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ORAZIONE NOTTURNA

ORAZIONE NOTTURNA

Notte! Sii confortevole rifugio,
mucosa ospitale, utero, placenta…
Mai matrigna. Ti prego.
Fammi sentire paguro
cui è gradito il guscio usurpato,
lì troverò forza, calore, amore, pace, protezione.
Considerami uovo di cuculo
deposto in nido parassitato
di una specie simile al mio meditare
che mai una sola volta ha esitato
nel concedere cibo, carezze, comprensione.
Notte! Non punirmi per averti usata,
abusato della tua oscurità
in straordinari, illimitati amori.
In crudeli sedute ai tavoli
di fetide e affascinanti bische
dove conoscenza ho cercato.
Per questo dei prestigiosi privè
fra lussuosi banconi
mi sono spesso inoltrato,
esplorare presente, futuro e passato
nei miei simili non ritengo sia disdicevole
e lì bastava una sola carta,
una fottuta, maledetta carta,
figure e dieci inservibili una volta chiamata,
il miserabile asso, il due, tre… Agognati!
Dipende fin quanto ho osato.
Notte! Non essere adirata
per aver consumato le tue ore
in conversazioni amicali
dove si inseguivano sogni
adesso grezza realtà.
Allora di ciò avevo bisogno,
estrema necessità.
Notte! Non volermene
se sempre ho considerato tempo perduto
la pacata sosta che ti spettava di diritto,
sii comprensiva, usa la tua magia,
in fondo ci siamo confidati
facendoci grande compagnia,
fianco a fianco, abbiamo vissuto,
e quando furtivamente,
con flebile preavviso scivolavi via,
lasciandomi solo a fumare l’ultima sigaretta,
fare pipì nell’angolo buio, nascosto
mentre allento il nodo della cravatta
diventato molesto,
accarezzare il gatto randagio,
cui riferivo impressioni sull’esistere,
confrontarmi con il barbone,
l’accattone, l’ubriaco perso,
irradiati dai primi gelidi raggi,
mai ti ho rimproverato,
giungeva l’alba a enunciare l’abbandono,
tempo scaduto, e di ricordi è stracolmo
l’ambito piatto al centro del panno verde.
Notte! Se può esserti di conforto
devo dirti che quando vieni a trovarmi
avverto senso di vuoto, finito,
quasi che nulla io abbia compreso,
stravolgi le mie certezze,
cancelli ogni memoria,
quanto meno ne deformi l’immagine.
Notte! Ho registrato ogni filo smarrito,
tracce indelebili che nel tuo esatto viaggiare
hai dimenticato nei miei dirupi cerebrali.
Ho continuato ad inseguirli, che credi!
Freneticamente, senza sosta, con tenacia,
ossessione, passione, allora…
Ho trovato il punto da cui dipartono e,
per contrapposizione, dove si congiungono,
dove c’è lei, aperta come ospitale nicchia,
madre, amante, sorella, femmina senza confini,
donna ideale da millenni inseguita.
Adesso non devo temere soste del pensare,
è sufficiente entrare in te, amore,
estirpare il dolore che porti dentro,
solo così il mio piacere sarà completo,
mi manchi come il mare, madre
e non padre che è il Cielo cobalto.
Noi siamo figli loro:
Terra.
Ciò è poesia? Follia?
Notte! Ha rilevanza?

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagini in evidenza: Tavole VIII e IX della straordinaria opera unica di FULVIO LEONCINI dal titolo “DI SOLE OMBRE” – Inimmaginabile tomo dimensioni cm. 35 x 27, manoscritto, dipinto, concepito, creato, generato da Lui stesso.

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SOGNO A MENO UN DODICESIMO DALLA PRIMAVERA

SOGNO A MENO UN DODICESIMO DALLA PRIMAVERA

“Stiamo costruendo il futuro,
ma nessuno di noi si preoccupa
di sapere di quale futuro si tratterà.”
H. G. WELLS

…è indispensabile, vitale, urgente, irrinunciabile parlare con l’amministratore delegato, nessuna inefficienza rilevata nella struttura che dirigo, i miei collaboratori capaci e solerti nel concludere disordinatamente ogni pratica, come loro ho insegnato, trasmesso, portano soluzioni anziché problemi eppure incombe un fatto grave che mi viene attribuito, sembrerebbe calcolo matematico sbagliato, impossibile possa essermi accaduto… mi muovo con rabbia e destrezza fra scrivanie affollate, signorine, segretarie e manager, appollaiati, indaffarati, tanti fogli, cartelline chiuse con elastico, appunti, pile di carta, macchine da scrivere (o computer?), mezzi di comunicazione comunque neri, non ho presenti i volti anche se almeno uno ha i capelli impomatati di brillantina, neri, lucidi, come quelli degli ometti dei calciobalilla anni ‘50/‘60. Arroganti, supponenti, espressioni impiegatizie, sollecitano il motivo per cui intendo riferire con tale pervicacia, penso “excusatio non petita accusatio manifesta”, la locuzione è assillante, ogni mia spiegazione inascoltata, non interessa poiché già hanno giudicato, deciso, irremovibili, avverto la loro “chiusura”, rifiuto della verità, ostilità, disistima, chiedo un minimo di riservatezza, non mi piace discutere in presenza di altri… nulla da fare ed alla loro indifferenza nell’ascoltarmi, occupati come sono di nulla, cresce il desiderio, l’impulso di ribaltare i tavoli, annientarli… queste immagini non hanno contorno, paiono deformi ninfee ostili che ondeggiano su uno sfondo nero come pece prodotto da rabbiosi tratti di lapis punta morbida, intanto alla luce fioca e tremula dell’androne di edificio d’epoca una porta si apre al piano terra dalla quale fa capolino il viso sorridente di mia figlia minore, come avessi premuto il campanello e fossi lì ad attendere che qualcuno aprisse, mi comunica che sta preparando il trasloco, deve lasciare l’abitazione immediatamente… con la coda dell’occhio intuisco nell’oscurità del vialetto, oltre la vetrata, un auto imponente, nera, ferma, minacciosamente in attesa, macchina importante, giocattolo dei potenti, non sportiva tipo Maserati, neppure comoda Bentley, piuttosto la sagoma mi riporta alla vecchia Aurelia anni ’60, nuova fiammante, emana sortilegio, cattiveria, male assoluto, è “umana” nella sua immobilità, un lampo grigio rischiara «La “cosa” dell’altro mondo» dell’americano Ambrose Bierce (1), soprannominato dai suoi contemporanei “il lessicografo del diavolo”, racconto che lessi da bambino… seduta al volante dell’auto, non vista ma percepita, cappotto grigio scuro di ottima fattura, perfetto, giromanica preciso alle spalle, figura di uomo anch’egli immobile, fisso come statua, guarda avanti con la certezza che otterrà ciò che vuole ed io mi sento impotente… eccomi nel profondo nero quando compare, venere dormente sospesa nell’aria come in alcuni disegni dell’amico Fulvio, la donna amata da sempre, sono sconcertato aver potuto dimenticarla in questo tempo… è lei… dal nero fitto emerge il corpo fino al collo, intuisco avere i capelli biondi, unica nota di colore seppure immaginata, anche se abbracciandole i fianchi, quasi a sorreggerla, le mutandine rosa di seta, semitrasparenti, soavi, delicatezza infinita come desiderio e rimpianto che provo, mi dicono essere nera, chioma scura, riflessi blu che si propagano dal corvino, appoggio la testa sul suo ventre, avverto profumo di pitosforo misto a odore di femmina da tempo immemore posseduta, l’ombelico è da sogno, la stringo forte, forte, mi ci aggrappo, lei lascia fare, nulla dice ma parlano le pulsazioni che avverto, gambe soffici, carne morbida e pelle liscia come quella di neonato, le due curve tenere alla sommità delle cosce mi invitano a rientrare…
Questo ho sognato la notte fra il 12 e 13 aprile 2017, forse trascorsa nel dormiveglia continuo, sonno e veglia, nelle pause credo che dormissi, forse no, fluttuavo su un mare onirico, immenso, non vi era alcuna rete a mezza profondità che potesse filtrare quanto emergeva dall’abisso…

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza: (1) Pag. 127 – “destinazione UNIVERSO” a cura di Piero Pieroni – Illustrazioni di Leo Mattioli – Collana “I GABBIANI” – VALLECCHI EDITORE – Printed in Italy Firenze 1957 Vallecchi Editore Officine Grafiche – pagg. 592

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BOUTIQUE

BOUTIQUE

– Ti piace più questa o la blu?
– La blu!
– Però questa non è male…
– Allora regalagli questa!
– È anche vero che il blu si intona con il grigio perla del maglione.
– Infatti preferisco la camicia blu.
– Non saprei, sono indecisa.
– A me questa non piace.
– Perché?
– Preferisco la blu.
– Andrà bene la media o la large?
– La large!
– Non è mica grasso!
– Neppure magro.

– Signora! Mi scusi… non gli andasse bene si può cambiare?
– Basta che venga con lo scontrino.

– Dunque quale prendo?
– La blu large.
– E il maglione?
– Quello grigio perla.
– Ci sarebbe anche rosso bordeaux…
– Non mi piace.
– Perché?
– Preferisco il grigio perla… e la camicia blu large.

– Signora! Potrebbe farmi un pacchetto regalo?
– Certamente! Camicia e maglione?
– Sì! direi che vanno bene. Lei che ne pensa?
– Ottima scelta! Non dicevo alcunché ma pure io preferisco questo
abbinamento!

– Qui c’è la carta di credito. Aspetto fuori.
– Perché?
– Ho voglia di fumare.
– Che vizio! Lei fuma signora?
– Per carità di Dio!

Aria! Cielo minaccioso, nuvole grevi, umidità, ottimo per le cartine, si incollano meglio e il tabacco rolla che è un piacere. Ma… voi siete mai stati venti giorni nel Sahara? Lì si riesce a pensare con più forza che la gente muore, bambini di ogni età, donne, anziani, ogni giorno, ora, minuto, secondo, frazione di secondo… lasciamo perdere le equazioni trascendenti, la filosofia. Per carità di Dio!

Mauro Giovanelli – Genova
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IL MERITO VA AL PENULTIMO

IL MERITO VA AL PENULTIMO

A circa quarant’anni dalla mia collocazione nei “quadri della riserva” si fece vivo il primo classificato del corso allievi ufficiali di complemento, precisamente 48° AUC artiglieria semovente in Bracciano (Roma), al fine di organizzare una “rimpatriata” di tutti i colleghi. In breve il programma prevedeva “adunata” a Bergamo (alta), partecipazione ad una messa speciale nella basilica, “alzabandiera” e pranzo luculliano. La sua mail così concludeva:
“…Penserei di elencare i nomi raggruppandoli per specialità, fatemi sapere se siete d’accordo. In caso di parità di voti il mio vale doppio.” Firma (omissis)
Ovviamente mi risultò manifesto che la chiusa “In caso di parità di voti il mio vale doppio” altro non fosse che una battuta (l’unica della sua vita) ma la mia incontenibile predisposizione a provocare i “primi della classe”, anche per mettere alla prova il loro acume, mi indusse a replicare come segue:

“Sono d’accordo di presentare il nostro elenco nominativo per specialità anche se preferirei una suddivisione in base al risultato finale conseguito al corso (graduatoria). Infatti solo così potrebbe essere messo in risalto il record da me ottenuto, da guinness dei primati. Infatti, come ricorderete, mi sono classificato penultimo (e non faccio il nome dell’ultimo sia per correttezza nei riguardi di quel caro collega sia il disgusto, senso di vergogna che provo per lui). Sui respinti stendo un pietoso velo. Tornando al punto è evidente quanto sia difficilissimo conseguire la posizione da me ambita, anzi impossibile ai più. E lo dimostro:
Arrivare primi è il risultato più facile in assoluto. Occorre essere normalmente intelligenti, sotto la media ancora meglio, studiare con criterio, applicarsi negli addestramenti come automi, avere la classica raccomandazione, sempre utile sebbene l’affannarsi per sei mesi a riverire a destra e manca sia gli istruttori che graduati e colleghi potrebbe renderla superflua. Classificarsi ultimi è di una facilità sconcertante. Si tratta di essere tanto arguti da studiare quel poco bastante a non farsi cacciare durante l’interrogazione, applicarsi per nulla agli addestramenti stando attento a non essere individuato spesso e anche se la “protezione” dello “zio” non serve meglio averla (non si sa mai). Ma arrivare PENULTIMO! Vi rendete conto? Sfido chiunque intenda cimentarsi in qualsiasi tipo di gara fra cento antagonisti proponendosi di arrivare PENULTIMO. Non primo o ultimo ma PENULTIMO. Impossibile! Ebbene io ci sono riuscito. Lo so che si sta facendo di tutto per cercare di non mettere in evidenza il mio merito. Comunque anche se proprio per questo il mio voto dovrebbe valere quattro volte in caso di disparità per due voti… vada per il raggruppamento in base alla specialità.”
A presto. Mauro

Vi risparmio controreplica e la mia successiva a fronte della quale ricevetti dall’allievo scelto (omissis) le debite scuse ed encomio solenne. Eh… sì! Non aveva afferrato l’ironia celata nella tesi che avanzai. È rimasto tale e quale era al corso, alcuni chili in più, molti capelli di meno e un enorme senso di vuoto… nessuno volle partecipare all’alzabandiera.

Mauro Giovanelli – Genova
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PICCON DAGGHE CIANIN (dal dialetto genovese: “PICCONE PICCHIA PIÙ PIANO”)

PICCON DAGGHE CIANIN
(dal dialetto genovese: “PICCONE PICCHIA PIÙ PIANO”)

C’ERANO LE CASE DEI MIEI NONNI, ULTIMO PIANO CON ABBAINI CHE, COME PERISCOPI, TRAGUARDAVANO I TETTI DI GENOVA PER FARTI RAGGIUNGERE IL MARE.
QUANDO MAMMA E PAPÀ ANDAVANO A TEATRO O AL CINEMA ERA LÌ CHE CON GIOIA IMMENSA MIA SORELLA ED IO TRASCORREVAMO LA NOTTE E PARTE DEL GIORNO SUCCESSIVO.
ANCHE GENOVA E L’ITALIA INTERA PARTORISCONO IGNOBILI TERRORISTI CHE HANNO DISTRUTTO E TUTT’ORA ANNIENTANO PREZIOSI, IRRIPETIBILI MONUMENTI, INTERI QUARTIERI STORICI, RINNEGANDO STORIA, CULTURA E MEMORIA PER FAR POSTO ALLA LORO IMMENSA IGNORANZA.
I NOMI DEI “GOVERNANTI” DE “LA SUPERBA”, INCISI NEL MARMO, POTRETE LEGGERLI SULLA “COLONNA INFAME” ERETTA DAI GENOVESI NELLA ZONA DI “SARZANO”.

Mauro Giovanelli – Genova
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PICCON DAGGHE CIANIN (in genovese e italiano)

Fra i moin de Piccaprïa che fan stramûo
ghe n’ëa de casa donde son nasciûo
ghe son passòu pe caxo stamattin
ma forse o chêu o guidava o mae cammin
chi l’é de Zena ou sa perché ‘n magon
o m’ha impedïo de dî quest’orassion

Piccon dagghe cianin
mi son nasciûo chi sotta ‘sto camin
son muage che m’han visto co-o röbin
arreguelâme in gïo co-o careghin

Piccon dagghe cianin
sovia ‘sta ciappa rotta a tocchettin
i compiti gh’ho faeto de latin
e gh’ho mangiòu trenette e menestroin

Ma zà ti stae cacciando zû o barcon
ti veddi ghe a Madonna da Paiscion
l’ha faeta o mae baccan trent’anni fa
pe grassia riçevua in mezo a-o mâ

Piccon dagghe cianin
son tutti corpi daeti in scio mae chêu
se propio fâne a meno ti no pêu
piccon dagghe cianin

Creddeime poche votte ho ciento gente
no m’emoscionn-o troppo façilmente
ma quande ho visto cazze a picconae
a stansa dove gh’é nasciuo mae moae
me se affermòu quarcosa propio chi
ho ciento e ho pregòu cosci

Piccon dagghe cianin
son tutti corpi daeti in scio mae chêu
se propio fâne a meno ti no pêu
piccon dagghe cianin

Fermite un pö piccon t’arrobo un mon
un tocco de poexia do cian de Picca….pria
PICCONE PICCHIA PIÙ PIANO

Fra i mattoni di Piccapietra che fan trasloco
ce ne sono della casa dove sono nato,
ci sono passato per caso stamattina
ma forse il cuore guidava il mio cammino.
Chi è di Genova lo sa perché un nodo in gola
mi ha impedito di recitare questa “preghiera”

Piccone batti più piano
Io sono nato qui sotto questo camino
sono muri che mi hanno visto piccolino
andare in giro tirandomi dietro il seggiolino

Piccone batti più piano
Su questo pezzo di pietra rotta a pezzettini
ho fatto i compiti di latino
ed ho mangiato trenette e minestroni

Ma stai già abbattendo il balcone
Guarda: C’è la Madonna della Passione!
L’ha costruita il mio “capo” trent’anni fa
per una grazia ricevuta in mezzo al mare

Piccone batti più piano
sono tutti colpi dati sul mio cuore
se proprio non puoi farne a meno
almeno batti più piano

Credetemi, poche volte, gente, ho pianto,
non mi emoziono tanto facilmente
ma quando ho visto cadere a picconate
la stanza dove era nata mia madre,
mi si è fermato qualcosa proprio qui
ho pianto ed ho pregato così

Piccone, batti più dolcemente,
son tutti colpi dati sul mio cuore,
se proprio non ne puoi fare a meno,
piccone, batti più piano, pianino

Fermati un po’, piccone, ti rubo un mattone,
un pezzo di poesia del piano di Picca…pietra


“Ma se ghe penso…”, “Piccon dagghe cianìn”, “A Seissento”, “A cansun da Cheullia”, “Ave Maria zeneize”, “La partenza da Parigi”, canzone principe del repertorio delle squadre di canto (trallalero), e “Lanterna de Zena”, uno dei più antichi canti tradizionali genovesi, dedicata alla storia di una fioraia del Settecento, annoverano tra i numerosi autori il paroliere Costanzo Carbone e il compositore Attilio Margutti iniziatori della canzone genovese negli anni Venti, e nel dopoguerra Luigi Anselmi paroliere sia di molte canzoni che di molti testi comici per Giuseppe Marzari nonché il maestro Agostino Dodero autore per cantanti e per squadre di canto, spesso con il paroliere Piero Bozzo. Il primo grande interprete degli anni Venti e Trenta è il tenore Mario Cappello. Sono suoi epigoni melodici Emilio Fossati, Carlo Cinelli, Gino Villa, Mario Bertorello, il sestrese Baldìn. Seguono gli interpreti del folk-revival Piero Parodi e Franca Lai, i cantanti di ispirazione goliardica in primis Giuseppe Marzari e il Trio Universal, e poi Franco Paladini, Bunni, i Trilli, sino ai più recenti Bob Quadrelli (vincitore di una Targa Tenco), Binduli, Buio Pesto. La produzione di testi in genovese è abbastanza ampia, ma anche cantanti come Natalino Otto, Bruno Lauzi, Joe Sentieri, Gino Paoli e Fabrizio De André, quest’ultimo l’unico che sia riuscito ad imporre alle classifiche nazionali un intero album in genovese, “Crêuza de mä), conquistando un disco d’oro.

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Immagine in evidenza: Genova, quartiere Portoria, “La porta d’oro” – Piccapietra

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FIAT 500 anni ‘60

FIAT 500 anni ‘60

Ogni altro oggetto del desiderio non sarà per noi mai “mitico” come la “Fiat 500” per il semplice fatto che le avventure vissute con quella che oggi sembra una scatoletta avevano sapore, autenticità, disinteresse, gioventù, schiettezza. Mi fu regalata appena compiuti i 18 anni, “foglio rosa” in attesa dei sei mesi canonici per avere la patente. Blu notte. Il giorno dopo la portai dall’amico carrozziere per farle modificare i sedili “anteriori”, renderli ribaltabili ma, nonostante ciò, occorreva anche abbassare i vetri ed aprire il tettuccio per trovare la giusta “posizione”. Insomma era una vettura in cui gli “spazi esterni” avevano senso. Che avventure dal sapore antico… Ammetto di aver avuto la strada spianata per arrivare al sogno (credo anche il buon senso di capirlo) quindi dalla “mini Cooper” passai al punto di arrivo: la “Triumph Tr3”, obbligatoriamente nera, per la quale nulla aveva priorità. Quello fu un “picco” mai superato e ancora oggi ne ammiro le forme e le curve come fossero quelle di una donna dal fascino inimitabile. Però ero più “scafato”, gli anni avevano assorbito la seduzione della “maggiore età”, la mente già indirizzata verso obiettivi sensibili, concreti, oserei dire profondi ed ogni amore si consumava nel “pied-à-terre”. Non voglio annoiare oltre se non per aggiungere che da lì in poi ogni auto l’ho sempre acquistata senza badare alla meccanica, prestazioni, comodità bensì per l’estetica, allo stesso modo di come si sceglie una cravatta. E la “Fiat 500” rimane la “Marinella” anni ’60, inimitabile anche per la stessa prestigiosa sartoria. Grazie ad un caro amico per avermi dato l’opportunità, leggendo un suo bellissimo articolo inerente la sua esperienza, di divagare sul bel tempo andato. Un caro saluto a tutti.

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza ricavate dal web: Fiat 500 e Triumph Tr3 anni ‘60

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ALTRI TIPI DI VIOLENZA ALLE DONNE (e ai grilli)

ALTRI TIPI DI VIOLENZA ALLE DONNE
(e ai grilli)

Avevo un vicino di casa, certo Musso, del tutto identico al ministro Poletti. La mattina di ogni sabato e domenica si alzava alle 4 e 30, puntuale come un cronografo svizzero co-assiale, per andare a pescare sulla diga foranea del porto. Calzoni alla “zuava”, calzettoni di lana con decori a rombo, scarponcini, berretto tipo “coppola” con paraorecchie risvoltati in su dove collezionava ami a go go, “panciotto” in pelle straricco di tasche di ogni dimensione su camicia di flanella a quadri, canna in resta, cesta in vimini a tracolla per le “prede”. Alle cinque usciva fischiettando (da qui la precisa cognizione degli orari) e lo si vedeva rientrare pari pari metà pomeriggio. La sera, dopo cena, bardato allo stesso modo ma con un ferro terminante a gancio al posto della canna ed altri strani aggeggi idonei a produrre fumo si inerpicava sulle colline che circondano Genova per catturare “grilli” ma non quelli del tipo che normalmente osservo in montagna, smilzi e verde chiaro, no, i suoi erano larghi e piatti, scuri, quasi neri, discrete dimensioni, i “canterini” disse una volta e credo fu l’unica che lo sentii parlare. Una delle finestre del suo appartamento era stracolma, appese ovunque, di gabbiette eseguite da lui stesso a regola d’arte dove pasceva gli ortotteri catturati. Al piano di sopra abitava un certo Maressi insofferente al canto di questi simpatici insetti mentre il sig. Scovazzi del piano di sotto aveva già il suo bel da fare con la moglie ninfomane. Un bel giorno il Maressi decise di far fuori quelle bestiole con DDT e apposito stantuffo in uso all’epoca… Lo osservavo divertito sporgersi fin quasi a rischiare di precipitare dal sesto piano ma ogni intento falliva miseramente poiché il para-diclorodifeniltricloroetano tende a salire (più leggero dell’aria) e per quanto le sue pompate fossero cattive, violente e decise, l’unico a rischiare di rimanere intossicato era proprio il killer. La storia finì nell’accordo storico che il Maressi raggiunse con lo Scovazzi il quale gli permise di trincerarsi in casa sua (tanto lui andava a controllare la moglie che si recava nella vicina caserma) fino a completo sterminio delle prede del buon Musso.
Ritornò la normalità. I grilli non furono più sostituiti. Terminarono le urla della moglie di Scovazzi (voleva uscire ad ogni costo tutte le sere) poiché fu ospitata in clinica specializzata. Da parte del Musso neppure c’era la necessità di togliere il saluto ai “sospetti” abituato come era alla compagnia di sé stesso e dei suoi figli, miei amici di infanzia, di cui nulla più seppi dopo che tutti i maschi si trasferirono in altra città causa l’urgente ricovero in manicomio della povera moglie e mamma.
Tutto qui.

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Immagine in evidenza: FULVIO LEONCINI ARTISTA TOSCANO – “Elettroshock” – Tecnica mista su legno – Dimensioni cm. 70 x 170

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FISCHIA IL VENTO… (Eroi dimenticati?)

FISCHIA IL VENTO… (Eroi dimenticati?)

Mi trovo fra le montagne del cuneese in un paese di villeggiatura che ormai si popola solo a cavallo del ferragosto e nel corso delle feste natalizie. Avverto fortemente la mancanza del mare sebbene l’affetto degli indigeni nei miei riguardi sia tale che, quando sono seduto sotto il pergolato del centrale bar latteria (la mia location), le loro paccate sulle spalle, gli abbracci e le domande che pongono sulla “vita di città” nonché il genuino interesse che dimostrano, supportato dalla saggezza contadina che li contraddistingue, suppliscono alle varie nostalgie (sostanzialmente due).
Così tra un discorso e l’altro venne fuori il nome di un certo Felice Cascione. Già! Un caso perché proprio su “La Stampa” di oggi 7 agosto 2016, a disposizione dei clienti, mi cadde l’occhio su un articolo commemorativo riguardo questo eroe cui dobbiamo molto per la libertà che ancora stiamo godendo. Nacque a Porto Maurizio (ora Imperia) il 2 maggio 1918 da famiglia di antifascisti. Terminato il liceo decise di iscriversi all’Università degli Studi di Genova e successivamente, sospettato di frequentazioni con organizzazioni comuniste, all’Università degli Studi di Bologna e, mentre conseguiva la laurea in Medicina (10 luglio 1942) ivi rimase facendo esperienza nella medesima clinica ostetrico-ginecologica. Lo stesso anno si iscrisse al Partito Comunista d’Italia. Divenne pure campione di pallanuoto essendo amante dello sport e dotato di un fisico esuberante (l’amico Alessandro Natta lo descrisse “bello e vigoroso come un greco antico”). In poche parole futuro assicurato ma… non faceva parte di quella vasta tribù di individui che guardano solo alla propria “nicchia” (oggi numerosissimi come acari in un vecchio materasso). Infatti dopo l’8 settembre del 1943 fece la scelta decisiva aggregandosi ai partigiani al comando di una Brigata operativa nell’imperiese e le colline dell’entroterra ligure. Nome di battaglia, “U Megu”, dal dialetto genovese “Il medico”. La sua dedizione alla causa fu totale e assoluta.
Il 27 gennaio 1944, mentre stava ripiegando con i suoi uomini nei pressi di Alto (Cuneo), si accorse che un compagno era stato catturato dai nazifascisti e sottoposto a tortura affinché rivelasse il nome del comandante. Tornò indietro e senza indugio alcuno, fiero, gridò al gruppo di aguzzini: “Sono io il capo” e cadde al suolo crivellato di colpi. Aveva 26 anni.
Rimasi commosso ma ciò che ancor più mi colpì è quanto venni a sapere. Alla sua brigata era aggregato un reduce dalla Russia, tale “Ivan”, che gli insegnò la melodia popolare “Katyusha”. Felice prese un foglietto del suo ricettario medico e cominciò a comporre i versi di “Fischia il vento…” inno delle Brigate Garibaldi che nel Natale del ’43 venne cantata per la prima volta a Curenna di Vendone (Albenga) sebbene l’esecuzione ufficiale si tenne ad Alto il giorno dell’Epifania 1944.
Pensare che in uno dei capolavori di Beppe Fenoglio, “Il partigiano Johnny”, letto e riletto, sono passato tante volte al punto in cui «…da intorno e sotto aumentarono le insistenze e quello allora intonò: “Fischia il vento e infuria la bufera, scarpe rotte e pur…”»
Grazie di tutto Felice Cascione, nulla ti voglio raccontare su ciò che sta accadendo oggi, però:

«Fischia il vento e infuria la bufera,
scarpe rotte e pur bisogna andar
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell’avvenir.
A conquistare…

Ogni contrada è patria del ribelle,
ogni donna a lui dona un sospir,
nella notte lo guidano le stelle,
forte il cuor e il braccio nel colpir.
Nella notte…

Se ci coglie la crudele morte,
dura vendetta verrà dal partigian;
ormai sicura è già la dura sorte
del fascista vile e traditor.
Ormai sicura…

Cessa il vento, calma è la bufera,
torna a casa il fiero partigian,
sventolando la rossa sua bandiera;
vittoriosi, al fin liberi siam!
Sventolando…» (1)
R.I.P.

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.it

(1)Testo: Felice Cascione
Musica: sul tema russo “Katiuscia”

Immagine in evidenza ricavata dal web: Felice Cascione a Bologna

L’articolo “FISCHIA IL VENTO…” è stato pubblicato il 9 agosto 2016 sul sito www.memoriacondivisa.it

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ENRICO BAFICO (Mauro Giovanelli e l’amicizia vissuta dall’infanzia)

ENRICO BAFICO
(Mauro Giovanelli e l’amicizia vissuta dall’infanzia)

L’amico ed artista Enrico Bafico ed io siamo amici da quando abbiamo visto la luce. Lo sfondo è parte della zona di Carignano, a Genova, dove siamo cresciuti. Io abitavo nel palazzo a sinistra, lui in quello di fronte a destra. Avevamo installato una piccola teleferica per scambiarci i giocattoli. L’auto che esce, immobile, dal garage officina è una FIAT Topolino, simbolo di quegli anni. La stradina che si inoltra tra il garage ed i palazzi termina in una piazzetta senza sbocco quindi ad una certa età potevamo giocare liberi, all’aperto, sotto gli occhi vigili dei genitori. L’uomo lungo, magro e smilzo al termine del cortile in basso sulla destra era uno dei due portinai vittima di scherzi quotidiani. Il biliardo, allora molto in voga insieme al flipper, rappresenta la fase successiva, adolescenza, ed il caco in primo piano al posto della boccetta simboleggia il frutto dell’innocenza, ne rubavamo molti al pover’uomo che curava l’albero. Poi la tempesta di testosterone ci investì e mutarono abitudini, tendenze e obiettivi anche se ci eravamo già allenati al gioco del medico e l’infermiera con amichette curiose come noi. Il nano in basso alla mia destra ha una lampada con la quale illumina il tempo e fa riemergere ogni ricordo. La cravatta azzurra me l’ha imposta l’artista, non c’è stato alcunché da fare, poiché mai portate di quel colore anche se il nodo è pressoché perfetto come solo io so fare. Sono già d’accordo con lui per cambiarne il disegno… non la sopporto. Il sottotitolo è la sua dedica. Grande amico cui voglio bene.

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza ricavata: Enrico Bafico – “Mauro Giovanelli e l’amicizia vissuta dall’infanzia” – Olio su tela cm.

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DA ORIENTE AD OCCIDENTE

DA ORIENTE AD OCCIDENTE

Ciao Noemi,
così preferisco iniziare questa mia, con un saluto breve, secco, confidenziale ma pregno di ogni ricordo, sensazione, direi delirio che porto dentro me, dono inaspettato che hai voluto consegnarmi, l’ultimo fiore raccolto in occidente. Il tempo scompone pure le parole ma non può intaccare ciò che è bello, esso resta immortale, volerà sempre alto, al di sopra di tutto e tutti. Sono rimasto stupefatto della tua lettera, e le foto che hanno fissato l’immagine tua. L’impegno che senza dubbio hai profuso nel cercare dove ho scelto di vivere dimostra che i due giorni trascorsi insieme, causa una forte, immediata quanto improbabile e reciproca attrazione percepita dai nostri sguardi, abbia lasciato profondi segni nel tuo animo. Poche parole quella magica mattina per farti accettare il mio invito a pranzo. Ti osservavo mentre con la disinvoltura di una fanciulla gustavi i piatti che prediligi, grigliata di scampi e gamberi che le tue mani delicate afferravano con dolcezza. Accompagnavano questo rito le tue parole, i racconti di te scivolavano nella tiepida aria di fine maggio andandosi ad incrociare con le luci ed ombre del protettivo pergolato, filtro del sole e delle nuvole passeggere che riflettevano la nostra ansia d’amore. In riva al mare, madre e non padre di ogni cosa, sembravi parte integrante del tutto, l’orizzonte pareva perfino raggiungibile, tu sirena tentatrice di ogni piacevolezza mi facevi sentire Odisseo, talmente incantato dai tuoi sorrisi, il corpo, la pelle liscia come buccia di pesca, le movenze, un’armonia da infondere la forza di liberarsi dai cordami per mezzo dei quali, legato all’albero maestro, avrebbe voluto sottrarsi ad ogni tentazione. Nel momento in cui ti presi per mano eri bagnata, appena uscita dalla spuma che tortura la battigia all’infinito, il contatto trasmetteva il linguaggio della carne e nel dirigerci in quell’ansa delimitata da intimi, calcarei scogli ti abbracciai e fu un tutt’uno avvinghiarci, stringerci al punto che l’energia sprigionata fermò il sole già basso sull’orizzonte. Stesi sotto un cielo rosso fuoco, osservarti incantato, accarezzarti lentamente, soffermarmi sul tuo viso, gli occhi languidi che esprimevano desiderio, il nostro respirare a denunciare impazienza, le tue cosce tornite, il ventre che custodisce il mistero, baciarti ovunque mentre le tue mani frementi si afferrano ai miei capelli, scendono lungo la schiena e lì le unghie lasciano segni del tuo volerti concedere, subito, senza pausa. Scoprire i tuoi seni, sfilarti le mutandine è stata… la luce azzurra dello scoppio finale, segno che i fuochi d’artificio sono terminati, l’avvolgente oscurità della notte assiste, nel silenzio interrotto solo dalla risacca e dalle parole dette, al trionfo del nostro amore. Il giorno dopo una nostalgia incommensurabile ci ha visti ancora insieme ma i colori erano diversi, i volti delle persone, i rumori della città ci parevano ostili e nel momento in cui ci siamo salutati qualcosa è sbocciato nei nostri cuori… per sempre.
Ti voglio bene, ogni volta che da questo ghat osservo il disco rosso dell’astro crescere dalla folta boscaglia della sponda est il mio pensare è tuo.
Con grande amore.
Mauro
Varanasi (वाराणसी – Benares) – India, 25 maggio 2016

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza ricavata dal web – Varanasi, volto di fanciulla

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