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Da “Il leggìo a nove posizioni” di Mauro Giovanelli, edizione 2023 riveduta.

“Il leggìo a nove posizioni” di Mauro Giovanelli, edizione 2023 riveduta.

La grande abbuffata – Hitler, Stalin e compagnia cantando… il dialogo che segue si svolge fra due personaggi del romanzo. Precisamente Yuzaf (pseudonimo di Gesù scampato alla condanna del Santo Inquisitore de “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij) e Ramón, l’assassino di Lev Trockij. L’argomento trattato potrebbe fornire delucidazioni in merito agli accadimenti di questo nostro travagliato dopoguerra.

Estratto da “Il leggìo a nove posizioni”:

«… Aggiungo solo che poi, alla morte di Lenin, un certo Bucharin, rappresentante della destra del partito bolscevico, sostenne con Stalin la teoria del “socialismo in un solo Paese” schierandosi tra gli oppositori di Trockij di cui votò l’espulsione dal partito. Ma il nocciolo della questione è un altro, ossia l’evidenza che per installarsi al potere e mantenervisi sia la Rivoluzione d’Ottobre sia il nazionalsocialismo beneficiarono di enormi aiuti finanziari da parte del supercapitalismo internazionale».
«Spiegati meglio».
«Non è difficile, piuttosto c’è il rifiuto a crederlo, è sempre così amico mio. Ad esempio pochi sapevano e sanno che fin dalla vigilia della grande guerra la finanza mondiale deteneva vasti interessi economici nei cinque continenti, in parole povere già allora il fenomeno delle società multinazionali era tutt’altro che sconosciuto, immaginiamoci oggi. E i conflitti armati, questo dalla notte dei tempi, con la crescente necessità dei governi belligeranti di dover ricorrere a prestiti, e con la sempre maggiore importanza che di conseguenza gli apparati industriali acquisivano, concorsero ad aumentare l’influenza del sistema bancario sulla vita politica nazionale e internazionale. Siamo quindi arrivati a poter dire che questo porco mondo, sebbene a fasi alterne mostri grande coesione, ha i suoi centri decisionali nell’imperialismo degli Stati Uniti d’America i quali, naturalmente, alla “rivoluzione permanente” di Trockij prediligevano la teoria del “Socialismo in un solo Paese” di quel paranoico di Stalin».
«Il motivo? Perdonami ma ti seguo con fatica».
«Il motivo di che? Ce ne sono tanti di motivi».
«Intendo la ragione vera per cui questi “centri decisionali” fossero favorevoli alla politica di Stalin».
«Dovresti arrivarci da solo, i motivi sono tanti e in parte già li ho spiegati ma il più apprezzabile, se vogliamo anche il più banale, e questa è un’idea che mi sono fatto grazie ai miei trascorsi in certi ambienti, è di una semplicità sconfortante. A guerra finita i sovietici, sotto la dittatura di Stalin, sarebbero stati limitati, infatti si verificò, a condurre un tenore di vita “socialista”, ossia austero, e i “grandi” già sapevano che il rapido e rimunerativo (per i soliti noti) sviluppo occidentale avrebbe via via sempre più attratto quei popoli in quanto vedevano in esso il nuovo eden, il “paese dei balocchi”, invogliandoli quindi a rivoltarsi al potere costituito abbagliati dal più parabolico e lusinghiero specchietto per le allodole mai concepito. Perciò in nessun caso la teoria del “socialismo in un solo Paese” avrebbe potuto funzionare se non con una feroce dittatura».
«Quindi Trotskij aveva ragione».
«Certo che sì, con il termine “comunismo” Trotskij intendeva, del resto come da dottrina, la fase di passaggio rivoluzionaria terminata la quale l’umanità sarebbe pervenuta al “socialismo reale”, invece…».
«Invece?».
«Invece così facendo la parola “comunismo” divenne impronunciabile, sinonimo di oppressione, dittatura,
proprio ciò che “loro” volevano. Tutto studiato a tavolino, non sono mica stupidi quelli che reggono le sorti del
pianeta, neanche intelligenti intendiamoci, ma furbi sì, molto, e scaltri, e senza scrupoli, infatti sono loro a disporre le pedine, anche gli alfieri, e i re e le regine. Non è un caso che mentre le nazioni occidentali si scagliarono le une contro le altre in una sanguinosa guerra fratricida, la quale segnerà il tramonto dell’egemonia mondiale del Vecchio Continente, da Wall Street, che si può assumere come emblema dell’alta finanza internazionale, partirono operazioni che, passando al di sopra dei belligeranti, miravano non soltanto a tutelare gli investimenti operati ai quattro angoli del globo, ma anche a esercitare una regia, tanto discreta quanto efficace, sulla situazione generale. Adesso è più chiaro?».
«Sì, in parole povere c’è un centro decisionale che crea i presupposti per fare e disfare situazioni di conflitto fra nazioni molte volte intervenendo direttamente in modo pretestuoso.».
«Finalmente ci stai arrivando. Così, tornando al duo Hitler e Stalin, lungo tutto l’arco della guerra si assiste “all’imparziale” sostegno finanziario, attraverso la concessione di crediti e con la prosecuzione degli investimenti sia ai tedeschi, sia ai russi e agli “alleati”. Per quanto riguarda la Russia, i crediti e gli investimenti continuarono anche con il procedere della rivoluzione bolscevica e questo pone certamente quesiti. Ed è apparentemente ancora più inspiegabile che del denaro americano raggiungesse, in preparazione dell’abbattimento del regime imperiale, non solo i rivoluzionari liberali e socialdemocratici, ma anche i gruppi della sinistra comunista. In questo modo l’opposizione di sinistra, della
quale Trotskij faceva parte, fu smantellata dal gruppo stalinista, e lo stesso Trockij fu esiliato ad Alma Ata (oggi nel Kazakistan), poi espulso».
«Perché non fu ucciso? Ai miei tempi era tutto molto più sbrigativo in questo genere di cose».
A queste parole Ramón ebbe come un sussulto, riprese a grattarsi ferocemente la cicatrice ma Yuzaf lo fermò con delicatezza.
«Lo farà assassinare» – continuò Ramón con voce rotta – «ma non subito, costui aveva troppi proseliti in patria e Stalin doveva dimostrare magnanimità ecco perché al suo rivale riservò un lungo periodo di esilio e vagabondaggio in diversi paesi».
«Con il proposito di farlo fuori con tutta calma…» – intervenne Yuzaf.
«Certamente, e Trockij lo sapeva, eccome se lo sapeva, eppure mai gli venne a mancare l’ottimismo, infatti, continuò a fare propaganda in ogni luogo, auspicando una rinascita del “suo” comunismo. Senti questa: “Col comunismo, l’uomo diventerà incomparabilmente più forte, saggio, acuto. Il suo corpo diventerà più armonioso, i movimenti più ritmati, la voce più melodiosa. Le forme della sua esistenza acquisteranno un’eccezionale potenza drammatica. L’uomo medio raggiungerà la statura di Aristotele, Goethe, Marx. A quote ancora più alte si ergeranno nuove vette”».

……………………

«La sconfitta dei repubblicani nella guerra civile spagnola non ha certo incupito Stalin, sia per la sua idea di “socialismo in un solo Paese”, sia per la spartizione dell’Europa concordata prima con Hitler, poi con Roosevelt e Churchill, infine per sfruttarla come occasione al fine di attribuirne la responsabilità ai trotskisti e agli anarchici. Nel marzo del 1939 giunse dal Cremlino l’ordine definitivo di giustiziare l’odiato Trotskij avvalendosi di un veterano in operazioni di guerriglia nella penisola iberica. Secondo me era anche un fatto personale, una delle tante paranoie del dittatore, questo tipo di persone sono gente maleducata.

……………………

“Per quarantatré anni della mia vita cosciente sono rimasto un rivoluzionario e per quarantadue ho lottato sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi ricominciare tutto da capo, cercherei di evitare questo o quell’errore, ma le mie scelte resterebbero sostanzialmente immutate. Morirò da rivoluzionario proletario, marxista, materialista dialettico, quindi da ateo inconciliabile. La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente, anzi è ancora più salda, che nei giorni della mia giovinezza, se si produrrà l’esplosione sociale che spero e la rivoluzione socialista trionferà in diversi Paesi, quegli stessi lavoratori avranno la missione di aiutare i loro compagni sovietici a liberarsi dai gangster della burocrazia stalinista… vedo la verde striscia d’erba oltre la finestra e il cielo limpido azzurro di là dal muro, la luce del sole dappertutto. La vita è bella, i sensi celebrano la loro festa. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione, violenza e goderla in tutto il suo splendore».

Da “Il leggìo a nove posizioni” di Mauro Giovanelli, edizione 2023 riveduta.

ESTRATTO DA “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” DI MAURO GIOVANELLI: YUZAF E RAMÓN MERCADER

Da “Il leggìo a nove posizioni” di Mauro Giovanelli, edizione 2023 riveduta.

La grande abbuffata – Hitler, Stalin e compagnia cantando… il dialogo che segue si svolge fra due personaggi del romanzo. Precisamente Yuzaf (pseudonimo di Gesù scampato alla condanna del Santo Inquisitore de “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij) e Ramón Mercader, l’assassino di Lev Trockij. L’argomento trattato potrebbe fornire delucidazioni in merito agli accadimenti di questo nostro travagliato dopoguerra.

Estratto da “Il leggìo a nove posizioni”:

«… Aggiungo solo che poi, alla morte di Lenin, un certo Bucharin, rappresentante della destra del partito bolscevico, sostenne con Stalin la teoria del “socialismo in un solo Paese” schierandosi tra gli oppositori di Trockij di cui votò l’espulsione dal partito. Ma il nocciolo della questione è un altro, ossia l’evidenza che per installarsi al potere e mantenervisi sia la Rivoluzione d’Ottobre sia il nazionalsocialismo beneficiarono di enormi aiuti finanziari da parte del supercapitalismo internazionale».
«Spiegati meglio».
«Non è difficile, piuttosto c’è il rifiuto a crederlo, è sempre così amico mio. Ad esempio pochi sapevano e sanno che fin dalla vigilia della grande guerra la finanza mondiale deteneva vasti interessi economici nei cinque continenti, in parole povere già allora il fenomeno delle società multinazionali era tutt’altro che sconosciuto, immaginiamoci oggi. E i conflitti armati, questo dalla notte dei tempi, con la crescente necessità dei governi belligeranti di dover ricorrere a prestiti, e con la sempre maggiore importanza che di conseguenza gli apparati industriali acquisivano, concorsero ad aumentare l’influenza del sistema bancario sulla vita politica nazionale e internazionale. Siamo quindi arrivati a poter dire che questo porco mondo, sebbene a fasi alterne mostri grande coesione, ha i suoi centri decisionali nell’imperialismo degli Stati Uniti d’America i quali, naturalmente, alla “rivoluzione permanente” di Trockij prediligevano la teoria del “Socialismo in un solo Paese” di quel paranoico di Stalin».
«Il motivo? Perdonami ma ti seguo con fatica».
«Il motivo di che? Ce ne sono tanti di motivi».
«Intendo la ragione vera per cui questi “centri decisionali” fossero favorevoli alla politica di Stalin».
«Dovresti arrivarci da solo, i motivi sono tanti e in parte già li ho spiegati ma il più apprezzabile, se vogliamo anche il più banale, e questa è un’idea che mi sono fatto grazie ai miei trascorsi in certi ambienti, è di una semplicità sconfortante. A guerra finita i sovietici, sotto la dittatura di Stalin, sarebbero stati limitati, infatti si verificò, a condurre un tenore di vita “socialista”, ossia austero, e i “grandi” già sapevano che il rapido e rimunerativo (per i soliti noti) sviluppo occidentale avrebbe via via sempre più attratto quei popoli in quanto vedevano in esso il nuovo eden, il “paese dei balocchi”, invogliandoli quindi a rivoltarsi al potere costituito abbagliati dal più parabolico e lusinghiero specchietto per le allodole mai concepito. Perciò in nessun caso la teoria del “socialismo in un solo Paese” avrebbe potuto funzionare se non con una feroce dittatura».
«Quindi Trotskij aveva ragione».
«Certo che sì, con il termine “comunismo” Trotskij intendeva, del resto come da dottrina, la fase di passaggio rivoluzionaria terminata la quale l’umanità sarebbe pervenuta al “socialismo reale”, invece…».
«Invece?».
«Invece così facendo la parola “comunismo” divenne impronunciabile, sinonimo di oppressione, dittatura,
proprio ciò che “loro” volevano. Tutto studiato a tavolino, non sono mica stupidi quelli che reggono le sorti del
pianeta, neanche intelligenti intendiamoci, ma furbi sì, molto, e scaltri, e senza scrupoli, infatti sono loro a disporre le pedine, anche gli alfieri, e i re e le regine. Non è un caso che mentre le nazioni occidentali si scagliarono le une contro le altre in una sanguinosa guerra fratricida, la quale segnerà il tramonto dell’egemonia mondiale del Vecchio Continente, da Wall Street, che si può assumere come emblema dell’alta finanza internazionale, partirono operazioni che, passando al di sopra dei belligeranti, miravano non soltanto a tutelare gli investimenti operati ai quattro angoli del globo, ma anche a esercitare una regia, tanto discreta quanto efficace, sulla situazione generale. Adesso è più chiaro?».
«Sì, in parole povere c’è un centro decisionale che crea i presupposti per fare e disfare situazioni di conflitto fra nazioni molte volte intervenendo direttamente in modo pretestuoso.».
«Finalmente ci stai arrivando. Così, tornando al duo Hitler e Stalin, lungo tutto l’arco della guerra si assiste “all’imparziale” sostegno finanziario, attraverso la concessione di crediti e con la prosecuzione degli investimenti sia ai tedeschi, sia ai russi e agli “alleati”. Per quanto riguarda la Russia, i crediti e gli investimenti continuarono anche con il procedere della rivoluzione bolscevica e questo pone certamente quesiti. Ed è apparentemente ancora più inspiegabile che del denaro americano raggiungesse, in preparazione dell’abbattimento del regime imperiale, non solo i rivoluzionari liberali e socialdemocratici, ma anche i gruppi della sinistra comunista. In questo modo l’opposizione di sinistra, della
quale Trotskij faceva parte, fu smantellata dal gruppo stalinista, e lo stesso Trockij fu esiliato ad Alma Ata (oggi nel Kazakistan), poi espulso».
«Perché non fu ucciso? Ai miei tempi era tutto molto più sbrigativo in questo genere di cose».
A queste parole Ramón ebbe come un sussulto, riprese a grattarsi ferocemente la cicatrice ma Yuzaf lo fermò con delicatezza.
«Lo farà assassinare» – continuò Ramón con voce rotta – «ma non subito, costui aveva troppi proseliti in patria e Stalin doveva dimostrare magnanimità ecco perché al suo rivale riservò un lungo periodo di esilio e vagabondaggio in diversi paesi».
«Con il proposito di farlo fuori con tutta calma…» – intervenne Yuzaf.
«Certamente, e Trockij lo sapeva, eccome se lo sapeva, eppure mai gli venne a mancare l’ottimismo, infatti, continuò a fare propaganda in ogni luogo, auspicando una rinascita del “suo” comunismo. Senti questa: “Col comunismo, l’uomo diventerà incomparabilmente più forte, saggio, acuto. Il suo corpo diventerà più armonioso, i movimenti più ritmati, la voce più melodiosa. Le forme della sua esistenza acquisteranno un’eccezionale potenza drammatica. L’uomo medio raggiungerà la statura di Aristotele, Goethe, Marx. A quote ancora più alte si ergeranno nuove vette”».

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«La sconfitta dei repubblicani nella guerra civile spagnola non ha certo incupito Stalin, sia per la sua idea di “socialismo in un solo Paese”, sia per la spartizione dell’Europa concordata prima con Hitler, poi con Roosevelt e Churchill, infine per sfruttarla come occasione al fine di attribuirne la responsabilità ai trotskisti e agli anarchici. Nel marzo del 1939 giunse dal Cremlino l’ordine definitivo di giustiziare l’odiato Trotskij avvalendosi di un veterano in operazioni di guerriglia nella penisola iberica. Secondo me era anche un fatto personale, una delle tante paranoie del dittatore, questo tipo di persone sono gente maleducata.

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Testamento di Trotskij scritto di suo pugno pochi giorni prima di essere assassinato.

“Per quarantatré anni della mia vita cosciente sono rimasto un rivoluzionario e per quarantadue ho lottato sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi ricominciare tutto da capo, cercherei di evitare questo o quell’errore, ma le mie scelte resterebbero sostanzialmente immutate. Morirò da rivoluzionario proletario, marxista, materialista dialettico, quindi da ateo inconciliabile. La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente, anzi è ancora più salda, che nei giorni della mia giovinezza, se si produrrà l’esplosione sociale che spero e la rivoluzione socialista trionferà in diversi Paesi, quegli stessi lavoratori avranno la missione di aiutare i loro compagni sovietici a liberarsi dai gangster della burocrazia stalinista… vedo la verde striscia d’erba oltre la finestra e il cielo limpido azzurro di là dal muro, la luce del sole dappertutto. La vita è bella, i sensi celebrano la loro festa. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione, violenza e goderla in tutto il suo splendore».

IL LEGGìO A NOVE POSIZIONI

Nota dell’Autore

Questo racconto è la naturale prosecuzione di “Ecco perché Juanita”, antologia elaborata nel 2012, certamente originale nella composizione al punto da non individuare termini adatti a definirla. Per descriverne la “costruzione” decisi di utilizzare il verbo comporre vale a dire “mettere insieme varie parti allo scopo di costituire un tutto organico”(1) e “produrre, realizzare un’opera di carattere letterario o artistico in generale”(2). Invece conclusi che il termine più adeguato a designarla fosse proprio libro intendendosi con tale parola “volume di fogli cuciti tra loro, scritti, stampati o bianchi”(3). Desidero ricordare che, con tutto il rispetto, la parola “bibbia” significa “insieme di generi letterari diversi”. Non è casuale che “biblia”, dal greco biblos, la corteccia interna del papiro che cresce sul delta del Nilo, utilizzata per produrre materiale scrittoio, sia un plurale che indica l’insieme di opere scritte e narrate – nella Chiesa greca dell’epoca di Giovanni Crisostomo(4) si cominciò a usare l’espressione Ta Biblìa, che significa “I libri”. Infatti, il Vecchio e Nuovo Testamento sono insiemi di elaborati vari per origine, genere, compilazione, lingua e datazione, prodotti in un periodo abbastanza ampio, preceduti da una tradizione orale più o meno lunga e comunque difficile da identificare, racchiusi in un canone stabilito dagli inizi della nostra era, in parole povere la prima grande raccolta, copiatura e forse pure sofisticazione della storia.
Tornando a Juanita, dico che l’idea della sua attuazione s’insinuò nella mia mente quando decisi di riunire diversi e preziosi frammenti della letteratura (sottotitolo “arabesco letterario”) di circa cinquanta autori e un centinaio di brani e citazioni disponendoli all’interno di una narrazione secondo il mio gusto; occorreva solo una base di appoggio. Quale migliore “cronologia” potrebbero regalarci altri capolavori che non siano “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” del grande Saramago, seguito da “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov per agganciarlo a “Il Procuratore della Giudea” di France e concludere con “Il Grande Inquisitore di Dostoevskij?” Nessuna! Un’avventura lunga 1700 anni.
Saramago descrive la vita di Gesù con un’autenticità da lasciare senza fiato, ineguagliabili lo stile e la prosa. Nel suo Vangelo neppure è sfiorata la personalità di Ponzio Pilato in quanto marginale al messaggio che l’autore ci ha compiutamente trasmesso. Per approfondirne la figura siamo quindi costretti a immergerci nelle strabilianti pagine di Bulgakov, dove il procuratore della Giudea è assalito dal rimorso per una condanna decretata suo malgrado; la collera verso se stesso lo dilania, realizza di essere entrato nel mito dalla porta sbagliata e la sua propria ignavia (qui ci sarebbe da discutere) lo inchioderà per sempre nella penombra del porticato, dietro la brocca del servitore che versa l’acqua sulle sue mani sudate. Che ne sarà di lui? Allora lo seguiamo nell’epico “Il procuratore della Giudea” di Anatole France dove, vecchio e dolorante, si reca ai Campi Flegrei per curare la gotta che lo tormenta. I tempi del fasto e del potere li ricorda con il fedele e ritrovato Lamia che, riferendosi al Cristo, gli domanda: “Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?” ed egli, dopo averci pensato a lungo, risponde sicuro: “Gesù? Gesù il Nazareno? No, non ricordo”(5). Non ricordo… perché? Amnesia senile? inconscia rimozione di una rievocazione ostica? Menzogna? Indulgenza divina? Non lo sapremo e il Gesù de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij(6), che chiude il mio saggio, nulla dice in proposito. Essendo stato vano il sacrificio estremo, Egli torna in questo mondo per riparare l’errore sennonché, riconosciuto e incarcerato dal Grande Inquisitore, non pronuncia una sola sillaba durante l’eccitazione verbale dell’aguzzino che a sera si reca nella cella per comunicargli la condanna al rogo. Il confronto tra i due si trasforma in un delirante monologo del prelato. Che cosa rappresenta l’unica risposta del Nazareno, il bacio sulle labbra del suo persecutore con cui suggella il loro incontro? Quali potrebbero essere stati i pensieri di Yuzaf nel momento in cui, graziato per tale gesto, si diresse verso nuovi orizzonti? Dove sarà andato? Che panorami gli si apriranno? Come esplorerà l’intrico che custodisce l’oggetto della sua ricerca? La reinterpretazione delle Scritture? Il leggìo a nove posizioni?
Mauro Giovanelli

(*) Riferimenti alle note

(1) Zingarelli, XI edizione 1983.
(2) Ibidem.
(3) Ibidem.
(4) Giovanni Crisostomo, o Giovanni d’Antiochia (Antiochia, 344 / 354 – Comana Pontica, 14 settembre 407), è stato un arcivescovo e teologo bizantino. Fu il secondo Patriarca di Costantinopoli. È commemorato come santo dalla Chiesa cattolica e ortodossa e venerato dalla Chiesa copta; è uno dei trentacinque Dottori della Chiesa.
(5) Anatole France, “Il procuratore della Giudea”, Sellerio Editore Palermo.
(6) Fëdor Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, Libro quinto, “Pro e contra”, Edizione Einaudi.

Introduzione

Yuzaf non è asceso al cielo come c’è raccontato. In cerca di una risposta impossibile, almeno quanto il dubbio che lo avrebbe colto durante il supplizio, lamentando l’abbandono del Padre, ha invece continuato a vagare fra le dimensioni del reale e del fantastico. Questa la sua missione, la croce alla quale sembra condannato dalla stessa natura di cui è composto, che gli fa incontrare altri “inverosimili” come lui: Corto, Srinivasa, Ramòn, Judex, dando vita a una ratatouille filosofica in salsa spirituale, insaporita con un melting pot delle migliori spezie antropologiche, raccolte dall’Autore ai crocevia della vicenda umana, nella sua mente, lungo le sconfinate praterie dell’investigazione fantastica. Bene e Male, Divino e Umano, sono le invisibili sbarre della gabbia di Mānī che imprigionano il pensiero di Yuzaf nella speculazione dell’Oltre, lo costringono a surreali dialoghi con personaggi della storia e della fantasia che cucineranno a fuoco lento le convinzioni del lettore fino a dissolverle con la sola spiegazione alla nostra portata.
Le molecole letterarie dell’opera sembrano formate da atomi privi di legami, gli elettroni saltano dall’orbita di un nucleo all’altro, collidono, rilasciano quanti di energia che riempiono di tracce luminose l’etere della narrazione: preziose indicazioni che, per il lettore attento e motivato dalla ricerca terrena e spirituale, rappresentano la segnaletica del sentiero che conduce a concepire l’inspiegabile. La ricostruzione storica e filosofica della religione sotto l’aspetto di “urgenza esistenziale” è onesta, accurata, priva d’intenzionalità alcuna di negare o affermarne l’esattezza, lasciandoci liberi di manovrare il leggìo a nostro piacimento per interpretare i manoscritti che su esso via via si alternano e incrociare lo sguardo del topo al fine di rispondere come possiamo a una domanda priva di senso: “Qual è la verità?”
Alessandro (Alex) Arvigo – Palermo/Genova

Prefazione

Il privilegio di poter parlare di e con un’opera di Mauro Giovanelli è che l’esperienza non rimane mai ancorata al testo, piuttosto diventa un crocevia di pensieri, interpretazioni, emozioni.
Terminata la lettura del libro, senza considerare gli appunti presi di getto durante lo scorrere delle pagine, ho sentito la mente focalizzarsi su alcuni liberi pensieri scambiati con l’Autore nel corso di precedenti collaborazioni letterarie. In particolare ricordo una riflessione su come “i tempi” avessero ormai raggiunto una sorta di punto di non ritorno, forse non evidente ai più, e oltrepassato quel limite resterà solo da augurarci ci sia almeno data la possibilità – quasi esprimendoci in termini biblici – di poter ripartire dalle ceneri perché ormai nulla del prima sarà risultato degno d’esser salvato. Da qui la ricostruzione di un nuovo mondo con la determinazione a non ripetere nessuno dei troppi errori commessi nella vita di prima. Un pensiero insolito ma credo non lontano da una delle personalissime letture che mi piacerebbe dare di questo libro. Infatti “Il leggìo a nove posizioni” è un’opera di confine, una terra letteraria in cui tutto è stato e, proprio per questo, tutto potrà essere, ma in veste completamente nuova. È un topos letterario vero e proprio, una marginalità filosofica dove, con tale termine, non intendiamo qualcosa di immaginario, bensì un luogo incontaminato che racchiude la bellezza interpretativa primigenia non facile da raggiungere, quindi va ricercata anche a costo di un sacrificio doloroso poiché di fondamentale importanza risorgere in essa.
Pensiamo perfino all’origine del termine leggìo, che deriva dal greco λογειον, loghĕion, che significa anche “pulpito” e, infatti, proprio in ambito sacerdotale ha la sua iniziale e poi più ampia fortuna, ma non è al senso ecclesiastico che mi voglio riferire, quanto alla sua “posizione privilegiata”. Se aveste mai avuto modo di salirci, su un pulpito, avrete notato come lassù sia immediata la sensazione di padronanza che trasmette – quasi di onnipotenza – oltre a quella di una prospettiva ben più ampia dello sguardo comune, rivelando a una persona come il cambio di veduta generi scenari inattesi. Ciò è ampiamente raffigurato nel celeberrimo “L’attimo fuggente” (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir, e magistralmente interpretato da Robin Williams nella parte del prof. John Keating che, saltando in piedi sulla scrivania, intende in modo figurativo educare i suoi studenti a mai accontentarsi di osservare le cose da un solo punto di vista. Credo che proprio questo debba essere il senso di un libro, ancor più il suo messaggio più intimo: un dischiararsi su vedute inattese, persino improbabili, se non addirittura improponibili, come se si decidesse di assaggiare il frutto proibito per arrivare alla “vera” conoscenza (termine audace ma appropriato in questo contesto). Qualora non fosse resterebbe comunque il viaggio a essere il tutto.
Lo scorrere narrativo de “Il leggìo a nove posizioni” alterna piani paralleli con un fil rouge nella figura del protagonista, quasi a confondere il lettore, affinché non abbia sempre chiara l’esecuzione temporale (perché è inevitabile: il pubblico cerca sempre gli agganci temporale e spaziale, è una necessità atavica) e che proprio in questo mancato appiglio scopra la chiave dell’indeterminatezza, variante che in certo qual modo ha una sua non circolarità ma chiusura a indefinito e infinito, fondamentale nell’insieme.
Il racconto è affascinante perché, attraverso l’origine della narrazione, che trae linfa da notevoli e diverse pubblicazioni di rilevanza mondiale, ci è presentato un protagonista, Yuzaf, che con altro nome ritroviamo dove era stato abbandonato alla fine di uno dei capitoli, “Il Grande Inquisitore” del magistrale “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. Sorprendentemente graziato dal Grande Inquisitore ma con l’ordine di scomparire e non farsi mai più vedere avendo lasciato il potere alla Chiesa, proprio lui, Gesù, tornato in terra per rimediare a quanto non è stato fatto dagli uomini nonostante il suo sacrificio, lui che ha un compito così fondamentale da assolvere, d’improvviso scopre di non essere più se stesso, neppure più morto, quasi resuscitato quindici secoli dopo, non a Siviglia, in Spagna, al tempo dell’ormai agonizzante Santa Inquisizione, ma in Italia, a Genova, nell’epoca attuale, non riabilitato si trova a palesare l’impossibile situazione di una totale assenza di personalità, identità, perciò osserva, e fra se e se annota minuziosamente le caratteristiche del posto, del percorso che affronta nella spasmodica e urgente ricerca di un rifugio, un nuovo calvario con le sue stazioni, ed è così che potrà riprendere coscienza e identità terrena. Yuzaf è ora uomo nel termine più vero, essere in balia della non comprensione, alla ricerca di se stesso e della causa prima. Infatti è Corto, uno dei personaggi che Yuzaf incontra in questo suo ultimo viaggio, a esprimersi nei seguenti termini:

[…] «Il solo fatto che tu stia tentando di giungere alla verità potrebbe essere la prova dell’esistenza di un ulteriore, questo sì che è plausibile. Comunque chiedi troppo, vorresti tutto o niente, non solo il “qui e ora”, pure il “dopo” che possa dare la risposta al “prima”. Vivere e capire, morire e riferire. Ah! Sei troppo romantico amico, io mi accontento di molto meno. A me basterebbe che la giostra in cui mi hanno ficcato si fermasse, forse non ti è ben chiaro chi sono e in quale dimensione fingo di muovermi» […]

Da lettore, il tratto forse più affascinante del protagonista è la sua sordità. Sì, Yuzaf non ascolta, pone interrogativi, disperatamente, quasi con arroganza e violenza, ma in realtà non ascolta la risposta, è come se fosse alla ricerca di un senso perduto senza possedere gli strumenti per averne compiutezza; in questa fase Yuzaf è uomo, tragicamente uomo, che nella sua egocentricità non comprende l’insieme che lo circonda, formato da personaggi della fantasia e della realtà a loro volta alla ricerca di un senso se non una via d’uscita dalla loro condizione. Forte, notevole l’esposizione del brevissimo incontro con Paperino:

[…] «Portava un berretto azzurro con banda nera e fiocco, direi da marinaio, infatti, mostrava grande rispetto per me. La blusa, anch’essa azzurra con due bottoni dorati, così come i galloni ai polsi, pareva una divisa. Non indossava calzoni ma stranamente non ci facevi caso, camminava scalzo, dondolando, e i piedi e la bocca erano arancioni, inconsueti, non saprei ma… le sue mani, pur avendo le dita e il pollice opponibile, non riesco a spiegarlo, assomigliavano alle estremità di ali, insomma di sostanza piumosa come il resto del corpo, bianchissimo. E la sua voce, la sua voce… era disperato. Diceva di chiamarsi Paolino, sembrava l’anello di congiunzione tra il primo anfibio e un piccolo papero, ed io così l’ho soprannominato, Paperino, mi sembrava non apprezzasse tale nomignolo… era così triste, indifeso, irascibile…» […]

Questo suo porre domande, avanzare dubbi e, in realtà, non trovare il tempo di ascoltare ogni responso, cela l’afflizione di dover recuperare la risposta definitiva, l’unica che possa soddisfarlo, la vera sentenza, la sola possibile: “Qual è la verità?”. Ecco una sua replica all’amico Srinivasa:

[…] «Bravo Ramanujan, tutto perfetto ma non come nelle tue equazioni perché su questo terreno è impossibile arrivare all’equivalenza allo stesso modo che nelle serie infinite di simboli matematici dove, al limite, si potrebbe quantomeno ipotizzarla, attribuirle un valore, inserirla nel calcolo. Qui no, rimane sempre un piccolo scarto, infinitesimale, la differenza residua, incolmabile anche per una mente come la tua. Non hai avuto necessità della mia conferma, ne sono certo, e di sicuro avevi intuito da solo come l’impalcatura scricchiolasse se non altro perché indimostrabile.» […]

Si dimena, Yuzaf, tra catene che non sono più quelle che lo imprigionavano fisicamente, ma in tutti gli altri sensi. Egli, infatti, è anche cieco, non vuole vedere l’evidenza, i suoi occhi sono coperti dal velo di Maya che gli oscura persino i presagi della salvezza, obliando sempre più la sua identità nonostante gli indizi per il conseguimento della sua liberazione che non riconosce, smarrendolo.
Il primo attimo di lucidità ci appare drammatico, lo si percepisce quando s’accorge di una presenza, da principio impalpabile, poi manifestatasi in quell’essere considerato alla stregua della feccia, un topo, che diventerà immagine potentissima lungo l’intero percorso accompagnando i protagonisti come entità dissolta ma sempre vigile fra le quinte di un teatro infernale. Sporco, malmenato, sterminato, ha la capacità di salvarsi, risorgere, percorrendo le vie più infere, non semplicemente adattandosi, ma immergendosi nell’immondo proprio quando tutto il sovrastante e soverchiante è ciò che rimane nella sola verità di un attimo.

[…] «Ci sarà un motivo per cui tu mi abbia suggerito di riconsiderare soprattutto gli ultimi istanti della vita di quell’uomo “perché in quel momento viene fuori la verità” dicesti. Che cosa accadde nelle ore di un supplizio che sono impresse nell’eterno divenire?» […]

E se fosse proprio questo uno degli elementi che manca a Yuzaf? La capacità di scegliere e discernere? Come già accadde sulla croce per la salvezza sua e dei suoi compagni di sventura? Abbandonando l’impossibile tentativo di far coesistere, fede e ragione? E se fosse angoscia la sordità di fronte all’evidenza di voler andare dritti per una strada che probabilmente non porterà a nulla ma che sembrerebbe l’unica? Egli pare fin troppo trasfigurato nel vivere questa sua “rinascita” (ed è lecito obiettare: Come potrebbe non essere altrimenti? Passare dalla condanna certa, anzi due, a una vita che però in nulla può correlarsi alle sue origini), ossia rimanere sempre distaccato, mancante di quella compenetrazione tra elementi che è fondamentale.

[…] «Il fatto è che io adesso ho assunto una diversa configurazione ai tuoi occhi. Così, di punto in bianco, improvvisamente sono un approdo, e tutto il resto per te è come si fosse pietrificato, ci siamo solo noi, vivi o chissà che altro, di fronte alle possibili risposte che cerchi» […]

Avvertiamo un crescendo nello scritto, un palesarsi ostile di una ricerca per ragione che ci appare di ostacolo, fuorviante, quasi un peso che siamo costretti a trascinare, una croce portata su spalle ferite. Percepiamo opposte energie, vissute in maniera ossimorica, che bruciano in quella che è nascita di consapevolezza, destabilizzando fortemente il lettore come il protagonista, che tuttavia non può e non deve fermarsi, per quanto sia impervia la salita.
Sembra chiara la necessità di rileggere tutto scegliendo un punto saldo, ma contestualizzandolo nell’insieme, poiché lasciarsi sopraffare dal pensiero unico ci porterà ancor più alla deriva. È così che il topo si rivolge a Yuzaf, parole che sgorgano dai neri riflessi di quegli occhi intelligenti, vivi, antichi, dove iride e pupilla sono rese indistinguibili:

[…] «Il sapere deve e può essere dominato, a lui la missione definitiva, conclusiva, la “quadratura del cerchio” […]

Allo stesso modo Ramanujan:

[…] «Ripeto, cosa faceva Dio avanti la venuta del profeta? Dov’era? Perché questo confine, in quel preciso giorno, ora, attimo in cui decise di occuparsi del mondo? Nulla di così terribile e raccapricciante era accaduto prima quanto gli avvenimenti verificatisi dopo il Suo intervento» […]

A Yuzaf la sola eterna domanda cui, in certo qual modo, alla fine darà una risposta nell’estremo tentativo di trasmetterne la chiave di lettura al più umile, quindi il più “vergine” degli attori che lo circondano, l’Oste, ed è proprio da qui che tutto potrà rinascere:

[…] «Mi comprendi? Hai sentito ciò che ho detto? Tu saprai “qual è la verità”. Sono stato chiaro? Non “cos’è la verità”. Rispondi, dimmi che hai afferrato la differenza» […]

Perché i dubbi che ci insinua Mauro Giovanelli alimentano il senso di vacuo, non semplicemente di vuoto, infatti, se ragioniamo, se meditiamo, pensando di poter credere l’opposto, non tenendo conto che il momento stesso in cui si realizza un concetto ne nasce il suo doppelgänger, abbiamo posto la base che porta in perdita, poiché non è a queste dimensioni che appartiene il senso, tanto meno le risposte. Ce lo dice chiaramente nel momento in cui afferma (nota 1 Capitolo = –1/12):

[…] «Quando si designa un “più” necessariamente s’indica e si fa nascere un “meno”. Questo è il nostro peccato originale, il voler conoscere il Bene e il Male… quando si “definisce” il “bene” automaticamente ciò che ne è fuori individua, per differenza, il “male” creato dalla mente poiché prima non esisteva. Superare questo modo di vedere le cose porta al Regno, alla libertà dello spirito.» […]

L’interpretazione, infatti, che raggiungiamo alla fine è proprio l’evidenza del fallimento della scissione, soprattutto del dualismo, e di come solo una concezione agglomerante possa dare la giusta chiave di lettura e svelare quel mistero che in fondo mistero non è mai stato. Ed ecco che tutti i personaggi mutano, disvelano la loro intima natura, come se da chimere avessero abbandonato le sembianze imposte per l’essenza “vera” (ed ecco che nuovamente utilizziamo questo termine di fuoco).
Perciò, a ciascuno degli “interpreti”, l’Autore fa rivivere, da spettatori, il proprio destino, fino ad arrivare alla nemesi (e qui torniamo al concetto espresso in precedenza, ossia oltrepassato quel limite, c’è solo da sperare che in un certo senso si possa ripartire solo dalle ceneri perché ormai nulla del prima è degno di essere salvato).
Allora eccoci giunti all’ecatombe finale, Yuzaf e i suoi compagni non permetteranno che la “crocifissione” si ripeta, a nulla è servita prima, ancor meno adesso, quindi “muoia Sansone e tutti i filistei”. Il progetto iniziale era sbagliato dalle fondamenta perciò tabula rasa, anche se quella sordida mano a quattro dita, comparsa dal nulla fin dall’inizio, si materializza ancora al solo fine di sottrarre agli uomini la chiave di lettura idonea al conseguimento della piena gratificazione, vivere la vita nel suo splendore.
Sconvolge, tuttavia, il dubbio che forse tutto non sia altro che il frutto della volontà di qualcuno o qualcosa, peggio ancora un delirio della sola materia:

[…] «Sei certo non ti abbia immaginato qualcuno? Chi ci assicura che noi, qui e ora, non siamo il parto di una entità che ci sta manovrando, osserva, determina il nostro parlare? Magari ciò che sto dicendo, sono parole sue pronunciate attraverso me. Hai mai valutato la possibilità che tutti si possa essere strumenti di un’allucinazione? Pensaci.» […]

Allora cosa fare? Che prove sono state raccolte? E qual è l’origine delle Scritture? Divina non sembrerebbe proprio:

[…] «E cosa vuoi che facessero i carovanieri nei rari momenti di riposo? Nelle “pause” pranzo? Quando si trovavano riuniti intorno a un fuoco o in solitudine consideravano la loro meschina presenza sulla Terra? Parlavano. Di grandi gesta, miti, leggende, imprese più o meno inventate o ingigantite, superstizioni, paure, elaboravano improbabili risposte, concepivano entità superiori a giustificazione dell’avvicendarsi degli eventi che li travolgevano. Non c’era mica la taverna sotto casa, gratificarsi era prendere la propria donna quando la carne gli ricordava di essere animali. Per il resto… parlare, fantasticare, sognare altri mondi tanto gli era greve il loro, idealizzare un salvatore, la guida, e alla fine pure crederci. Non è forse vero che in quella lunga storia ci sono solo disperazione e angoscia?».[…]

Quali possibilità restano?

[…] «Se siamo strumenti inconsapevoli di tutto quanto succede è inutile cercare un senso delle cose perché già lo abbiamo sotto gli occhi, in ogni momento della nostra esistenza, ed è nel semplice fatto di aver vissuto, interagito con ciò che ci circonda, compiuto azioni, aver influenzato il corso del destino, anzi averne fatto parte». […]

Il due che si fa uno, proprio sul finale, quando smette di interrogarsi e si abbandona al tutto, al destino, al fluire come suo lascito, quel lascito che la sua donna gli aveva chiesto, ma lui non ha mai compreso nella sua immensità. Ed è proprio da quell’ultimo bacio, riproposto in una veste speculare dall’amata rispetto a quello che gli aveva valso la grazia, che il nostro eroe trae origine, è una leggiadrìa attuale, un senso che si disvela e diventa comprensibile solo dopo aver attraversato il tutto ed essersi confrontato con la parte più profonda di se stessi, della propria natura più intima, che non ha il sapore beffardo della rinuncia alla propria identità ma quello della sua completa realizzazione.
Già! La propria natura, infatti è con un potente racconto-metafora che chiude il testo, quello dello scorpione e della rana, che per altro Mauro Giovanelli approfondisce con grande interesse nelle note.
Che vuol dire “la propria natura”? Che cos’è realmente? Ci sembra quasi negazione del libero arbitrio poiché ad essa incatenati, allora, in una circolarità senza fine si torna al dubbio di essere figli del delirio per uscirne l’istante dopo. La risposta è personale, dipende dallo sguardo lanciato oltre, e anche quando tutto sembra racchiudersi (e non rinchiudersi) in un ritrovato equilibrio, interviene la variante personale che non può esser trascurata, diventando piuttosto quell’assoluto, la costante statica, immobile, la sola realtà cui tutto confluisce e da cui tutto riparte.
Pamela Michelis

Dalla risacca…

Prefazione

«L’ottimista pensa che questo
sia il migliore dei mondi possibili.
Il pessimista sa che è vero.»

(J. Robert Oppenheimer)

Perché amiamo gli aforismi? Probabilmente per il piacere che ci dà il poter condensare un senso più ampio in una limitata perfezione. La bellezza dell’aforisma, infatti, risiede proprio in questo, nel fascino di un’espressione complessa e articolata custodita nell’essenzialità, nella brevità, nell’equilibrio, in quel morso rubato alla vita che tanto ci stimola e infiamma. Potremmo paragonarlo all’incanto del bacio nell’ardore della sua prima volta che riesce a essere infiniti colori e sapori tutti insieme, in questo caso stupendoci sempre, a ogni passaggio, vergine anche nel suo ripetersi.
Scrittore a tutto tondo, dopo la sua prospera esperienza letteraria nella poesia e nella saggistica, Mauro Giovanelli ha deciso di confrontarsi in questo campo solo apparentemente semplice e in realtà complesso, poiché richiede quel bilanciamento interiore e intellettuale non indifferente e soprattutto l’accuratezza d’idee e intenti in una padronanza linguistica incontrovertibile. Questa sua opera, dunque, ci arriva carica della nostra curiosità, poiché affascinati di sapere se la sua perspicacia poetica e la raffinatezza tipica del suo poetare possano riscontrarsi anche in questo contesto. Non rimarrete delusi, al contrario si resta imprigionati dalla verve tipica della sua scrittura che ancor più riscontriamo qui, nella scelta sopraffina delle parole, il loro musicale accostamento, il carico dell’esperienza uniti alla forte portata interpretativa maturata in anni di dimestichezza con la composizione più articolata.
Ecco, con questi suoi motti, adagi, spesso tradotti in dialoghi secchi, botta e risposta, racconto breve, Mauro Giovanelli si fa esegeta, perché riesce, con arguzia e mai sarcasmo, a centrare la questione, a proporre spunti di riflessione esistenziali e filosofici per gli orecchi di chi non si limiterà a leggerli semplicemente, bensì ne vorrà trarre prezioso spunto interpretativo per una più personale conoscenza.
Apprezziamo molto in quest’opera la decisione di lasciare gli aneddoti liberi, in ordine sparso, casuale, del resto la silloge è una raccolta di appunti, interrogativi e osservazioni anche lontani nel tempo. Evitare quindi di racchiuderli, come fanno molti, in aree tematiche è una scelta non solo azzeccata ma che denota come sia vivo e chiaro il loro senso più vero, quello di non essere legati a una schematicità o a un pensiero razionalmente fisso, bensì prediligere la necessità comunicativa, partorire maièuticamente non tanto l’idea quanto l’essenza.
A farci compagnia, poi, è il gusto espressivo che da sempre accompagna Mauro Giovanelli, per cui la scrittura è qualcosa di talmente personale e intimo da potersi permettere una sfacciataggine con la parola ardita, l’iperbole più che temeraria, come si fa con l’amico di vecchia data, fratello e complice, a volte assumendo toni bruschi, fin troppo diretti, sovente provocatori, oltre il limite del pensare comune: La vera libertà nei “rapporti” di qualsiasi tipo è non doversi mai scusare della sincerità, un legame, il loro, di lunga data, proficuo e appassionato.
Pamela Michelis

Affinché morte non ci separi

Prefazione

«Se non hai quel grembo
entro cui riversare
ogni lacrima delle tue ferite,
verso sera si va incontro a se stessi…»

MG

Con questa sua ultima raccolta poetica data alle stampe, “Affinché morte non ci separi - Poesie d’amore”, Mauro Giovanelli realizza quella che possiamo definire un’opera di assoluti. Intendiamo, per assoluti, due opposti totalmente distanti, eppure, a ben guardare, costretti a un legame indissolubile che li vincola alla reciproca esistenza. Il più conosciuto è sicuramente Bene/Male: quante volte, infatti, abbiamo letto di come un aspetto esista solo in funzione dell’altro e viceversa?

Mauro Giovanelli, però, in questa raccolta, si concentra su altri assoluti, che crediamo siano ancora più potenti: Eros e Thànatos.
Senza avventurarci in disquisizioni troppo filosofiche o freudiane, possiamo riassumere molto brevemente il concetto dicendo che Eros è la pulsione di vita, quella spinta inarrestabile che ci motiva verso il soddisfacimento di sé, la ricerca del piacere, l’appagamento dello spirito e della carne; collegato vi è Thànatos, uno stimolo altrettanto potente ma distruttivo, spesso inarrestabile – e comunque inevitabile – con cui dobbiamo imparare a convivere. Nondimeno, Thànatos può anche essere letto come forma di difesa dalla paura della morte, che perde dunque il suo carattere distruttivo e torna a essere una forza evolutiva, e quindi imprescindibilmente legata con lo slancio vitale e l’impulso anche sessuale. Solo nell’equilibrio tra le due può esserci eternità.
Ecco dunque che con le sue poesie Mauro Giovanelli li supera entrambi e ci porta a conoscere l’incontro di anime e di corpi che va oltre il presente, attraversa quella soglia mortale per inoltrarsi nell’indefinibilità di quel che non possiamo conoscere.
“Affinché morte non ci separi” è l’elogio definitivo a una dualità che non si arresta con la cessione delle funzioni vitali e, infatti, vive anche quando agli amanti vien meno la vicinanza, poiché sono le anime a essere collegate, e la fisicità che prende vita è potente e stremante quanto lo sarebbe quella tangibile, lasciando in più un’irresistibile perdizione di sensi data dallo smarrimento momentaneo di sé.
Non a caso una delle immagini dominanti che ricorre nella raccolta è proprio quella del bisòmo, termine con cui, nelle catacombe, s’indicava una sepoltura doppia: tecnicamente sono proprio i loculi orizzontali nelle pareti realizzati spesso per contenere due salme, di solito marito e moglie.
Ogni poesia diventa bisòmo: scrigno sacro destinato a conservare l’immortalità di un ricordo, ancor più di un amore, e anche se la materia si disgrega in polvere, la presenza del sentimento vive perfino attraverso questa dissolvenza, ossia la sacralità di due anime che si sono incontrate e che attraverso la parola sigilla la loro presenza terrena e ultraterrena, perché senza definire un oltre, esso esiste comunque, lo sentiamo tra queste pagine ogni volta che le anime comunicano in modi che non riusciamo neanche a immaginare.

[…] Mi ascoltavi, ripenserai all’infinito che proprio perché tale ha il suo limite, una volta concesso all’universo d’esplorare ogni gioco, lo costringerà a cavalcare ciò che è stato, rimodulare il destino con le medesime pedine […]
(Torneremo)

Però il lettore un poco più spregiudicato potrebbe chiedersi se in realtà Mauro Giovanelli non stia adoperando una metafora e questa morte, anzi l’andare oltre la morte, non sia anche simbolo della perdita di (del) sé nell’altro. Il dubbio è lecito: quando la perdizione di sé nell’altro è compiuta, perché tracimano i margini
che un’intera esistenza ci ha imposto, che cosa succede al sé più profondo? È forse l’esperienza più “terrificante” che abbia provato chi, appunto, si è annullato nella perdita dell’amore: lo smarrimento di sé equivale a una vera e propria morte e l’altro diventa un luogo ultraterreno da raggiungere disperatamente, il paradiso promesso per ritrovare se stessi.

  [...]Fossi specchio
      il tuo bagliore
      attraverserebbe
      indefinitamente
      l’universo mondo
      per riposare
      alle mie spalle
      l’eternità. [...]
      (Fossi specchio...)

Ancora:

[...] Amore,
      amare,
      essere amati,
      amaro averli perduti,
      così da rinunciare
      all’affilata luce del sole
      che leviga ogni dolore
      e ombra benevola
      accoglie tregua, silenzio,
      mentre la vita scorre
      come carezza
      sul muso del purosangue
      che sta guardando il cielo. [...]
      (I divini cavalli di Achille)

Forse abbiamo proposto un’interpretazione un po’ azzardata, ma in fondo stiamo parlando di assoluti, di terre sconosciute e dunque di confini superati nel buio più completo… (pensiamo al componimento “Al centro”, per esempio):

[…] e sarà amore totale, fluido, i nostri corpi ci faranno toccare confini mai neppure immaginati, fino a coprire tutte le direzioni, e noi sempre al centro. […]
(Al centro)

Ma è in realtà l’amore, la sua nascita, il suo dirompente prendere vita che si contrappone alla morte stessa pur essendone sorella. La convergenza di entrambi raggiunge l’apice nel brano in cui lo stimolo vitale tramite la fisicità è lasciato libero di incontrarsi e scontrarsi in un luogo estremo, è una collisione pari a un big bang animico:

 [...] Là in fondo,
       alla fine del parco,
       appena dietro il cimitero,
       erano fredde le tue cosce,
       denso e madido
       profumo di fiori morenti
       riempiva le narici,
       e al riparo della sottile nebbia
       l’ultimo cigolio dei cancelli
       diede voce al silenzio,
       e nella spenta luce
       tutto si dissolse
       fra le tue mutandine,
       e baciarti fu importante. [...]
       (Il giorno dei morti)

Il fatto che la raccolta si risolva con una poesia intensa come “Il prossimo incontro”…

  [...] Il prossimo incontro
        sarà più o meno così,
        intanto vederti,
        una carezza sul viso,
        di quelle che non si dimenticano,
        tu alzerai il mento,
        respiro corto, intenso,
        come lupa che fiuta il vento,
        abbraccio forte,
        ti stringerò in vita,
        la mano scenderà lieve,
        risoluta, calda,
        e questo per portar via qualcosa di te
        oltre il bacio,
        e la tensione della tua nuca. [...]
        (Il prossimo incontro)

…lascia aperte altre vie interpretative, fa pensare che in effetti tutto sia un presagio di nuova vita, non un semplice rinnovarsi, piuttosto un trasmutare completo che avvia una nuova ciclicità del divenire che nondimeno transita nella carnalità e nell’amore ma esiste solo perché le anime hanno saputo superare l’averno della fine e sono ora proiettate verso un infinito di luce immateriale, però sempre all’insegna del conosciuto: lo sguardo di chi amiamo.
Pamela Michelis

Pulsionale poesia III Millennio

Prefazione

L’essere umano non è nato – filosofeggiando si potrebbe persino dire “progettato” – per mantenere un’opinione fissa, costante, egli è una sorta di ossimoro vivente, un coesistere di opposti nel tempo… ed è bene che sia così. Si potesse indagare scrupolosamente nel passato di quelle persone che affermano con risolutezza di avere sempre la stessa opinione su un’idea o un concetto, si scoprirebbe quanto dicano il falso, spesso senza neppure averne coscienza.
L’uomo – infatti – è frutto degli eventi, delle esperienze e spesso in lui convivono termini contradditori, ossimori appunto, idee e pensieri totalmente contrastanti che pur tuttavia vivono in perfetto equilibrio poiché costretti ad attraversare i veli del tempo.
Questo ci porta alla riflessione che in alcune menti più illuminate, ossia predisposte a un’apertura intellettiva – potremmo dire metafisica – che vada oltre il loro essere per abbracciare un infinito dal senso più alto, lo stravolgimento delle percezioni sia qualcosa d’impossibile da evitare, una vera e propria impellente e predestinata necessità.
Mauro Giovanelli appartiene a questa categoria di uomini che costantemente mettono in discussione il tutto: non sono mai paghi di porsi domande e nel mantenere punti fissi quei valori imprescindibili, particolarmente capaci di orientarli pur lasciandoli liberi di sperimentare, sono alla
continua ricerca di una forma per misurare la sostanza dell’essere, consapevoli della sua transitorietà poiché costantemente in divenire.
Nasce così “Pulsionale poesia III Millennio – L’amore da qui all’eternità”, una silloge che affonda le sue radici nella vasta produzione dell’Autore rispondendo all’urgenza di inserire il nuovo anelito di vita in un contesto amico, familiare, confortevole qual è, appunto, la serie delle sue opere.
Perché questo?
Ce lo svela lo stesso Autore in un verso che dice tutto, che sa d’infinito: “Abbiamo ancora futuro” in chiusura della lirica “Nessuna messa è detta”.
Ecco, la creazione poetica di Mauro Giovanelli fa pensare a un’opera futuristica com’è stata “Forme uniche della continuità nello spazio” di Boccioni, solo che qui è applicata alla scrittura: un movimento perpetuo elegiaco che va verso il divenire, ma nella materica essenza che si rinnova pur senza destrutturarsi. Allora ritroviamo quel sentire familiare nella presenza “femmina”, selvaggia eppure innocente, che trascende in maniera estatica il sentimento – anche carnale – che nulla ha da invidiare alla purezza di un giglio virginale, un’essenza allo stesso tempo tentatrice e timida, riservata (torna l’ossimoro), anch’essa a suo modo caposaldo esistenziale perché il groviglio di sentimenti e sensazioni che la donna fa nascere nell’Autore si dipana come un albero della vita, le cui fronde e le cui radici affondano nel compiuto.

[…] quante volte ho trascorso la primavera
a fare progetti, vagheggiare sul futuro,
adesso ne ho quasi paura,
passo il tempo nel ricordare
ogni proposito toccato e svanito,
m’impigrisco nella nostalgia
quasi fosse la sola distrazione,
forse indolenza, cronica malattia,
timore di fare del male, riceverlo
ricadere nella sana follia.
[…]
(Orizzonti)

A fare da sfondo è una natura umana impervia, estrema, in cui le forze ataviche implodono, più che esplodono, dove persino i segni di civiltà – porti, strade, città, costruzioni… – hanno un non so che di artefatto, come se vivessero di un riverbero fuori dimensione, a conferma di quel senza spazio e senza tempo (più che a-spaziale e a-temporale) tanto caro all’Autore.
La sfumatura nuova che avvertiamo in quest’opera è una presenza animica più ponderata, riflessiva, come se Mauro Giovanelli al momento si trovasse coinvolto in una meditazione più consapevole e cosciente, che richiede di fermarsi per andare avanti: sembra essere giunto il tempo di edificare un pensiero che non possa essere portato via dalle alluvioni della vita che con la loro violenza colpiscono nella quiete delle giornate e travolgono tutto, senza rimorso, senza rimpianto, lasciando una distruzione inspiegabile e spesso dolorosamente senza risposta.

[…] pianti pietrificati
in un solo momento
che lungo il filo invisibile,
inesistente, dell’implacabile
curvo orizzonte scorre
come vento generato
da un dio sussistente
unicamente per ricordarmi,
alla fin fine,
essere solo a giocare
la mia partita
con infinito e nulla,
avversari senza volto
e grande abilità
nel mischiare le carte
[…]
(Panico)

Ecco la necessità di una silloge definitiva frutto di un ulteriore lavoro di limatura che sembra appunto ripulire il pensiero dai detriti del tempo restituendo se non le fattezze originali perlomeno quel che si è salvato, perché non sempre è possibile recuperare se non ponendo l’accento su ciò che è ora, quel qui e adesso tanto caro alla filosofia come alla psicanalisi.

[…] Per egoismo avevo puntato tutto
su uno sguardo, senza considerare
il dolore dell’anima
che mi stava di fronte,
non me ne accorsi,
e lì mi ero perduto,
e parlai di questo
il giorno dopo, allo specchio,
mentre sistemavo il ciuffo ribelle,
pronto a calpestare altri sentieri
che si stavano aprendo,
e li avrei percorsi uno a uno
con insolenza, indifferente,
neanche fossi stato il vincitore.
[…]
(Nessun vincitore)

C’è una consapevolezza più matura fra queste pagine, talmente profonda da essere quasi serena, un’accettazione sincera dell’imponderabile che ricorda moltissimo l’ultima produzione di David Maria Turoldo, quando la morte quasi imminente non era combattuta ma accettata e condivisa quale compagna di viaggio dischiarante un cammino che ora si faceva luminoso, nella sua comprensione totale.
L’imponderabile diventa evidente, quando si comprende che non è possibile fare altro che affidarsi, lasciarsi andare, certi che quella mano che sempre è stata appoggiata alla nostra spalla è ora pronta anche a sorreggere, in una stretta più percepibile ma ancora lontana nel suo ultimo abbraccio finale.

[…] è quando ci coricammo sul prato,
io ti venni sopra, mai potrò dimenticare
il morbido spessore, sì la consistenza del tuo corpo,
da quel momento tutto fu chiaro, come una rivelazione
che mi avrebbe accompagnato per sempre,
la distanza intendo, lo stacco, proprio così, cioè il tuo
frapporti, tenermi discosto dal terreno, proteggermi,
non è facile dirlo, neppure pretendo d’esser capito,
mi riferisco al fatto che esisti, e in virtù di ciò sto separato
dall’abisso, sei scudo fra me e l’ultima dimora, la differenza
tra la vita e la morte, spero ti giunga il mio pensiero…
[…]
(Il tuo spessore)

La parola, dunque, diventa quel supporto, quello strato a protezione di noi e tutto il resto e nuovamente l’Autore ci indica la strada in questo senso utilizzando un’immagine di grande potenza, dove una metaforica giovane donna, che proprio in quella sua freschezza diviene vita, si frappone tra il compagno e quel mondo che può essere tutto, diventando l’aiuto che ci permette di osare, di affidarci preservati dall’ignoto, a volte minaccioso, venendoci in soccorso dandoci una difesa che è però conforto, amore, piacevolezza… vigorosa presenza quasi sovrannaturale.
Nuovamente arriviamo all’ultima pagina tracimanti di vibrazioni che se da una parte ci lasciano storditi per la loro pienezza, dall’altra non possono che integrare – nuovamente e con più forza – il non detto in noi che chiede risposta.
Pamela Michelis

Le tessere del Pàmpano

Prefazione

«Religentem esse oportet,
religiosus nefas [ne fuas]
»
(Aulo Gellio, Noctes Atticae, XX 4,9)

Il percorso poetico di Mauro Giovanelli si è arricchito nel tempo d’importanti tasselli. Chi ha avuto il piacere di seguire la sua produzione sa che per l’Autore la parola è il mezzo maieutico per eccellenza, è un tramite – nel senso potremmo dire divino, inteso come altissimo, perfettamente completo – di scoperta e riscoperta, ma soprattutto di trascendenza, un veicolo attraverso cui l’anima raggiunge l’inatteso e inizia a parlare una lingua nuova, universale. Quindi con il passare degli anni non stupisce che egli ravvisi la necessità di tornare sui propri passi e ciò comporta, in diverse occasioni, un riesame del già scritto alla luce della nuova percezione acquisita nel qui e ora. È una sorta di ripetersi ciclico, un ripresentarsi di corsi e ricorsi esistenziali e, parafrasando Giambattista Vico che “ci chiede un passo indietro”, qui è al solo scopo di acquisire più energia, ricaricarsi, al fine di spiccare un volo che non sia pindarico, ma verso le vette più alte e consapevoli.
L’uomo/poeta che ci troviamo di fronte con questa nuova opera, “Le tessere del pàmpano in forma di poesia”, è persona che ha trasceso la vita, che ormai ha una tale padronanza dell’essenziale e del necessario da vedere oltre, sentirsi finalmente libero di intraprendere la ricerca di un altro inizio, ricco di stimoli ma privo di urgenze materiali, animato, in definitiva, da pura volontà.


[…] Comporre significa
voler spiegare misteri, sensazioni
che solo tu vedi e senti,
non esistono,
hanno origine da te,
alla fine si torna al principio,
è interrogarsi all’infinito tuo,
è l’effetto di trascinamento
per quella volta, tanto tempo fa,
che ancora bimbo già comprendesti
la vita esser anche malata,
quando scoppiasti a piangere,
da solo, disperato,
sulla copertina del libro di papà,
appena terminato di leggere
“Addio, Mr. Chips!”.
Tutto qui.
[…]

È questa una conoscenza intesa nel senso più “metafisicamente” consapevole. Come ci dice lo stesso Autore, infatti, «rispetto ai miei due ultimi lavori, “Affinché morte non ci separi” e “Pulsionale”, qui l’aspetto terreno, materiale cerca anche di inoltrarsi nell’indefinito con l’intento di piegarlo al nostro volere».
Adesso l’artefice della raccolta, se pur nelle sue costanti fragilità (e pensiamo in tal senso ai versi del brano Prima Vera «…allora divento giudice e imputato / cavaliere e servente, vulnerabile, / piccolo uomo, vivo e disperato…») è Uomo nel senso più elevato possibile, e da quest’ottica viene immediatamente alla memoria la rappresentazione che ne diede Kubrick nel finale di “2001 Odissea nello spazio” dove, a compimento della sua evoluzione, l’astronauta è esso stesso divinità, trascendenza, puro intelletto. Una nuova trinità che non pretende di essere Dio o di superarlo sebbene travalichi il suo essere mortale e, ormai purificato, emendato dei peccati moderni, neanche cerca di sostituirlo, piuttosto può aprire gli occhi sulla vastità concessagli per non fermarsi alla sola posa del Suo sguardo, ma di esplorarlo in tutti i luoghi (fisici e concettuali), poiché ovunque Egli è, va solo “cercato e trovato”.
In un interessante scambio con l’Autore, quest’ultimo – con molta efficacia – illustrava come «La parola “Dio” incomba su tutto il presente testo» poiché egli si definisce religente fino al midollo e, citando Aulo Gellio, specifica come la parola “religioso” sia da evitare proprio perché portatrice di una passività e dipendenza che non appartiene al suo sentire. Mauro Giovanelli sa di essere, invece “fruitore” attivo, dinamico, soggettivo, che inserisce la sua esperienza nella percezione e indaga nella maniera
più viva possibile perché «voglio la Verità. Ecco, è la Verità che inseguo, spesso scavando nelle leggi della fisica, della matematica, astronomia, altre volte contemplando un tramonto, le nuvole, il mare in burrasca, un volto femminile. Tutto ciò per me è preghiera, atto di fede, culto».
In tutto questo ci sono una profondità e un’intimità che emozionano, poiché ciò presuppone l’umiltà di chi si toglie il “velo di Maya” (secondo Arthur Schopenhauer, grande studioso delle filosofie induiste, il “velo di Maya” era l’illusione che impediva all’essere umano di fare esperienza della Verità, del principio assoluto di realtà N. d. A.) dagli occhi per aprirsi fiduciosi allo sconosciuto.
Ce lo ricorda sottilmente il nostro Autore in tutti quei momenti in cui nella raccolta si supera quell’atmosfera decadente di macerie esistenziali, appunto quelle che ci impediscono di “vedere” e che ancora percepivamo in parte nella precedente produzione, vivendo ora una realtà nuova, più definita nel suo essere comunque eterica, vitale, energetica:

[…] «Per ogni sbilenca rotazione su se stessa durante l’ellittico percorso intorno al sole, nella traslazione dei corpi celesti verso chissà dove, sulla Terra c’è un momento in cui il confine fra luce e ombra è netto, deciso, implacabile come affilatissima lama di katana, privo della pur minima, impercettibile sbavatura, al punto che percorrendo e superando nel silenzio assoluto ogni ostacolo taglia in due parti precise strade, facciate di palazzi, lastricati, giardini, piazze, panorami urbani, periferie, monumenti, tutto.» […]
(Significante nonsenso)

Azzardiamo nel dire che è superato il concetto stesso di aldilà, perché siamo oltre; quella che l’Autore identifica come «certezza che tutto debba continuare, qualcosa di più della sola speranza di un ulteriore» è la vera consapevolezza che siamo legati con un filo a Dio non “perché suoi figli”, ma come Suo specchio, vero e proprio riflesso e tramite di conoscenza. In uno scambio biunivoco, raggiungere un certo grado di consapevolezza e trascendenza e una volta affrancati dai vincoli delle credenze umane si può essere finalmente liberi di vedere a occhi pieni e non solo più percepire o a mala pena intravedere; in un autentico salto di fede è finanche possibile afferrare, ripresentarsi alla casa primordiale che diventa ora luogo nuovo, terra fertile e inesplorata.
Come in “Torneremo”, quando l’Autore scrive

«mano alla fronte che si fa visiera per osservare il lontano passato che avanza, ecco perché avrai di più, e fra te e te bisbiglierai: dunque sei tornato, sei tu.».


Bellissimi a questo proposito i versi di “Ennegici settemilasettecentoventisette”, l’incipit ad esempio:

«C’è un punto, diverso da utopia, le cui coordinate non sono celesti, è ovunque luogo…».

“Ovunque…”, avverbio che racchiude la potenzialità infinita, poiché è immersione totale nello scorrere, nella fluidità della vita e della vita oltre, la scomparsa definitiva dei confini in tutte le sue accezioni.
Finalmente “l’uomo giovannelliano” è libero, ha toccato il sole, non ne è rimasto bruciato, si è fuso con esso e ora assapora il suo smaterializzarsi per farsi infinito, presenza imperitura. Quest’uomo ha abbandonato quelle catene meschine che tanto fanno orrore al nostro Autore perché inchiodano l’animo a un vischioso pavimento di bitume che può solo annientare, portando a un’asfissiante morte interiore di sofferenza lenta e silenziosa. Quest’orrore lo percepiamo verso l’uomo schiavo delle sue paure, che china il capo e decide di non guardare la luce, con la giustificazione che i suoi occhi pavidi non potrebbero sopportarla.

[…] A parer mio è questa la prova che in definitiva l’uomo
vuole essere schiavo, che qualcuno provveda per lui,
e più è soddisfatto del poco ottenuto, purché lo ponga
un’inezia sopra il vicino, più abbassa la testa e porge
le terga. Ed è la sola cosa che dittatori e aspiranti tali
hanno capito.
[…]
(Tutto quel che c’è da sapere)

Anche la figura femminile è più sofisticata, sebbene apparentemente silente, quasi marmorea, presenza imperturbabile, idiosincrasica alla falsità, donna che non è più madonna né guida dantesca, bensì l’unica possibile compagna di viaggio per quest’uomo nuovo, poiché essa, nella sua complessità e grandiosità – pensiamo solo al potere straordinario di dare la vita – incarna l’altro lato di
Dio, complementare e basico.
Due creature rinate dalle ceneri dell’oscurantismo, capaci di solcare un percorso resosi visibile ai loro occhi e pronto a essere esplorato verso la luce promessa da loro stessi a se stessi fin dalla notte dei tempi e finalmente dischiarata. La ricerca della verità non è più dunque una prospettiva ma cammino già intrapreso che ha dato i suoi frutti: lo stesso desiderio, il forte bisogno, di mettere in discussione l’impensabile – come l’aldilà – lo dimostra. Non c’è paura, ma non è per superbia è piuttosto proprio per la vivida certezza di quell’Ovunque che ci fa sentire accolti, protetti, e liberi di osare. Perché come scrive Luis Sepùlveda «Vola solo chi osa farlo».
Pamela Michelis

Settantanove scritti o Giù di lì…

Prefazione
Preface

Cosa ci spinge a scrivere poesia? Noi crediamo sia la necessità di dare forma spirituale alla sequenza di parole, restituire al pensiero il candore di una rosa, la morbidezza di un petalo, la soavità del profumo di un giardino in fioritura.
La poesia è, in fondo, un bocciolo dell’anima e, proprio come l’omaggio floreale, sa essere dono inaspettato e forse, proprio per questo, maggiormente gradito. Ogni verso è bellezza unica che arriva al cuore e lì rimane perché eterno, non nell’immobile restare a memoria, ma nel rinnovarsi costante nell’animo del lettore che decide di farlo proprio, di assorbirne la linfa infusa dall’Autore nell’atto della creazione.
La poesia è trionfo ed eredità, è decidere di lasciare la parte più nobile di sé non solo a una discendenza di sangue ma anche a coloro che semplicemente varcheranno le porte di questa vita dopo di noi.
Mauro Giovanelli ama la poesia, la accudisce, la cresce, la vivifica, la immortala, persino la santifica quando decide di farne elemento sacro, non solo da venerare ma da proteggere e amare sopra ogni cosa.
È per questo che nel corso della sua vita, ha dedicato a essa gran parte del suo impegno, anzi, della sua dedizione, e se è stato capace di dare alle stampe diverse raccolte, ora è pronto per un progetto più complesso, più intenso, realizzare appunto un’antologia delle sue opere arricchita da testi esclusivi, ciò che siamo qui oggi a presentarvi insieme a brani in nuova edizione già pubblicati.

“Settantanove scritti e mezzo – Vita, amore, morte, i soliti discorsi…” è il titolo di quest’ambiziosa raccolta, valorizzata dalla traduzione in inglese a fronte, per cui il titolo aggiuntivo “Seventy-nine and a half writings – Life, love, death and the usual…”.

La raccolta contiene testi di “Pulsionale, poesia III Millennio”, 1a e 2a edizione, e “Le tessere del pàmpano”, entrambe Vertigo Edizioni, oltre a recenti produzioni inedite, quali Il cimitero delle api, Pulsione, Ti amo, L’altra faccia di Giacomo Leopardi (Ancóra), Il tuo spessore, Quel che resta, Riproverò, Annichiliti, Tomba bisoma per citarne alcune.
A colpirci, negli scritti precedenti, c’era stata un’innata poliedricità, capace di esprimersi con un verso sorprendente, “attivo”, nel modo di organismo vivente privo dell’intenzione d’adagiarsi semplicemente sulla pagina ma in grado di rifulgere a ogni tocco, sguardo, come se da questi traesse nutrimento e al passaggio del lettore facesse sbocciare un nuovo elemento interpretativo.
In Pulsionale (1a edizione), per esempio, a questo discorso si affiancava anche un elemento artistico aggiuntivo, poiché il testo era stato arricchito da quelle che ci piace definire impressioni d’arte «…riproduzioni inserite dall’Autore di opere presenti nella sua collezione privata, immagini familiari storiche, foto da lui stesso scattate e altre universalmente conosciute per il loro valore artistico…» (dalla Prefazione alla prima edizione). Tale pubblicazione, dunque, è stata un’esperienza pregnante, come se Mauro Giovanelli avesse voluto farci sentire circondati dalla lirica e dall’arte, avvolti dalla bellezza, alla maniera di un abbraccio sensuale e affettuoso allo stesso tempo, un caldo invito a stringerci al riparo delle sensazioni sotto la portentosa protezione della creatività che emoziona, e lasciarsi trasportare in un mondo sconosciuto, accogliente come nessun altro mai.
A traghettarci nei successivi lavori, fino a “Le tessere del pàmpano”, la sottile capacità intellettuale dell’Autore che affonda le sue radici in una conoscenza che non è didascalica ma appassionata, dunque vera e sincera, ricca di stimoli e instancabilmente “vogliosa” di nuove scoperte, inesauribile sete di comprensione.
Proprio quest’atteggiamento è ciò che gli ha permesso di dare voce a un’esigenza nata in concomitanza ai tragici eventi vissuti negli ultimi diciotto mesi, un periodo che sembra drammaticamente lungo per l’impronta lasciata su tutti noi e che ancora oggi non siamo capaci di tarare in base alle nostre esistenze attuali. Ed è con questa silloge che Mauro Giovanelli dimostra non solo capacità adattative da un punto di vista artistico ma anche spiccata propensione di rimanere al passo con i tempi ed esserne innovatore, cercando nella poesia l’esatto spunto per salpare alla ricerca di esperienze incisive frutto di un’urgenza vigorosa che nasce sì dal disagio, ma anche da quell’innata capacità dell’uomo di non fermarsi alle difficoltà e superarle, anche quando sia ancora impossibile comprenderne l’effettiva portata. È, in fondo, quella resilienza che s’invoca in continuazione, ma a pochi è data la capacità di metterla in pratica.
I nuovi componimenti non giungono inattesi – come si può, infatti, arrestare l’onda creatrice? – ma necessariamente accolti, perfino voluti, fiduciosi che pure questa volta l’Autore sarebbe stato capace di offrire un apporto sincero e produttivo al nostro desiderio di ascolto. Infatti, il florilegio interno alla raccolta spazia in un’espressività strutturale varia; alcune, per esempio, molto vicine alla prosa (pensiamo a un testo come “Il tuo spessore”, di cui riportiamo alcuni passaggi) con un verso più lungo, articolato, energico flusso di coscienza che necessita d’infiniti elementi, quasi fossero appigli di senso per una rapidissima scalata alla consapevolezza. Da lettore ci si sente partecipi di un breve monologo fatto nella solitudine della propria anima ma con l’ardente desiderio che sia condiviso con chi sappia realmente ascoltare.

[…]
…sai, alla fine una cosa m’è rimasta impressa, non ci crederesti, anch’io fatico a spiegarmi, neppure saprei in che modo descriverlo, o rispondere al perché mi ricordo quel pomeriggio assolato, cicaleccio lontano, luce fredda e tagliente del giorno, insomma voglio dire, tu stavi seduta su un sasso a margine del sentiero, aria sbarazzina, ginocchia unite, piedi divaricati, calzini bianchi, lo sguardo, ma non è questo, è quando ci coricammo sul prato, io ti venni sopra, mai potrò dimenticare il morbido spessore, sì la consistenza del tuo corpo […]
(Il tuo spessore)

A questi brani si affianca una scelta più contenuta, minimalista, quasi aforistica che intende scandagliare il significato primordiale dell’uomo, come se l’interrogativo sul mistero della vita si fosse fatto impellente e non più procrastinabile. Sentiamo che l’idea stessa dell’essere uomini è stata ribaltata, non semplicemente stravolta, e percepiamo forte questa ricerca del nostro posto nel mondo.

[…]
La domanda non è
“Che cos’è l’universo?”,
la domanda è
“Io ero previsto? E perché?”
. […]
(A caso)

Anche:

[…]
“È poeta chi scrive sotto dettatura di un alto principio convertendone l’idioma a lingua universale.” […]
(È poeta…)

La scelta di una metafora potente come quella dell’ape operaia nel componimento “Il cimitero delle api” è rappresentativa: la forma di vita che più simbolizza l’insetto verso un’agonia lenta che sembrerebbe inarrestabile per mancanza di volontà da parte di chi potrebbe fare qualcosa, rabbia e impotenza che si uniscono in una desolazione che sfiora i lidi stessi di quella umana, e viene da chiedersi se si stia parlando solo delle api e non di ciascuno di noi, in una simbiosi che è fratellanza ancestrale.
Rimane una sensazione struggente e cruda nel lettore ma che non sovrasta la consapevolezza di possedere la chiave per superare tutto questo, è il desiderio di un mondo migliore, è quella stessa poesia cui affidiamo i nostri messaggi e che desideriamo divulgare, come un volo d’api, a portare polline salvifico ovunque, pure nello spazio siderale che l’Autore apre alla vista:

[…]
Nulla so di te, distante la tua luce,
mentre perviene, narra il passato,
ma del tuo fulgore assorbo ogni stilla,
mi disseta e fortifica,
sorgente di vita indica la via
da seguire per annullare spazio fra noi,
così da annichilirci all’infinito
in una sola sostanza ogni volta
più lieve nel liberare energia.
In virtù di un principio ignoto
sei destinata a me,
il resto è vuoto.
[…]
(Annichiliti)

Non di rado la visione del mondo di Mauro Giovanelli lambisce le equazioni matematiche, le leggi della fisica, ma non in un sistema che intenda ridurre di significato il sentimento e l’anima, al contrario per dargli respiro,
esaltarli nel tentativo di possederne la formula. L’Autore si annida nei meandri del Cosmo senza perdere il filo che gli consenta di tornare sulla Terra, è una figura ricca di complessità ma sicuramente uomo coerente nel suo pensiero, la cui prosa si getta e si riversa sui fogli come un fiume. Ogni suo libro è una summa di molteplici elementi che necessita anche di pause di riflessione, rilettura, e il loro insieme vanno a plasmare un quadro articolato dove i temi universali di vita, amore e morte si muovono in binari talvolta distinti, talvolta amalgamati con sapiente tecnica e padronanza di stile.
Buona lettura, e buon viaggio.
Pamela Michelis

Seventy-nine writings or thereabouts – Life, love, death and the usual…
Settantanove scritti o giù di lì – Vita, amore, morte, i soliti discorsi…

Preface
Prefazione

What drives us to write poetry? It is our belief that it is the necessity to endow word sequences with spiritual form, to restore to our thought the candour of a rose, the soft touch of a petal, the agreeable scent of a garden in flower.
Essentially, poetry is a bud of the soul and, just like the month of May in full bloom, it knows how to be an unexpected gift and perhaps for this very reason it is more appreciated. Every line of verse is unique beauty which reaches the heart and therein remains because it is eternal, not a motionless sojourn in the memory – on the contrary, in constant renewal in the soul of the reader who decides to make it his own, absorbing the sap infused by the poet at the moment of creation.
Poetry is triumph and heritage, it is a decision to bequeath the most noble part of oneself not only to blood descendants but also to all those who will simply pass through the doors of this life after us.
Mauro Giovanelli loves poerty, he tends to it, he cultivates it, he gives life to it, he immortalizes it, he even sanctifies it when he decides to make it a sacred element, not only to be venerated but also to be protected and loved above all else.
This is why in the course of his life he has endeavoured devotedly, indeed totally committed himself – if he has succeeded in having various collections published, now he is ready for a more complex and intense project. It comes in the form of an anthology of his works, comprising exclusive texts now presented alongside already published pieces, all in a new edition.
“Settantanove scritti e mezzo – Vita, amore, morte, i soliti discorsi…” is the title of this ambitious collection, along with the parallel text presented in English, entitled “Seventy-nine writings or thereabouts” – Life, love, death and the usual…”.
The collection includes texts from “Pulsionale, poesia III Millennio, 1a e 2a edizione” and “Le tessere del pàmpano”, both published by Vertigo Edizioni, as well as recent, first-time productions, such as “The cemetery of the bees”, “Pulsion”, “I love you”, “The other side of Giacomo Leopardi”, “Your thickness”, “What remains”, “I shall try again”, “Annihilated”, “Bisomus tomb” – to mention but a few.
In the previous writings what struck the reader was an innate versatility, capable of expressing itself in lines of verse apt to take by surprise, “active” as a living organism devoid of any plan to simply recline on the page. Giovanelli’s poetry is, indeed, capable of glowing at every touch, glance, as if whence it drew nourishment and, once passed on to the reader, it causes a new element of interpretation to blossom.
In Pulsionale (1a edizione), for example, such a claim is boasted by an adjoining artistic element, since the text had been enriched by what we like to define as art impressions, «…the poet includes reproductions of works belonging to his private collection of historical family pictures, photographs taken by the poet himself and others of universal acclaim because of their artistic merit…» (from Preface to the first edition). Hence, such a publication constituted an experience of some wealth, as if Mauro Giovanelli had wished to let us feel surrounded by lyric poetry and art, wrapped in beauty, in the fashion of an embrace both affectionate and sensual, a warm invitation to cling to each other in the shelter of the sensations under the portentous protection of the creativity which excites and allows itself to be carried to an unknown world – welcoming like no other before.
It is the poet’s subtle intellectual capacity which ferries us across to the ensuing works, up to “Le tessere del pàmpano”; his roots are anchored in a knowledge which is no mere caption but passion, hence true and sincere, rich in stimuli and tirelessly “desirous” for new discoveries, a boundless thirst for understanding.
It is this very attitude which has allowed him to give voice to a demand come to life in conjunction with the tragic events experienced over these past eighteen months – a period which seems dramatically prolonged because of the mark left on all of us and even now we are still unable to gauge re respective present existences. It is with this anthology that Mauro Giovanelli shows his ability to adapt not only from an artistic point of view but also with an unmistakable inclination to keep apace with the times and innovate, seeking in poetry the exact cue so as to set out in search of incisive experiences, the fruit of vigorous urgency which certainly hails from discomfort, but also from that inborn ability of man not to give in when faced with adversity; the choice is to face this latter, even when it remains impossible to grasp the effective full scope. The poet possesses a continually triggered resilience which few are granted the ability to put into practice.
The new components do not arrive unexpectedly – indeed, how can you halt the creative wave? Through necessity they are accepted, even expected, by the reader confident that this time too the poet might be able to offer a sincere and productive contribution to our desire to listen. As a matter of fact, as it appears in the volume, the florilegium covers a range of varied structural expressiveness; for example, some are very close to prose (consider the text “Il tuo spessore”, of which some excerpts are reported) with longer more articulated lines bordering on an energetic stream of consciousness requiring infinite elements – almost as if footholds for lightning ascent to awareness. The reader feels a part of a brief monologue created in the solitude of his own soul but with the ardent desire to have it shared with whoever truly knows how to listen.

[…]
… you know, in the end one thing remained impressed upon me, you would not believe it, I myself have got difficulty in explaining, and I would not know how to describe it, or to answer why I remember that sunny afternoon, distant babble, cold and cutting light of the day, in a word, I mean, you were sitting to one side on a stone along the path, saucy air about you, knees together, feet outspread, white socks, your look, but this is not the point, it is when we lay down on the grass, I got on top of you, never will I be able to forget the supple volume, yes the substance of your body. […]
(Your thickness)

These pieces are accompanied by a more contained, minimalist, almost aphoristic choice which is aimed at sounding the primordial meaning of man, as if the question on the mystery of life had become compelling and no longer deferrable. We sense that the very idea of being humans has been not simply altered but overturned and the search for our place in the world is perceived as enormous.

[…]
The question is not
“what is the universe?”,
the question is
“was I planned? And why?”.
[…]
(At random)

Also consider:

[…]
A poet is whoever writes,
under dictation,
about a high principle
converting its tongue
to a universal language.
[…]
[…]
(A poet is…)

The choice of a powerful metaphor such as the worker bee in the composition “The cemetery of the bees” is indicative. Witnessed is a form of life most akin to the insect’s in a slow agony, which might seem ceaseless for lack of will on the part of whoever could do something, anger and impotence which unite in a desolation which impinges upon the very shores of man’s existence, and the question is begged as to whether we are talking merely of bees or of each one of us, in a symbiosis which is ancestral brotherhood.
A heart-rending and raw sensation remains in the reader but it does not tower above the awareness of possessing the key to overcome all this, it is the desire for a better world, it is that same poem we entrust our messages to and which we wish to divulge, like the flight of the bee as he carries redeeming pollen, even in the sidereal space which the poet opens to our vision:

      [...]
      I know nothing about you, distant is your light,
      as it arrives, narrates the past,
      but of your radiance I absorb every drop,
      it quenches my thirst and strengthens me,
      life’s source show me which turning
      to take in order to nullify space between us,
      so as to annihilate us towards infinity
      making us one sole substance
      each time lighter in releasing energy.
      Thanks to an unknown principle
      you are destined to me,
      everything else is emptiness. [...]
      Annihilated)

It is not infrequent for the vision of Mauro Giovanelli’s world to approach mathematical equations and the laws of physics, but not in a system designed to reduce the meaning of sentiment and the soul, on the contrary it affords them breath, exalting the same in the attempt to possess the formula. The poet nestles in the meanders of the Cosmos without losing the thread which allows him to return to Earth, he is a figure rich in complexity and most certainly a man consistent in his thought, a man whose prose empties itself, spilling onto paper as would a river. His every book is a sum of multiple elements requiring pauses for reflection, re-reading and their totality go on to mould an articulated picture where the universal themes of life, love and death move along tracks at times separate, at times intersecting – the technique is knowing and the style that of a master.
Enjoy the read and the trip.
Pamela Michelis

CRisi di rigetto

Ciò che accompagna alla fine non è tanto la vecchiezza quanto una sorta di crisi di rigetto, sociale ancor prima che naturale, spirituale piuttosto che materiale, che produce senso di esclusione dalla vita perciò causa dell’inaridimento dei tessuti, originato più dalla crescente percezione di eccezionalità a essere partecipi di questo mondo che dal fisiologico deperimento.

© Copyright Mauro Giovanelli – “Dalla risacca…” – raccolta di appunti, riflessioni, note – Pubblicazioni Illeggìoanoveposizioni, febbraio 2022