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William Shakespeare – Amleto – Atto terzo – prima scena.

Amleto. Atto terzo – prima scena.

“Essere o non essere; questo è il problema: se sia più nobile all’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli. Morire, dormire, nulla più: e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne, è soluzione da accogliere a mani giunte. Morire, dormire, sognare forse: ma qui è l’ostacolo: perché, quali sogni possano assalirci in quel sonno di morte, quando siamo già sdipanati dal groviglio mortale, ci trattiene: è la remora, questa, che di tanto prolunga la vita ai nostri tormenti. Chi vorrebbe, se no, sopportar le frustate e gl’insulti del tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce del respinto amore, gli indugi della legge, l’oltracotanza dei grandi, i calci in faccia che il merito paziente riceve dai mediocri, quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto con due dita di pugnale? Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando sotto il peso di tutta una vita stracca, se non fosse il timore di qualche cosa, dopo la morte, la terra inesplorata donde mai non tornò alcun viaggiatore, a sgomentare la nostra volontà e a persuaderci di sopportare i nostri mali piuttosto che correre in cerca d’altri che non conosciamo? Così ci fa vigliacchi la coscienza; così l’incarnato naturale della determinazione si scolora al cospetto del pallido pensiero. E così imprese di grande importanza e rilievo sono distratte dal loro naturale corso: e dell’azione perdono anche il nome.”

William Shakespeare 

Mauro Giovanelli – Genova
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Walt Whitman – O Capitano! Mio Capitano!

O Capitano! Mio Capitano!

O Capitano! Mio Capitano!
Il nostro viaggio tremendo è terminato,
la nave ha superato ogni ostacolo,
l’ambîto premio è conquistato,
vicino è il porto, odo le campane,
tutto il popolo esulta,
occhi seguono l’invitto scafo,
la nave arcigna e intrepida;
ma o cuore! Cuore! Cuore!
O gocce rosse di sangue,
là sul ponte dove giace il Capitano,
caduto, gelido, morto.

Walt Whitman
(Da: “In memoria del Presidente Lincoln»)

Mauro Giovanelli – Genova
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Walt Whitman – Il canto di me stesso (XXIV)

Il canto di me stesso (XXIV)

Attraverso di me le voci proibite,
voci di sessi e lussurie, voci velate cui rimuovo il velo,
voci indecenti che io rendo chiare e trasfiguro.

Io non premo le mie dita sulla mia bocca,
Tratto con delicatezza le viscere come la testa e il cuore,
il coito non è per me più indecente della morte.

Credo nella carne e nei suoi appetiti,
vedere, udire, sentire sono miracoli,
ed ogni parte, ogni lembo di me è un miracolo.

Walt Whitman

Mauro Giovanelli – Genova
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Philip Roth – “È stupefacente come si ricordi…”

“È stupefacente come si ricordi ancora con tanta precisione tutto ciò che era così immediatamente visibile nella nostra vita di compagni di scuola. Altrettanto stupefacente è l’intensità del sentimento che ci assale vedendoci oggi. Ma la cosa più stupefacente di tutte è che ci stiamo avvicinando all’età che avevano i nostri nonni il I febbraio 1946, quando ci presentammo per la prima volta alla sede distaccata della scuola come studenti del primo anno. Il fatto stupefacente è che noi, allora senza la minima idea di come sarebbero andate le cose, oggi sappiamo esattamente cosa accadde… che si sia risposto alle domande alle quali non si poteva rispondere, che si sia svelato il futuro… non è stupefacente? Essere vissuti, in questo Paese, nel nostro tempo e da quelli che eravamo. Stupefacente!”

Philip Roth – Pastorale americana, 1997, tr. it. V. Mantovani, Einaudi, Torino, 1998, pp. 45-46

Mauro Giovanelli – Genova
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John Keats – Ode all’Usignolo

Ode all’Usignolo

I.

Il mio cuore è angosciato e un sonnolento torpore
opprime i miei sensi, come se avessi bevuto cicuta,
o vuotata fino in fondo una coppa d’oppio,
solo un minuto fa, sprofondando nel Lete :
e non è per invidia della tua felice sorte,
ma per essere troppo felice della tua felicità,
che tu, o Driade della foresta, dalle ali leggere
in qualche radura melodiosa
verde di faggi e di ombre infinite
canti felicemente a piena gola tutta la gioia dell’estate.

II.

Oh, chi mi darà un sorso di vino, che sia stato
a lungo in fresco in una profonda fossa nella terra,
di un vino che sa di Flora e del verde della campagna,
e di danze e di canzoni Provenzali e di assolata allegria!
Oh! A me una coppa piena del caldo vino del Sud,
piena del vero, del rosso Ippocrene,
con bolle cristalline che ornano i bordi con perle di schiuma,
e la bocca tinge di porpora;
Oh! S’ io potessi bere e abbandonare il mondo senza essere visto,
e con te scomparire nella foresta oscura.

III.

Svanire e dissolvermi, per dimenticare per sempre
quello che tu fra le foglie non hai conosciuto mai,
l’abbattimento, la febbre e l’inquietudine della terra
qui dove stanno gli uomini ascoltando gli alterni lamenti;
dove un tremito scuote gli ultimi, radi e tristi capelli grigi,
dove la giovinezza impallidisce, si fa spettrale e muore;
dove il solo pensare è tutto un tormento
le palpebre di piombo,
ove la Bellezza non può serbare i suoi occhi lucenti,
e il nuovo Amore struggersi per essi oltre un nuovo giorno.

IV.

Via ! Via da qui ! Verso di te voglio volare,
non sul carro di Bacco e dei suoi leopardi,
ma sulle invisibili ali della Poesia,
nonostante la mia torpida mente sia tarda e perplessa;
però con te! Tenera è la notte,
e chissà, forse la Regina Luna è sul suo trono,
circondata da una miriade di Fate stellate;
Però qui non c’è altra luce
che quella che giunge dal cielo soffiata dalla brezza
attraverso verdi ombre e sentieri umidi e tortuosi!

V

Non distinguo quali fiori sono sotto i miei piedi,
né quale soave incenso scende dai rami
però nella calda oscurità, indovino ogni profumo
con il quale ciascun mese propizio dota il prato,
la macchia, il silvestre albero da frutta;
il candido biancospino e la pastorale eglantina;
le piccole violette, che presto sfioriranno nascoste tra le foglie;
e la prima delle figlie di metà Maggio,
la giovane rosa muschiata rorida di rosea rugiada,
rifugio rumoroso dei moscerini nelle notti estive.

VI

Nell’ombra ascolto; sono stato a lungo
innamorato della benevola morte, l’ho
invocata con nomi soavi nei versi meditati
affinché portasse nell’aria il mio respiro silenzioso,
ora più che mai, mi sembra bello morire,
finire alla mezzanotte senza dolore
mentre tu versi la tua anima intorno a questa estasi!
Tu ancora vorresti cantare, però le mie orecchie saranno inutili
per il tuo alto Requiem trasformato in zolla.

VII.

Non sei stato creato per la morte, uccello immortale!
Nessuna generazione affamata ti calpesta;
la voce che ascolto in questa notte fuggitiva
fu ascoltata anticamente da imperatori e contadini:
Forse la stessa canzone che si fece avanti
nel triste cuore di Ruth, quando presa dalla nostalgia
della sua casa, piangeva in mezzo al grano straniero;
la stessa che molte volte incantò,
aprendo magiche finestre sopra la spuma
di mari pericolosi , nelle fantastiche terre delle Fate.

VIII.

Questa parola è come una campana
che rintocca per richiamarmi a te dalla mia solitudine.
Addio! La Fantasia, non si può ingannare così bene,
perché essa ha fama, ingannevole Spirito.
Addio! Addio!. La tua triste elegia si perde
attraverso i prati, sopra i ruscelli silenziosi,
risale per i declivi dei colli;
per seppellirsi nelle profondità delle radure della valle vicina:
Fu una visione o fu un sogno ad occhi aperti?
Terminata è quella musica: sono desto o sono nel sonno?

John Keats

Mauro Giovanelli – Genova
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JEAN PAUL SARTRE – “Un ateo…”

“Un ateo è un originale, un pazzo furioso che non viene invitato a cena per paura che egli faccia una sfuriata, un fanatico pieno di tabù che rifiuta a sé stesso il diritto di inginocchiarsi nelle chiese, di maritarvi le figlie e di piangervi deliziosamente, che si impone di provare la verità della sua dottrina con la purezza dei suoi costumi, che s’accanisce contro sé stesso e la propria felicità al punto di privarsi del mezzo di morire consolato, un maniaco di Dio che ovunque vede la Sua assenza e che non può aprir bocca senza pronunciare il Suo nome, insomma un signore che ha delle convinzioni religiose. Il credente non ne ha: da duemila anni le certezze cristiane hanno avuto il tempo di dar prova di sé, appartengono a tutti, ad esse si richiede di brillare nello sguardo di un prete, nella penombra di una chiesa, e di illuminare le anime, ma nessuno ha il bisogno di attribuirsele; sono patrimonio comune. La buona Società crede in Dio per non parlare di Lui. Come sembra tollerante la religione! Come é comoda: il cattolico può disertare la Messa e far sposare con rito religioso i propri figli… non ha l’obbligo di condurre una vita esemplare né di morire nella disperazione, e nemmeno di farsi cremare.”

JEAN PAUL SARTRE

Mauro Giovanelli – Genova
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Giacomo Leopardi – L’INFINITO

L’INFINITO

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Giacomo Leopardi

Mauro Giovanelli – Genova
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Francesco Petrarca – “Solo e pensoso…”

Solo e pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman l’arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo ormai che monti e piagge
e fiumi e selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io con lui.

Francesco Petrarca
Mauro Giovanelli – Genova
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