivo dell’Ospedale “Sandro Pertini” di Roma a seguito di un “fermo”? Riccardo Boccaletti, 38 anni? Dopo il suo ingresso in prigione per reati legati alla droga non gli furono forniti gli interventi specialistici che il grave e disperato quadro clinico avrebbe richiesto, morì il 24 luglio 2007 nel penitenziario di Velletri. E Riccardo Rasman, 34 anni? Giulio Comuzzi, 24? Manuel Eliantonio, 22? E tanti, tanti altri. In questi casi il capobranco dove era? Nella pellicola il gorilla anziano perde la vita nel tentativo di salvare Ethan Powell. Voi avete la sensazione “sorprendente”, come dice lo scienziato del film, di essere protetti dai capibranco che ci ritroviamo? I nostri strapagati ministri e parlamentari, tanto per capirci, quelli che ci riempiono di F24 per comprare F35, invadono le nostre abitazioni di cartelle esattoriali, logorano i cittadini con “accertamenti”, avvisi, intimazioni, perfino “istruzioni”. Per non parlare degli esosi super manager statali e parastatali nostrani. Vi trasmettono forse tranquillità, tolleranza, accettazione? Vi fanno sentire a casa vostra? E i grandi Economisti a capo dei colossi della finanza internazionale? I Banchieri? Vi infondono senso di appoggio? Pensate stiano spremendosi il cervello per noi, voi, la comunità?
A proposito, lo sapevate che oggi al mondo ci sono meno di mille gorilla di montagna? Affermazione sconvolgente ma vera. Pensate un po’ che i bracconieri uccidono questi “animali” anche per tagliar loro le mani allo scopo di farne posacenere da tavolo, per gli arredi di cui ci circondiamo, gli uffici in generale, molto richiesti dal mercato, anche questo nostro, globale intendo.

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

Immagine in evidenza ricavata dal web – Fotomontaggio eseguito dall’Autore

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IN MORTE DI LAURA ANTONELLI – Attrice italiana

IN MORTE DI LAURA ANTONELLI
Attrice italiana

Cara Laura,
quante volte mi sono soffermato ad ammirare il tuo petto, la parte lasciata scoperta dalla camicetta leggera appena sostenuta dai seni perfetti, giovani. Una spallina abbandonata lascivamente lungo il braccio, la carnagione che intuivo liscia e profumata, il viso di una Madonna, tanto la dolcezza ha aderito al tuo ovale compiuto. Gli occhi profondi esprimevano anche una sottile malinconia, a volte mi pareva non ti importasse piacere, essere desiderata per il tuo fisico, avevo la percezione volessi essere più compagna, consolatrice. Provocavi in me, come posso dire… languore, attiravi la mia attenzione perché i sensi che guardano al fascino venivano tutti soddisfatti, appagati. Bella, bellissima, fronte proporzionata, liscia, naso regolare, muliebre, le orecchie precise, i capelli mossi quel tanto da confonderli con i riflessi del tramonto in riva al mare. Non ho pudore nel dire ciò, e mai mi è capitato di provare tanta emozione per la scomparsa di una stella del cinema, ma i sogni dei quali, attraverso te, mi sono impossessato, le emozioni che mi hai regalato, il desiderio della carne che avvertivo nell’ammirarti sono la storia del mondo e della mia giovinezza. La carne è la sola cosa, essenziale, dalla quale non si può prescindere, l’unico mezzo di comunicazione con l’altra parte, la ricetrasmittente tra l’essere e il nulla. Vedere, sentire, annusare, toccare, penetrare sono attimi concessi da questo complesso involucro che ci contiene e tu mi hai fatto vaneggiare tutto ciò precocemente, e l’amore eterno, passione, sesso, dolcezza, carezze, giocare, baciare, e stringere l’altra a me, bramare il calore, desiderio di godimento, possesso, il vero rito sacrificale. La sola liturgia ad avere un senso è raggiungere così uniti l’orgasmo, quell’attimo di estrema perdizione e sommo piacere, l’unico gesto che abbia un contenuto, la vera azione che conduce ai confini ultimi del sublime, in prossimità dell’attendibile, il mezzo con cui si innesca la reazione che consente di intravedere per qualche istante il Cielo. Questo ho imparato solo guardandoti. Grazie.
Sono certo tu capisca cosa intendo dire. Starti a guardare mentre salivi quella scala in “Malizia”, il corpo flessuoso, provocante e innocente allo stesso tempo, quella visione mi è entrata nelle viscere, la tua naturalezza e sensualità toglieva il fiato, la veste lasciava intravedere per pochi istanti il tuo corpo inebriante, ancora oggi al ricordo della perfezione di quelle carni mi emoziono. È quel giorno, in un cinema di prima visione, che ho preso il mio diploma di maturità, della vita.
Questo è il senso dell’esistenza, Laura, la sola salvezza. Nell’inferno in cui viviamo è la carne, non la fede, che ci fa toccare il Paradiso. A Dio piacendo. Nei tuoi magnifici occhi, lo sguardo, con riflessi delle stelle sul mare di notte, mi ci perdevo dentro, cambiavano continuamente tonalità, rappresentavano immaginazione, tormento, rabbia, odio, estasi, inquietudine, pace. Comunicavano una predisposizione a dare amore incredibile, sprigionavi fiamme e sentimento da tutti i pori. Buona sorte ho avuto ad essere uomo, così da poterti ammirare e avvicinarmi attraverso te al mistero dell’origine del Mondo. Con queste parole voglio renderti eterna, per quello che sei stata, pure quando la vita è diventata matrigna, la malattia, la povertà e la rinuncia al desiderio di esistere.
Anche nel periodo più funesto, mi ha commosso tantissimo la spontaneità e l’affetto con i quali Lino Banfi ti è stato vicino, ha cercato di aiutarti, in quel periodo ultimo della tua vita, stavo dicendo, tu eri la giovane domestica che saliva la scala e tutto il Pianeta cominciava a ruotarti intorno.
Adesso riposa, cerca di dormire serena, abbi cura di te, sei circondata dai pensieri di molte persone, il tuo viso è ora rivolto verso le stelle e quello è il tuo posto.

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

Immagine in evidenza ricavata dal web – Fotomontaggio eseguito dall’Autore

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È MORTO “ACCATTONE” (Franco Citti ci ha lasciati – 14 gennaio 2016)

È MORTO “ACCATTONE”
(Franco Citti ci ha lasciati – 14 gennaio 2016)

È notte,
rifugio dei sognatori.
Dall’etere
vengo a sapere che
“Accattone”
è morto.
Brutto colpo,
sleale,
sotto la cintura.
Anche a lui voglio bene
come a tanti altri che vestono,
o hanno indossato,
il medesimo abito mentale.
La prima cosa
che mi è venuta in mente:
“Franco Citti sta a Pasolini
come Tibero Murgia sta
a Mario Monicelli”.
E’ un’eguaglianza,
matematica pura,
che formulo al presente
perché li tengo nel cuore,
mi accompagnano, fanno parte di me.
Ai termini che vi compaiono
ciascuno può dare
i valori che crede.
Questo cordoglio è,
o vuole essere,
ad ampio raggio d’azione,
a “campo lungo”
come si usa dire
nel mondo del cinema,
uno sguardo d’insieme
che abbraccia un’epoca…
finita.
Il modo migliore per dare
a Franco Citti ciò che gli viene,
inserirlo nella galleria dei grandi
considerando che
lui e Pasolini, patrimonio comune,
in vita non hanno avuto
i riconoscimenti che gli spettavano.
Il pensiero mi è venuto così,
di getto,
come spesso accade,
sono certo che apprezzano
poiché i distinguo
li formulavano solo
sull’animo umano,
la morale,
l’etica.
Grazie! Vi sono debitore,
tanti, troppi creditori
mi stanno girando intorno.
Il mio pensiero
si è conformato secondo
le istruzioni
da voi ricevute e,
a pensarci bene,
sapere che un giorno
vi potrei incontrare ancora,
ovunque e comunque sia
“l’oltre”,
mi rende più lieve
il trascorrere del tempo.
Un caro saluto alle grandi persone
che ci hanno provvisoriamente lasciati
anche se avverto le loro mani,
tutte,
che ancora mi guidano.
Ciao “Accattone”.
Mauro

Mauro Giovanelli – Genova

«È MORTO “ACCATTONE”» è stato pubblicato il 15 GENNAIO 2016 sul sito www.memoriacondivisa.it:

Immagine in evidenza ricavata dal web – fotomontaggio dell’Autore. A sinistra la scena del funerale in “I soliti ignoti” di Mario Monicelli. Mi sembra un accostamento appropriato… con Tiberio Murgia, degli altri non parliamo proprio. Franco Citti merita esequie, anche virtuali, con tali personaggi, suoi compagni.

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LA GRANDE BELLEZZA

LA GRANDE BELLEZZA

La grande bellezza narra degli italiani nati durante l’ultima guerra, poco prima, un attimo dopo. Quelli che nella cornice più bella del mondo hanno aggredito gli anni ’60, ci sono cresciuti dentro e si sono formati, dagli orecchioni e la voce stridula, alla pubertà, lo sviluppo completo e la tempesta di testosterone che li ha travolti. Ma non erano soli. Con loro i grandi della letteratura, gli immortali registi, le musiche travolgenti e appassionate dei nostri cantautori, il genio di questo popolo. Intorno panorami e monumenti stupefacenti, l’origine della civiltà, e la Chiesa Cattolica Apostolica Romana con tutte le sue contraddizioni. Di ciò si sono nutriti, beati, e pure degli amori clandestini nei fienili durante le vacanze estive in campagna, “per far cambiare aria al ragazzo” dicevano le mamme. Tutto questo ha regalato loro il sogno e la speranza, li ha aiutati a immaginare il domani.
Oggi sono stanchi, delusi, scollati da una realtà che non gli appartiene e si limitano a considerare la pochezza della più squallida e strapagata classe dirigente del pianeta, mentre i loro figli, sbigottiti da tale, tanta e incomprensibile stupidità vorrebbero recuperare l’energia della ragazzina, artista suo malgrado, per scagliare secchiate di colore sullo sbiadito panorama che gli hanno sistemato di fronte.
L’opera di Sorrentino è la commemorazione del cinema, la chiave di volta che distribuisce il carico delle rappresentazioni di tutti i grandi della cultura nazionale e la domanda che Jep pone con apprensione alla coppia di amici “ma voi che fate stasera?” è lo smarrimento di Gassman dopo l’ultimo, fatale sorpasso, il saluto di Mastroianni che non riesce a udire il richiamo innocente della giovane, le sue parole, e si allontana nell’oblio di un’illusione, la dolce vita.
Probabilmente è di questo che parla l’unico libro scritto da Jep Gambardella, del diritto alla bellezza che ti fa accettare il senso di fine con serenità quando il vissuto ti presenta il catalogo di ciò che hai raccolto.
Il film è un’opera d’arte compiuta che non ti stancheresti mai di guardare, non ha fine, e dopo i titoli di coda potresti ritornare al metafisico ballo iniziale senza renderti conto di alcun stacco, come ammirare un altro quadro, e poi nuovamente da capo, sempre diverso, e ancora una volta nella storia infinita. È cinema “nostro” come nessun altro lo è mai stato, almeno così intimamente, e rivolgendosi all’apparato umano delle nuove generazioni cerca di comunicare ciò che i padri, di fronte allo sfacelo quotidiano di questo splendido Paese, non sono più in grado di fare. Con la sua espressione disincantata Jep li mette in guardia, dice ai giovani italiani “lottate e riappropriatevi del vostro patrimonio culturale, prezioso, unico, strappatelo dalle mani degli stupratori del futuro”.
Regia, sceneggiatura, fotografia e interpretazione magistrali sono le sfaccettature di un cristallo perfetto, tanto che Toni Servillo non sarà più quello di prima, da oggi è solo e soltanto Jep, e Verdone non uscirà mai dal Romano stritolato dal peso della città eterna. Fra musiche da lasciarti senza fiato la Ferilli ha fissato in Ramona la sua incomparabile bellezza senza età.
La galleria di fotografie che il padre fece ogni giorno al figlio, esposte in quella fantastica e surreale collezione, sono l’inutile tentativo di fermare l’attimo, recuperare e dilatare lo spazio che ci comprime e Jep, nell’osservarle, sa che “tutte quelle immagini andranno perdute nel tempo come granelli di sabbia nel deserto”. Chissà che non sia proprio questo, il deserto, a dare l’ispirazione al protagonista per scrivere un nuovo romanzo e realizzare ciò che non è riuscito a Flaubert. Raccontare il nulla da cui ripartire.

Mauro Giovanelli – Genova

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Pubblicato su “Il Secolo XIX” del 9 marzo 2014 pag. 43 con il titolo “La grande bellezza è un dono per i nostri figli”.

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POSTFAZIONE

Ogni recensione sul film di Sorrentino l’ho trovata didascalica, i critici rimangono in superficie descrivendo la città eterna così come viene magnificamente fotografata dall’assistente del regista limitandosi in alcuni casi a sfiorare appena le problematiche dei personaggi, quindi la decadenza che tutto coinvolge (anche ciò che non si vede, la periferia e un intero Paese), trascurandone alcuni che dovrebbero essere posti in primo piano per la simbologia che si è voluto dar loro. Ad esempio Romano (Carlo Verdone), l’unico vero amico di Jep (Toni Servillo) ed il solo a raggiungere il “troppo pieno” decidendo di fuggire, tornare alle proprie radici, pur nel momento in cui viene finalmente applaudito al termine della sua rappresentazione (commoventi le parole pronunciate). La performance della maga ingannatrice Talia Concept (Anita Kravos) all’oscuro delle “vibrazioni” delle quali il giornalista Gambardella chiede reiterate ed inutili spiegazioni, la bimba artista suo malgrado che lancia secchiate di colore al vuoto telone unica eredità che la generazione precedente è riuscita a trasmettere ai giovani (il vuoto esistenziale). Il boss mafioso del terrazzo sovrastante l’appartamento di Jep, l’uomo misterioso che non veste “Catellani” e solo verso la fine, al momento del suo arresto, gli dà la risposta circa il sarto cui si rivolge, “Rebecchi” aggiungendo, nel mostrare le manette ai polsi, che “persone come me hanno sorretto e continuano a farlo le sorti del Paese, produttive, non come i perditempo dell’aristocrazia e alta società romana”.
La Roma de “La grande bellezza” è sì una meraviglia ma tale aspetto è circoscritto all’inizio quando, accompagnato da una travolgente musica sacra, il turista giapponese si stacca dal gruppo per andare alla balaustra da cui può ammirare il panorama straordinario della città più bella del mondo, tanto da rimanerne folgorato.
Quasi tutti cadono nell’errore di fare un parallelo con Fellini ma la pellicola nulla ha a che fare con il grande Maestro che muoveva i suoi personaggi in una dimensione onirica (a parte “La strada” a mio avviso il suo capolavoro ed a seguire “La dolce vita”) poiché questo film è una feroce condanna dell’intera società che senza rendersene conto corre all’impazzata verso il precipizio come un branco di gnu. Ciò è molto ben espresso nella conclusione del battibecco fra la scrittrice radical chic Stefania (Galatea Ranzi) e Jep quando quest’ultimo le spiattella la verità (la medesima subirà una trasformazione abbandonando tutto per andare a far beneficenza in Africa). Ecco le parole conclusive Di Gambardella: “Stefania, madre e donna, hai 53 anni e una vita devastata come tutti noi. Anziché disprezzarci e farci la morale dovresti vederci con affetto e tenera solidarietà. Siamo tutti sull’orlo della disperazione e abbiamo un unico rimedio: farci compagnia e prenderci un po’ in giro.” Infatti è giusto tu l’abbia rimarcato “Solo pochissimi personaggi si accorgono di essere sull’orlo del precipizio, ma gli altri non solo non si scostano, ma ci si buttano dentro.”
E’ un trucco, la vita è un trucco, personalmente la definisco una pagliacciata se vai ad analizzarla al microscopio polarizzatore ed il solo momento di vera tenerezza, abbandono, oserei dire un ritorno all’umano che il protagonista ritrova si chiama Ramona (Sabrina Ferilli).
Per non dilungarmi troppo direi che Suor Maria “La Santa” (Giusi Merli), il Cardinale Bellucci (Roberto Herlitzka), il prete che ordina Champagne Cristal al ristorante dove Jep e Ramona incontrano Antonello Venditti (recita se stesso) e finanche il chirurgo plastico Alfio Bracco (Massimo Popolizio) o presunto tale che inietta botulino a 700 €uro al minuto chiedendo il doppio per le suore, ebbene tutti rappresentano la contraddizione del cattolicesimo nonché la corruzione e disattesa parola di Cristo all’interno del Vaticano. I due funerali, in particolare quello del figlio di Viola (Pamela Villoresi), sofferente di depressione e suicidatosi, sono il simbolo dell’ipocrisia incorniciato dalla descrizione che ne dà Jep definendo l’evento “l’appuntamento mondano par excellence”. L’altro, quello di Ramona, è solo menzionato.
Il film si chiude con Jep Gambardella che osserva il relitto della “Concordia” all’isola del Giglio, raffigurazione del crollo di una Nazione, obbrobrio sdraiato su un fianco, immobile, ma la mente dello scrittore va al primo grande amore non consumato (e qui ne avrei da dire), Elisa De Santis (Annaluisa Capasa), puro, vero, autentico ed in quel ricordo ritroverà la forza, chissà, di scrivere il suo secondo libro.
Oltre la sublime colonna sonora c’è da segnalare una delle più belle canzoni in assoluto di musica leggera: Loredana Bertè di “Zona Venerdì.

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

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