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ESTRATTO DA “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” di Mauro Giovanelli – SANTA MERETRICE

ESTRATTO DA “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” di Mauro Giovanelli
SANTA MERETRICE

[…]
La donna si passa un batuffolo di cotone lungo le spalle, sul petto, nella parte lasciata scoperta dalla camicetta leggera appena sostenuta dai seni perfetti, giovani. Una spallina è abbandonata lascivamente lungo il braccio a dichiarare l’appartenenza all’uomo. La carnagione creola è liscia e profumata, il viso di una Madonna delle Ande tanto la dolcezza ha aderito a quell’ovale perfetto. Gli occhi grandi, neri e profondi esprimono soddisfazione femminile per aver dato godimento all’uomo, essere piaciuta e desiderata, compagna e consolatrice. Osserva con languore l’amante che si sta rivestendo nella speranza di attirare ancora la sua attenzione e cogliere in lui l’appagamento dei sensi. Bella, bellissima, fronte proporzionata, liscia, naso meticcio, regolare, muliebre, le orecchie precise, i capelli nerissimi, lucidi, con riflessi della notte, anche per la leggera patina del sudore di un rapporto appena consumato. È seduta accanto a un robusto tavolo in noce e mentre con calma e serenità immerge il tampone nella piccola coppa per raccogliere altra essenza profumata, non stacca lo sguardo dal viso del compagno, e quello sguardo è ammiccante, generoso, dice che è pronta ancora ad offrirsi, non fosse bastato. Lui la osserva malinconico, studiandola come fosse l’ultima volta e volesse imprimere quell’immagine nella sua mente. Fatica ad infilarsi il secondo stivale poi, con uno strattone, ecco fatto. Si alza, abbottona distrattamente la camicia, pensieroso, pure i polsini, continua a guardare la femmina, un’opera d’arte definitiva, creatura perfetta. C’è calore in quell’istante, più profondo e intenso di qualunque altro vissuto, e rimpianto. Come un fulmine il ricordo della donna amata rischiara i suoi occhi. Dopo aver allacciato i pantaloni controlla il revolver traguardando il tamburo, i colpi ci sono tutti, con determinazione ripone l’arma nel fodero. Raccoglie l’automatica, fa scorrere il carrello per mettere la pallottola in canna, poi dedica molta cura nel riporla dietro la schiena, sotto la cintura. Nell’istante in cui si infila il gilè viene interrotto da un vagito, scosta il lenzuolo steso a fare da divisorio, un bimbo si agita nella culla, vuole la sua parte. Ora verifica ogni tasca, ritrova le sue cose, l’astuccio del tabacco, cartine, fiammiferi, e quello che sapeva doveva esserci, un sacchetto in pelle con monete d’oro. Ne raccoglie alcune, le conta facendole saltellare nella mano, ci ripensa, torna in sé e le depone tutte sul letto. I due si guardano e il loro discreto, impercettibile sorriso è la storia del mondo. Questa volta il rumore che ode improvviso non proviene dalla culla, egli va alla finestra, solleva cautamente la tendina, e lungo il corso in direzione contraria a quella da lui presa non più tardi di due giorni fa, una folla immensa procede lentamente intonando laudi e preghiere. A guidare questo corteo, al centro, un’accozzaglia di pezzenti, alcuni in abito bianco, altri vestiti di sacco, a piedi nudi, in processione di penitenza, propiziano il Signore, volto coperto, corona di spine in capo, piedi nudi, flagelli in mano. In questa lunga sfilata nobili e plebei, vecchi e giovani, a due a due, preceduti da gonfaloni e da cappellani con la croce, piangono mentre si fustigano a sangue le spalle, il torace. Cento, mille, avanzano lenti, cadenzati invitando tutti a pentirsi dei loro peccati. A un segnale il corteo si ferma, i frati aspergono incenso a simboleggiare l’essenza divina del Cristo. Uno degli incappucciati dirige la litania:
– O Dio, creatore e custode di ogni cosa, concedici di essere ministri della tua carità secondo lo spirito del Tuo Verbo.
– Per questo ti preghiamo – risponde in coro la folla.
– O Padre, concedici di giungere alla perfezione della carità evangelica.
– Per questo ti preghiamo.
– O Padre, santifica con il tuo Santo Spirito i nostri corpi infetti.
– Per questo ti preghiamo
– Signore Gesù, benedici le nostre carni martoriate.
– Per questo ti preghiamo.
I flagelli con cui si percuotono sono composti da una specie di bastone dal quale, sul davanti, pendono tre robuste corde con grossi nodi a loro volta attraversati da spine di ferro incrociate, molto appuntite, che li passano da parte a parte sporgendo dal nodo stesso per la lunghezza di un chicco di riso o anche più. Con questi strumenti i disgraziati si battono il busto nudo, così che si gonfia, assume una colorazione bluastra, si deforma, mentre il sangue scorre in ogni direzione imbrattando il selciato.
– Signore, donaci la forza di portare insieme ogni pena che incontriamo sul nostro cammino.
– Per questo ti preghiamo.
– Signore, accompagnaci nella missione della vita terrena per ritrovarci uniti per sempre nella gioia del tuo Regno.
– Per questo ti preghiamo.
– Signore, nostro Padre e nostro Dio, per la rinuncia alle tentazioni di questa vita terrena voglia tu accogliere le nostre speranze per il mondo che verrà.
– Per questo ti preghiamo – fa eco quella congrega di fanatici.
Alcuni si configgono spine di ferro in profondità nella carne, nelle cosce, al punto che per toglierle devono fare ripetuti tentativi, poi ricominciare. Le donne si tirano i capelli, a volte ne rimangono ciuffi nelle mani, stramazzano a terra e urlano, indemoniate, si strappano le vesti, tutto un contorno di isteria collettiva.
– E aiutaci a preparare l’avvento del regno dello spirito, donaci la salvezza eterna.
– AMEN! – Risponde all’unisono la moltitudine, ed è un segnale.
La processione riprende. L’uomo osserva questa macabra rappresentazione, la mortificazione della carne, spettacolo osceno. La sua convinzione si fa sempre più forte. Ormai la risposta l’ha avuta, ora si tratta di apporre il sigillo.
– È per placare l’ira divina – dice ingenuamente la donna che lo richiama alla realtà, tanto per dire.
Lui si volta di scatto, vede la purezza fatta persona che con un cenno del capo lo invita a restare, gli occhi languidi, profondi, incantevoli, lo reclamano. L’uomo getta un rapido sguardo al bambino, ritorna alla donna, abbassa la testa per vestire il cappellaccio nero, un vecchio Stetson a tesa larga e calotta schiacciata, apre la porta, la chiude dietro sé.
È l’oste che lo blocca sulla veranda.
– Mi sembri più rilassato, quasi un’altra persona, anche se non hai perso l’aspetto di uno che sembra aver fatto molto cammino, più ti quanto la tua età potrebbe far supporre. Mi sbaglio?
– Così sembrerebbe. No, non sbagli.
– Ne valeva la pena?
– E chi lo sa! Per la carne, forse. Solo per quello.
– Carne? Che stai dicendo?
[…]

Mauro Giovanelli – Genova
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© Copyright 2015 Mauro Giovanelli

Immagine in evidenza: disegni dell’artista toscano Fulvio Leoncini – dimensioni cm 21×30 ciascuno – cod. 789-2015 la figura femminile – cod. 783-2015 la figura maschile

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ALTRI TIPI DI VIOLENZA ALLE DONNE (e ai grilli)

ALTRI TIPI DI VIOLENZA ALLE DONNE
(e ai grilli)

Avevo un vicino di casa, certo Musso, del tutto identico al ministro Poletti. La mattina di ogni sabato e domenica si alzava alle 4 e 30, puntuale come un cronografo svizzero co-assiale, per andare a pescare sulla diga foranea del porto. Calzoni alla “zuava”, calzettoni di lana con decori a rombo, scarponcini, berretto tipo “coppola” con paraorecchie risvoltati in su dove collezionava ami a go go, “panciotto” in pelle straricco di tasche di ogni dimensione su camicia di flanella a quadri, canna in resta, cesta in vimini a tracolla per le “prede”. Alle cinque usciva fischiettando (da qui la precisa cognizione degli orari) e lo si vedeva rientrare pari pari metà pomeriggio. La sera, dopo cena, bardato allo stesso modo ma con un ferro terminante a gancio al posto della canna ed altri strani aggeggi idonei a produrre fumo si inerpicava sulle colline che circondano Genova per catturare “grilli” ma non quelli del tipo che normalmente osservo in montagna, smilzi e verde chiaro, no, i suoi erano larghi e piatti, scuri, quasi neri, discrete dimensioni, i “canterini” disse una volta e credo fu l’unica che lo sentii parlare. Una delle finestre del suo appartamento era stracolma, appese ovunque, di gabbiette eseguite da lui stesso a regola d’arte dove pasceva gli ortotteri catturati. Al piano di sopra abitava un certo Maressi insofferente al canto di questi simpatici insetti mentre il sig. Scovazzi del piano di sotto aveva già il suo bel da fare con la moglie ninfomane. Un bel giorno il Maressi decise di far fuori quelle bestiole con DDT e apposito stantuffo in uso all’epoca… Lo osservavo divertito sporgersi fin quasi a rischiare di precipitare dal sesto piano ma ogni intento falliva miseramente poiché il para-diclorodifeniltricloroetano tende a salire (più leggero dell’aria) e per quanto le sue pompate fossero cattive, violente e decise, l’unico a rischiare di rimanere intossicato era proprio il killer. La storia finì nell’accordo storico che il Maressi raggiunse con lo Scovazzi il quale gli permise di trincerarsi in casa sua (tanto lui andava a controllare la moglie che si recava nella vicina caserma) fino a completo sterminio delle prede del buon Musso.
Ritornò la normalità. I grilli non furono più sostituiti. Terminarono le urla della moglie di Scovazzi (voleva uscire ad ogni costo tutte le sere) poiché fu ospitata in clinica specializzata. Da parte del Musso neppure c’era la necessità di togliere il saluto ai “sospetti” abituato come era alla compagnia di sé stesso e dei suoi figli, miei amici di infanzia, di cui nulla più seppi dopo che tutti i maschi si trasferirono in altra città causa l’urgente ricovero in manicomio della povera moglie e mamma.
Tutto qui.

Mauro Giovanelli – Genova
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© Copyright 2016 Mauro Giovanelli

Immagine in evidenza: FULVIO LEONCINI ARTISTA TOSCANO – “Elettroshock” – Tecnica mista su legno – Dimensioni cm. 70 x 170

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TESTIMONE OCULARE

TESTIMONE OCULARE

Ha visto le grandi battaglie per la conquista di imperi sempre più vasti, Giovanni il profeta, il battesimo di Gesù, le sue parole, ha conosciuto il procuratore della Giudea Ponzio Pilato, Giuda di Kiriat, il sacerdote del Tempio Kajafa detto kaifa. Poi il regno di Diocleziano e l’imperatore Costantino, il concilio di Arles e quello di Nicea dove il cristianesimo divenne religione di stato. Ha assistito alle scissioni, luterani e ortodossi, ha udito le urla strazianti delle vittime dell’inquisizione. Ha conosciuto Giordano Bruno ma ancor prima ha visto Cristoforo Colombo partire per la scoperta del Nuovo Mondo. Ha assistito alle crociate in terra santa, lo sterminio dei nativi americani, l’olocausto degli ebrei, zingari, sinti, rom, comunisti, le bombe su Hiroshima e Nagasaki, le due guerre mondiali. Ha conosciuto il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Mandela. Ha visto nascere te e me. Quell’ulivo non è una pianta, è una persona.

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza: Un ulivo di 2000 anni che si trova a Felline, Salento. CONDIVIDI per aiutarci a farli diventare patrimonio Unesco. Firmate la petizione qui: http://firmiamo.it/gli-ulivi-della-puglia-patrimonio-unesco

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PAOLA MICOLI (Fatina del bosco – in attesa della sua biografia)

PAOLA MICOLI
(Fatina del bosco – in attesa della sua biografia)

Tutte le persone, anche le peggiori fra noi, hanno momenti in cui desiderano ritornare bambini. Credo sia non solo la necessità di allontanarsi dalla lotta per la sopravvivenza che, più o meno velatamente, la società impone all’individuo in conformità alla sua appartenenza al regno animale ed alla legge universale che reclama inarrestabile competizione, ma pure un rigurgito di quella che definiamo “anima” la quale esige una pausa, desidera attimi in cui ritornare all’innocenza adolescenziale, riappropriarsi della propria verginità. Quando poi capita, come è successo a me, di incontrare l’eccezione a questo assunto allora la mente si immerge in una dimensione incantata di cui non conosceva l’esistenza e ci si accorge che un altro mondo è possibile, necessario e imprescindibile.
Si chiama Paola Micoli, soprannominata Fatina, genitori di origine pugliese, contadini e piccoli imprenditori, nata in Svizzera dove la famiglia si trasferì. Cresciuta in una fattoria immersa nel verde, facente parte di un villaggio di agricoltori in cui tutti si conoscono e convivono in completa armonia, già in tenera età cominciò a conoscere le piante, ogni loro caratteristica, distinguere l’alternarsi delle stagioni dalla trasformazione che le cose subiscono, si ammaliava ad osservare i riverberi del sole filtrati dal fitto fogliame, i primi fiori selvatici che in primavera fanno capolino attraverso il manto erboso, i frutti, le varie forme della natura. Il fratello maggiore frequentava gli amici e si dedicava agli studi, terminati i quali imboccò la strada di missionario laico come insegnante presso orfanotrofi dell’America Latina.
Suo padre, orgoglioso e affascinato da tale predilezione della figlia verso le meraviglie dell’ambiente circostante decise di costruirle una casetta di legno su una grande quercia che diventò il regno di Fatina e lì il tempo si fermò, non ne venne più registrato lo scandire se non quando rimase orfana del genitore. Il suo dolore fu grande, totale, e autentico conforto lo ricevette dagli esseri di un’altra comunità, lassù, in quel nido fra i rami. Come nelle fiabe furono molti gli animali che ogni giorno andavano a trovarla, castori, conigli selvatici, i solitari e notturni ghiri, donnole, ricci. Imparò ad ammirare i colori e le abitudini dei cervi volanti, le salamandre alpine, ed a distinguere ogni tipo di insetto che fra latifoglie e conifere piuttosto che nella bassa vegetazione procedevano instancabilmente a partecipare all’equilibrio di un ecosistema perfetto dove vige la legge dell’Universo.
In questo mondo Fatina imparò ad ascoltare i suoi nuovi compagni, scoprì e interpretò i versi di ciascuno distinguendone i segnali, intese i diversi idiomi anche riconoscibili dal loro comportamento, in tal modo le parlavano e lei assimilò ogni manifestazione, modo di esprimersi per cui arrivò a dialogare anche senza emettere suoni ma con la sola trasmissione del pensiero, la gestualità, l’affinità che si era venuta a creare.
Intanto gli anni passavano e Fatina divenne una bellissima fanciulla, la sua figura magica come l’ambiente in cui crebbe e tuttora vive la plasmò nella stupefacente donna di oggi, lineamenti perfetti racchiusi in un corpo dalle sorprendenti fattezze che trovano nelle proporzioni del suo fisico la compiutezza della forza generatrice femminile. I suoi capelli, fluenti come cascate di soavità, sono castano chiaro ma durante l’estate, quando il sole è alto sul filo dell’orizzonte e i suoi riverberi li irradiano con più potenza essi diventano biondi. Il viso ha lo splendore e l’immutabilità delle antiche statue greche che si possono ammirare solo nei musei ed i suoi occhi strabilianti, profondi, sprigionano la dolcezza infinita che abita dentro lei in un trionfo di riflessi da rischiarare finanche il giorno. Per questo passa inosservato il fatto che non abbia mai usato orecchini, anelli, braccialetti, monili in generale, orologio al polso e, tranne un leggero tocco di matita alle palpebre, non usa trucco, neppure rossetto alle labbra in quanto già la sua presenza è un prezioso ornamento della Terra. Una semplice collana, a sostenere il simbolo della croce di Gesù o un cristallo di rocca, guarnisce il suo collo che potrebbe essere stato disegnato o scolpito solo dalla mano di un grande e geniale artista.
Fatina è cresciuta con la sua mamma, donna profondamente cattolica e rigorosa, e la presenza assidua di un’anziana amica di famiglia e vicina di casa di nome Eveline dalla quale rimase affascinata per la sua costante allegria forse legata al rispetto della tradizione ellenica e il culto dei quattro elementi, Fuoco, Terra, Aria e Acqua che aggregano l’esistente e coesistono nell’etere, la quintessenza che, secondo Aristotele, si andava a sommare agli altri inglobandoli. Fu così che Fatina fece suo l’insegnamento di Empedocle: “Conosci innanzitutto la quadruplice radice di tutte le cose: Zeus è il fuoco luminoso, Era madre della vita, e poi Idoneo, Nesti infine, alle cui sorgenti i mortali bevono” [Empedocle, frammento].
Paola vive dei proventi della piccola azienda di tessuti della quale abbiamo parlato, eredità di famiglia. Ha frequentato le elementari e dopo la scuola dell’obbligo studiò mineralogia e botanica. Esegue dolci melodie con il violino che la domenica rimbalzano tra le volte delle chiese durante le funzioni. Fatina dipinge, disegna, ma l’occupazione che predilige è aiutare il prossimo, i più bisognosi, gli ultimi, per i quali prepara quasi giornalmente pagnotte e prelibati pasticcini che porta con sé a Zurigo e Berna distribuendoli ai mendicanti. Alleviare le pene delle persone malate e soprattutto confortare le prostitute, obbligate dalla necessità a vendere il proprio corpo per procacciarsi cibo e sostentamento dei figli lo considera un dovere. Non di rado si reca nelle loro abitazioni a suonare il violino regalando note liete al loro cuore provato dalle vicissitudini della vita.
In un mondo sovrastato dal vero monoteismo del Dio denaro molti sono i modi di prostituirsi, sia con il corpo che la mente e dignità, senza dubbio le persone cui Fatina dona la sua amicizia ed a volte pure sostegno economico sono mentalmente più oneste di molte altre, donne e uomini, che vendono la loro vita, integrità, valori morali, per rincorrere ricchezza e potere. Considerate disonorevoli al contrario esse rappresentano per tanti individui con difficoltà di confrontarsi con l’altro sesso la sola risorsa di trovare un po’ di calore umano, uno sfogo, anche il sogno, la speranza in mancanza dei quali potrebbe trasformarli in frustrati e depressi indotti a scaricare in diversi modi la rabbia dell’isolamento cui sarebbero costretti. Raramente la gente si guarda allo specchio per scrutare il proprio volto ma sono molto bravi nello scoprire le rughe e cicatrici in quello degli altri.
Così come per gli animali Fatina comunica con i suoi simili in varie lingue che parla e scrive correttamente. Il dialetto svizzero, l’italiano appreso dalla mamma, tedesco francese e inglese obbligatori negli istituti frequentati successivamente alla scuola dell’obbligo, ed infine rudimenti di arabo, turco e celtico che ha voluto imparare per sua passione. Il salotto di Fatina è la sua casa nel bosco, suoi amici sono la natura e gli animali, la sua fonte i fiumi e laghi incantevoli che abbondano nel territorio, le varie sorgenti fra rocce calcaree e granitiche dai mille sfavillii dei minerali inclusi, la fede è in ciò che ha appreso da tutto quanto la circonda e l’amore risiede nel suo animo puro e generoso.
Purtroppo la vita rincorre i suoi percorsi obbligati e imperscrutabili che a volte farebbero precipitare nello sconforto chiunque ma non la nostra Fatina che dal suo modo di concepire l’esistenza ha attinto forza, volontà e risorse che le consentono di affrontare serenamente ogni avversità, anche le più maligne. Da circa sei anni Paola accudisce la sua adorata mamma colpita da un tumore inoltre nell’autunno scorso proprio alla nostra Fatina venne`diagnosticata una patologia rara, ereditaria, che potrebbe lentamente portarla alla perdita della memoria. Si spera e ci auguriamo tutti che la sua dolcezza e sensibilità elargiti quali bagliori di una personalità unica, e con l’aiuto della scienza, possano allontanare il male dalla nostra insostituibile amica.
Anche se con modeste parole mai degne del valore ed eticità della sua persona eccovi presentata Paola Micoli, designata la Fatina del bosco.
Comunico a tutti che ha comunque deciso di raccogliere ogni particolare del suo mondo favoloso in una biografia che sarà pubblicata a breve la cui lettura regalerà forti emozioni facendoci viaggiare oltre gli angusti limiti imposti dalla crescente urbanizzazione.

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza: Paola Micoli

RIPRODUZIONE RISERVATA – PUBBLICAZIONE AUTORIZZATA A PAOLA MICOLI

PUTTANE (racconto breve) – Il presente scritto è rivolto ad un pubblico di soli adulti

PUTTANE
(racconto breve)

Il presente scritto è rivolto ad un pubblico di soli adulti

Milano, giornata di sole, aria tersa, pulita. Seduto al “Biffi” osservavo la fauna umana che scorrazzava frenetica, senza tregua, come formiche a fine estate, ciascun membro aveva il proprio bottino, ventiquattrore i professionisti, borsette Luis Vuitton le professioniste, alcuni portavano con scioltezza eleganti sacchetti dello shopping appena consumato, reclamizzati Hermes, Bulgari, Armani. Riecheggiavano i tacchetti delle signore e lo scalpiccio dei mocassini maschili, accompagnati da dissonanti fischi che ogni tanto scaturivano dallo strascicare delle orribili scarpe con suola di gomma sul pavimento.
Accanto al mio tavolo due coppie degustavano l’aperitivo, a occhio gli uomini parevano persone importanti, mi davano la schiena, le donne classiche femmine che si accompagnano alle persone che si credono importanti, una di esse ero certo averla conosciuta, me lo riferì l’aumento del ritmo cardiaco, ci scambiammo una veloce ed eloquente occhiata.
D’improvviso, rivolgendosi all’altro, uno dei due chiede:
– “Ma che tipo di uomo è questo Mauro Giovanelli? Con chi abbiamo a che fare?”.
In una frazione di secondo l’amico risponde secco:
– “Il migliore!”
Pausa brevissima, bastante a sistemare l’oliva che stava succhiando, poi aggiunge:
– “Nessuno è mai riuscito a batterlo su quel terreno.”
Le due compagne si fissano pochi istanti e, mentre la bionda prende il bicchiere, estende pure al sottoscritto i suoi occhi azzurri. Ora ricordo! Ma dai! Non è possibile! Sempre bella, qualche anno in più non l’hanno scalfita, è la moglie del tizio piccoletto, brutto, prepotente, il pezzo “grosso”, si fa per dire, della politica. Dalla voce riconosco pure il suo interlocutore, il celebre giornalista con cui ho avuto qualche scambio epistolare. Adesso è tutto chiaro e vengo colto da profonda emozione! Sposto di poco la sedia, quel tanto da non poter essere visto dai maschioni nel caso si dovessero muovere ma abbastanza da sbirciare lei. L’amica non la scorgo bene, capelli neri, che sia… l’altra?
– “E sei stato un perfetto idiota, dovevi pubblicarglielo quell’articolo, magari tagliandolo un po’ con la scusa degli spazi, se ti confronti con quello riuscirebbe perfino a dimostrarti che ha ragione qualora avesse torto, figurati il contrario…”
La conobbi al “Mangini” di Genova quando si tennero le amministrative, stava in fondo al salone, sola, elegantissima, stupenda, appena ci guardammo scattò quella… famosa, indefinibile “forza” reciproca, irrefrenabile attrazione che al confronto le onde gravitazionali appena scoperte sono quelle delle pozzanghere. Il richiamo dei sensi. Scrisse qualcosa su un biglietto, si alzò dirigendosi alla toilette, gambe da brivido, fondoschiena… il sogno, mai si voltò nel breve raffinato tragitto ma i cenni del capo, come volesse girarsi, parlavano. Aspettai che entrasse e, rivolgendomi alla brigata: “Scusate! Devo occuparmi di una faccenda.” e mi avviai ai servizi. Neppure chiusi completamente la porta alle spalle che sentii un paio di braccia al collo, era agitata, le sue mani tremanti, nervose, viaggiavano lungo il viso, la nuca, i capelli, io fermo come un palo, interdetto, poi la strinsi forte a me, così forte da farle male, le alzai la gonna, il suo profumo mi inebriava, stavo per inginocchiarmi, dovevo… “No! Non ora per favore” disse turbata. “Conosco il proprietario, è mio amico” pronunciai a bassa voce per calmarla mentre stavo frugando sotto le sue mutandine, finissime, eccitanti… l’Eden! “Possiamo chiuderci dentro, sei bella, bellissima…” aggiunsi. “Non ora!” replicò con tono di femmina abituata al comando. Mi staccai, si ricompose la pettinatura guardandosi allo specchio, diede un’aggiustata all’abito, si voltò, bacio tenero sulla guancia, infilò un biglietto nella mia tasca, uscì. Rimasi stranito! Quando rientrai in sala la prima cosa che udii fu “Ma… pisci dal cervello? L’ho sempre detto che sei una testa di cazzo! Guardati!” Era svanita. Intontito mi voltai e l’alzata dietro il bancone rifletteva l’immagine di un mohicano, mi diedi una rassettata “…hai pure la patta bagnata, sei ambivalente?” E giù risate. “Affanculo ragazzi, pensateci voi, ho preso un negroni, ho premura, devo andare…” e mi incamminai come uno zombie seguito da “Il negrone l’hai preso nel bagno… lo dice anche il Maestro!”.
Che storia senza tempo! I nostri punti di incontro erano a metà strada, Tortona dove c’era pure un ristorante pregevole, o Binasco, motel di gran lusso, mai Genova o Milano. D’estate in spiaggia, a lei piaceva molto farlo in cabina, anche la sera in riva al mare, una o due volte di giorno nascosti dietro la boa, sempre riviera di Levante, trattorie dell’entroterra, locali caratteristi della Liguria, tutti con camere.
Dovevamo stare molto accorti, prudenti. Ciò che mi mise in tasca era il biglietto da visita del marito, quello brutto e potente che avevo accanto, orecchie piccole e attaccate alla testa, faccia da roditore, incisivi sporgenti, simpatici animali proprio perché il loro muso ha l’espressione sciocca. Dietro c’era il suo numero e l’ora in cui avrei dovuto chiamarla, cosa che feci il giorno dopo. La prima volta non riuscimmo ad arrivare in camera, nell’ascensore facemmo l’amore in modo feroce, da bestie, sudati, desiderio incontrollabile, complicità assoluta, totale, e poi ancora, e ancora, bastava passasse una mezz’ora. Ordinavamo da bere, si fumava, godevamo di ogni secondo, mi piaceva quando alla fine di ogni rapporto domandava, con sovrumana sensibilità in contrasto alla sua persona: “Sei soddisfatto?” passandomi le mani sul torace, lenta, assaporava la vita. Era imprevedibile, ogni volta mi stupiva ma… la sera che improvvisamente si alzò… era una meraviglia vederla camminare nuda, sarebbe sciocco dire che pareva ci fosse nata, come tutti noi, ma lei venne alla luce in modo speciale, spogliata di ogni limite, aveva l’apparenza di un angelo… si mise a frugare tra i miei abiti sparsi sul parquet insieme ai suoi, sparpagliati ovunque, tornò con la mia cintura e comandò: “Frustami!”. Non scherzava mai quando si trattava di sesso, avvertii un misto di stupore ed eccitazione, lanciò la cinghia sul letto e si mise a pancia sotto, piegata sul tavolo, le mani aggrinfiate al bordo opposto, gambe larghe. “Sono una puttana, come mio marito, puniscimi… ad ogni colpo io ti potrò dire solo tre cose: Basta, ancora o più forte… tu ubbidisci… quando ti dirò basta mi sodomizzi, con forza, violenza!”. Qualora avessi pensato di aver fatto tutto nella vita da quella sera capii quanto mi ero sbagliato.
Nei momenti in cui stavamo abbracciati osservando le stelle, il soffitto, il tetto della macchina, i vitigni del pergolato, parlavamo di ogni cosa, nulla ci era precluso. Aveva… ha così fame di… esistere quasi quanto me. Mi disse tutto del mondo del consorte. “Non esistono puttane perché ogni donna ha l’accortezza di innamorarsene prima di sposare un miliardario.” Esordì una sera. “Questa l’ho già sentita.” Ribattei. “Taci tesoro, ascolta… ti sposi quello che può darti tutto, gioielli, vestiti, sicurezza, futuro per te e i tuoi figli, nulla ti manca, neppure il suo amore i primi anni, solo… lo guardi e ti fa schifo ma cerchi di trovarci i lati buoni, ti convinci che…” Si interruppe, stava piangendo, per la prima volta la sentii mia, completamente, pure delle sue debolezze mi ero appropriato, ne possedevo il corpo, la mente e… qualcos’altro che mi sfuggiva, dovevo capire di che potesse trattarsi, la stavo amando al di là di ogni confine perciò la spiegazione stava di certo fissata alle pareti dell’Universo come un dipinto. Pensavo a questo mentre la accarezzavo. “…neppure sarebbe in grado di dare amore…” proseguì con voce roca riportandomi sulla terra “…non esiste nella sua dimensione, lui è la vera puttana, i suoi colleghi e colleghe, segretari, sottosegretari, corrotti, corruttori, ladri, parassiti, arroganti, frustrati, insensibili all’esistenza non solo degli altri ma arriverei a dire perfino dei familiari, i bambini… mirano unicamente al potere, ci si trovano invischiati come mosche in una ragnatela, pure a loro agio, cercano la sottomissione di tutto e tutti, giornalisti, opinionisti, conduttori della televisione, baciano i piedi dei superiori pensando a come e quando li pugnaleranno e sono spietati con i subalterni… vili! Ecco che sono, allora…” La interruppi: “Ascolta me adesso, calmati, non sei obbligata a palarmene…” Neppure mi sentì “…allora ti rendi conto di aver perso tutto, almeno la parte più preziosa di te, ho assistito a cose… sono a conoscenza di fatti che non potresti immaginare neppure tu, con la tua fantasia, il desiderio di conoscenza che ti possiede… le troie, le puttane da marciapiede sono le persone più buone e oneste che ci siano, quelle che vogliono farlo per loro scelta, al loro confronto poi sono regine…” Alzò la testa per guardarmi in viso, mi fissò qualche istante… “Mi ami?” In quel momento toccammo la punta massima dell’umana congiunzione, abbracciandola venni pervaso da effluvi femminili, brama di sacralità, in lei avvertii inconfessabile mitezza, desiderio di soddisfare appetiti fondamentali e sincera commozione. Non mi permise di risponderle che la veneravo, mise una mano sulla mia bocca. “Ti amo ma presto non potremo più vederci, mio mar… quello sta sospettando qualcosa, è furbo, poco intelligente ma furbo, non gli interessa tanto per me, ha nugoli di ronzanti sgualdrinelle attorno, ma la sua posizione… sta arrivando molto in alto… ed io devo farlo per te, potresti trovarti in guai seri, è gente maleducata…”
L’ultima volta che la vidi si presentò con l’amica, quella che avevo quasi a fianco, era il suo alibi più sicuro, trascorremmo una serata a tre in un delirio di onnipotenza tutto nostro.
Non mi accorsi che il cameriere stava chiedendomi se desideravo assaggiare i dolci della casa appena sfornati.
– “Vuoi che ci facciamo fare le scarpe da quattro fottuti decisi a rovesciare il mondo? Affiancati da intellettualoidi da strapazzo? Che cazzo gli hai risposto a fare?”
– “Pensavo…”
– “Tu a quello non devi rispondere, in particolare se scrivi sciocchezze, ti massacra, lascia perdere. Ok?”
– “D’accordo, ma…”
– “Niente ma! Voi non dovete più pensare, se mai l’avete fatto, scrivete ciò che diciamo noi, nei modi e termini che già sapete, cercate di non fare dell’ingenuità una valore. Cameriere!”
All’istante si materializzò il gestore, con cautela depose aperta sul tavolo una cartellina in cuoio, questi firmò il conto e ritirò la credit card consegnata in precedenza. Si alzò di scatto come avesse una molla sotto il sedere e schiaffò il tovagliolo in malo modo tanto che finì sulla sedia ammucchiato, sudicio da far ribrezzo. L’altro fece lo stesso con garbo, le signore con eleganza e indolenza tanto da innervosire il “potere”. Il responsabile salutò accennando un inchino mentre la compagnia si diresse verso l’auto blu in attesa, doppie frecce accese, lampeggiante sul tetto, vetri oscurati, guardie del corpo, quelle che ho descritto in un mio articolo “I replicanti”, nugolo di curiosi distanziati dalle transenne.
Li osservai allontanarsi, lei rimase un po’ indietro e procedendo faceva cenni con il capo, come volesse girarsi. Quando si voltò ci scambiammo uno sguardo da far aprire il cielo, i suoi occhi erano umidi, la sbavatura del rimmel e una lacrima che scese lungo la mia guancia tradirono la verità, la vita, l’amore.

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

Nota: Questo racconto è frutto della fantasia dell’Autore. Ogni riferimento a persone e cose reali o esistite è da considerarsi puramente casuale.

Immagine in evidenza – A sinistra: Egon Schiele, fanciulla in ginocchio, 1917 – A destra: Claudio Bindella , olio su tela

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