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PERCORSO TRACCIATO

PERCORSO TRACCIATO

Il sentiero dei nidi di ragno ha tagliato la mia vita,
così d’un balzo passai dal basso all’alto cratone
sollevando poi la pelle dell’acqua con precauzione
onde osservare, tutto bagnato, il cane dormiente
all’ombra del mare.
Furono quelle sei parole coniate dal fratello maggiore
di Floriano a destare curiosità, geologo italiano,
mio professore all’Università.
I vocaboli uniti fra loro in modo appropriato
sono magici, aroma del tempo, spalancano visuali
del prima e dopo tra loro in perfetta armonia.
Ma ciò che vidi fu il villaggio sepolto nell’oblio,
solo il burattino in legno vestito da capitano
indicava la direzione, avrà avuto quindici anni,
mi incamminai lungo il viale stretto tra filari
di alberi di caucciù che ancora mostravano incisioni
nella corteccia, elicoidali, a confluire in piccole ciotole
legate al tronco torturato.
Era la strada principale da cui diramavano
arterie trasversali formate da basse costruzioni.
Leggevo “la via del tabacco” nell’insegna in alto,
la targhetta posta accanto la campanella aggrinfiata
alla prima abitazione riportava invece il nome:
“La saga dei Forsyte”, famiglia numerosa.
Superai in fretta la successiva a destra,
“La via di Shannon”, e decisi di seguire il mio istinto
mentre le stelle stanno a guardare da sempre.
Ero negli anni verdi quando ancora rimanevo affascinato,
attratto dal profumo de il corsaro nero,
che giunsi in una caletta proprio nel momento in cui
quel tal barone, da bordo di un vascello alla fonda
venne lanciato a cavalcioni della palla di cannone.
Doveva giungere ad una destinazione
che solo lui conosceva, cercare il tesoro in un’isola
che non c’è. Per questo raggiunse la sierra madre
che custodiva dobloni.
Pure io, come per magia accanto a lui,
stetti ad osservare l’incantevole panorama,
il piatto oceano dinanzi veniva infranto di tanto in tanto
dal soffione sofferente di un gigantesco cetaceo bianco,
sul dorso martoriato un grand’uomo vestito di nero,
sguardo vivo, senza religione, simile a un dio,
stava legato in croce tra un groviglio di arpioni e cordami.
Alle spalle il territorio affascinante che si presentò
già al cominciar de l’erta che saliva fino a formare
altopiano pianeggiante dove imponenti e sinistri mulini
subivano assalti di un picaresco cavaliere
asciutto di corpo e di viso, lancia in resta, scudo, elmo,
in groppa di un magro ronzino, al suo fianco lo scudiero
piccolo e rotondo sopra il suo asino pareva un patriarca,
bisacce e borraccia all’arcione.
Dalla finestrella di uno dei giganti armati di pale urla e strepiti,
si trattava di Lady… appena sedotta dal guardacaccia.
In men che non si dica venne liberata dall’intrepido cavaliere
e ricondotta alla tenuta del marito infermo.
Ma non era in questo modo che doveva finire.
Allora indagai a lungo, mi distesi, avvertii il suono lontano
di un tamburo di latta percosso dall’uomo ad una dimensione,
avevo il sole in faccia ma non mi addormentai,
pareva di essere tra le verdi colline d’Africa.
Mi sentivo in pace con me stesso e sono certo che trascorsi
almeno cent’anni di solitudine beata in cima a quel pianoro,
come se mi trovassi nella valle dell’Eden che perciò
non doveva trattarsi di impervio e occulto canalone.
Decisi di tornare a casa, rammentai d’improvviso
che dovevo risolvere una questione privata,
ordinaria cronaca familiare che i fratelli Karamazov
mi chiesero di decifrare per loro.
In cielo la luna e i falò attorno rischiaravano il cammino.
Mi imbattei nel Maestro e Margherita ma neppure un istante
si fermarono. Quante domande avrei voluto porgli,
sul Procuratore più che altro, l’Egemone,
avvolto nel suo bianco mantello foderato di rosso quando,
seduto sulla scranna formulò la domanda sbagliata;
non “Che cos’è la verità?” ma “Qual è la verità?”
avrebbe dovuto chiederGli.
Mai si presenterà più simile occasione, il Grande Inquisitore
non è distante quindi per tutti meglio accelerare.
Intanto era giunta l’età della ragione, non c’era più tempo
per il rinvio perché con quella conobbi pure la morte nell’anima,
la peste, presi coscienza che la condizione umana
non è ciò che si crede. Incontrai Bube con la sua ragazza,
conobbi la noia e la nausea, un urlo atroce e prolungato
interruppe i monologhi di Molly e Leopold Bloom.
Al momento procedevo sulla strada che prese il nome Route 66.
C’era più movimento, e coloro che incrociavano il mio inseguire,
neppure ricordo più bene cosa, si voltavano verso me pronunciando
il proprio nome come preghiera, supplica di non dimenticarli.
Burroughs! Cassady! Solomon! Corso! Carr! Ferlinghetti! Mailer!
Ginsberg! Kerouac! Snyder! Parevano fantasmi, gioiosi, spensierati,
tutti figli di Fante, quello che esortava dicendo “chiedi alla polvere”,
ciò che eri e ritornerai, anche se qualcuno, leggermente staccato
dagli altri, immusonito, pensasse di avere più titolo
di esserne allievo ed amico. Lo riconobbi subito dalle cicatrici
del grugno, residui dell’acne purulento di cui soffrì in gioventù.
Provai a chiamarlo “ciao Hank!” ma il grande Henry Charles Bukowski
passò dritto e solo poco dopo si voltò verso me urlando
“Fottiti amico! E non mi piace nemmeno Tolstoj!”
Ma questo già lo sapevo.
Fu poco prima di attraversare meridiano di sangue,
che separa virtualmente il tropico del cancro dal tropico del capricorno,
che intravidi Miller insieme a McCarthy e Roth, furono gentili,
mi diedero istruzioni, dissero di guardare a Pessoa e Saramago,
Marquez e Borges poi proseguire dritto riprendendo i grandi filosofi,
Filippo Bruno intanto, dei classici, dai presocratici in poi, bastava
ciò che mi è rimasto dentro dagli studi. Svoltare alla prima piazza,
direzione obbligata, Nietzsche, Schopenhauer, Kant, François-Marie Arouet
e… lui! All’unisono con un cenno della testa indicarono, solo e pensoso,
un uomo poco distante, camicia bianca, maniche arrotolate, sorriso triste,
ironico, buono, rispettoso, leale, spontaneo. Inconfondibile: Pasolini!
“Ha necessità di grande aiuto e compagnia” aggiunsero dileguandosi ma…
un attimo prima si voltarono a ricordarmi qualcosa di molto importante:
“Ad egli come a Cirano strapparono tutto ma portò seco, senza piega
né macchia, a Dio, loro malgrado, la sua poesia anziché il pennacchio”
Quando riaprii gli occhi e levai lo sguardo verso il sole mi resi conto
di non essere mai nato, la mia vita era stata quella, il sogno provocato
dal volo di un’ape attorno a una melagrana un secondo prima del risveglio.
E adesso? Io, costruttore di visioni, dovevo affrontare quest’altra.
Girai lo sguardo intorno, osservai tutto quanto mi circondava,
continuai a scrivere e… vagheggiare.

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

Immagine in evidenza ricavata dal web: Salvador Dalí

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CIÒ CHE È STATO DETTO

CIÒ CHE È STATO DETTO

In tarda mattinata ho visto il post di un carissimo amico, non credo desideri essere nominato. Ha pubblicato una vecchia fotografia dei suoi genitori scoprendo solo adesso che nel retro vi era uno scritto. Le parole che accompagnano l’immagine mi hanno commosso al punto da riportarmi indietro di almeno un decennio, al momento in cui ritrovai diverse istantanee che si “spedivano” i miei, le dediche reciproche sono a volte veri e propri brani.
Anno 1942, piena guerra, mio padre sommergibilista della Regia Marina a Taranto dove si sposarono l’anno successivo, mamma in famiglia a Genova. Mentre loro calpestavano già questa terra io ero un pensiero errante chissà dove e come. Leggere quanto si dissero mi provocò grande emozione però… dissimile, intensa ma di colore insolito, venni colto da una pace infinita, curiosità, languore e malinconia, non dolore. Il tempo si fermò, tutto quanto mi circondava si ribaltò per lanciarsi, roteando vorticosamente, negli abissi del cielo. Il pomeriggio trascorse senza che me ne accorgessi, ero da qualche parte in luoghi sconosciuti… come oggi rimasi solo a parlare con loro che potrebbero essermi figli. C’è molto da riflettere in questa vita.

P. S.
Desidero rendere partecipi gli amici più cari di queste poche righe allegando una foto con la frase più usata, a volte a sproposito ma non in questo caso. Grazie.

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

L’articolo “CIÒ CHE È STATO DETTO” è stato pubblicato il 13 maggio 2016 sul sito www.memoriacondivisa.it

Immagine in evidenza: mamma e papà

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A Mia Madre

A Mia Madre

Non sempre il tempo la beltà cancella
o la sfioran le lacrime e gli affanni
mia madre ha sessant’anni e più la guardo
e più mi sembra bella.
Non ha un accento, un guardo, un riso
che non mi tocchi dolcemente il cuore.
Ah se fossi pittore, farei tutta la vita
il suo ritratto.
Vorrei ritrarla quando inchina il viso
perch’io le baci la sua treccia bianca
e quando inferma e stanca,
nasconde il suo dolor sotto un sorriso.
Ah se fosse un mio prego in cielo accolto
non chiederei al gran pittore d’Urbino
il pennello divino per coronar di gloria
il suo bel volto.
Vorrei poter cangiar vita con vita,
darle tutto il vigor degli anni miei
Vorrei veder me vecchio e lei…
dal sacrificio mio ringiovanita!

Edmondo De Amicis

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

Immagine in evidenza: A sinistra “mia mamma ed io” – A destra Edmondo De Amicis ricavata dal web