Quinto Orazio Flacco – Satire

Quinto Orazio Flacco
Satire

A’ musici è comun questo difetto,
Che pregati a cantare infra gli amici,
Mai non fan grazia; se nessun gli cerca,
Costor non danno mai più fine al canto.
Tal fu Tigellio il Sardo. A lui potea
Fare Augusto medesmo istanze e preghi
Del suo gran padre e di se stesso in grazia,
Tutto era van; se gli saltava il grillo,
Dal suo primo cenar sino alle frutta
Trillava, evviva Bacco, ora in soprano,
Or nel più basso tuono. Ei non fu mai
A sè medesmo ugual. Correa sovente
Qual chi fugge il nemico, e spesso andava
Lento come chi porta in giro i sacri
Cesti di Giuno. Or ei dugento servi,
Or n’avea dieci a pena. A bocca gonfia
Parlamentava di tetrarchi e regi;
Poi detto avria, d’un qualsivoglia desco,
D’un salin puro, d’una grossa vesta,
Che dal freddo mi pari, io son contento.
Ma se a quest’uom sì moderato e parco
Donavi un milion, tra cinque giorni
Non gli restava nello scrigno un soldo.
Vegghiar solea la notte infino all’alba,
Poi russar fino a sera. Un incostante
Pari a costui non mai si vide in terra.
Talun dirammi: e tu non hai difetti?
Altri ne ho forse non minor di questi.
Menio tagliando i panni a Novio assente,
Uno gli disse: Bada a te: non sai
Che ti conosco? e di gabbarne intendi?
Menio rispose: A me medesmo poi
Amo e so perdonare. O d’ogni biasmo
Degno amor proprio, e dissennato e ingiusto!
Se cispo guati con l’impiastro agli occhi
Le colpe tue, perché la vista aguzzi
Più d’aquila o serpente a’ vizj altrui?
De’ tuoi difetti ancor registro tiensi.
Colui, dice taluno, è sdegnosetto,
Non regge all’altrui frizzo. È messo in burla,
Perch’è tosato mal, perché la toga
Non ben gli quadra al dosso, al piè la scarpa,
Ma per bontà va innanzi a tutti, è amico,
E chiude in rozzo corpo un alto ingegno.
45Or tu scandaglia te medesmo, e mira,
Se inserito abbia in te vizj Natura,
O mal costume. Che ne’ campi incolti
Germinar felce suol degna del foco.
Poniam mente allo stil de’ ciechi amanti,
Cui delle amiche le più sozze mende,
Non che disgusto, recano diletto,
Come fa d’Agna il polipo a Balbino.
Vorrei che un tale error nelle amicizie
Avesse luogo, e che si fosse a quello
Dalla virtù trovato un nome onesto.
Del figlio il padre non aborre, e noi
Aborrir dell’amico non dovremmo
Qual ch’ei s’abbia difetto. Un padre appella
Luschetto un figlio che ha stravolti gli occhi,
Piccin quel ch’è pimmeo come a’ di nostri
Era Sisifo aborto di natura;
Bilenco chi stravolte ha le ginocchia,
E strambin chiama balbettando quello
Che mal si regge su i calcagni storti.
Così da noi chi troppo il suo risparmia
Si nomini frugale, e chi ventoso
Mena di se jattanza un uom garbato
Che figura vuol far presso gli amici.
Se alcuno è truce e franco oltre il dovere,
Di schietto e coraggioso abbiasi il nome;
S’è troppo caldo, risoluto il chiama.
Quest’è che le amistà lega, e conserva.
Ma noi siam usi alle virtù medesme
Cangiar sembiante, e intonacar vogliamo
Con rea vernice un vaso puro e netto.
Uno è di buon costume? è abbietto e vile.
Quegli è tardo a parlare? è uno stordito.
Questi ogni agguato schiva, e il fianco inerme
A’ maligni non offre, (e ciò in un tempo
Che l’invidia imperversa, e in ogni banda
Trionfa la calunnia), anziché il nome
D’accorto e destro, ha quel d’astuto e finto.
Se alcun va schietto e in quella foggia, ond’io
Spesso a te godo, o Mecenate, offrirmi,
Tal che interrompa con parlar molesto
Chi medita o chi legge, a lui, diciamo,
Manca il senso comune. Oh quanto sciocca
Formiam contro noi stessi e iniqua legge!
Poiché nessuno è senza vizj al mondo,
Ottimo è que’ che n’ha la minor soma.
Un dolce amico i vizj miei ragguagli,
Com’è ben giusto, alle virtudi, e a queste
Di numero maggior, se pur son tali,
L’affetto inchini. S’egli vuol che a lui
Io risponda in amor, con questa legge
Appo me troverà stadera uguale.
Se non vuoi che l’amico si disgusti
Delle tue natte, i suoi bitorzi escusa:
Chi per se vuol perdon, perdoni altrui.
In somma giacché in tutto sradicarsi
Non può né l’ira, né quant’altri vizj
S’attaccano agli stolti, e perché dunque
Ragion non usa le misure e i pesi
Convenienti, né a ciascun delitto
Secondo il merto lor fissa il gastigo?
Se taluno mettesse in croce un servo,
Perch’egli nel levar di mensa i piatti
Trangugiò qualche pesce smozzicato,
E un po’ di salsa, tra i cervelli sani
E’ si dirìa di Labeon più pazzo.
E pur quanto è maggior tua frenesìa?
Fa un lieve error l’amico, a cui se nieghi
Compatimento, ognun ti tien per aspro
E per rubesto, e tu l’abborri e sfuggi,
Come fanno Drusone i debitori,
Che se al primo del mese i cattivelli
Pronti non son a snocciolargli il frutto
O il capital, quai servi a collo teso
Le scipide sue storie a udir gli astrigne.
Un pien di vino scompisciommi il letto,
O fe cadere in terra una scodella
Già stata fra le man del vecchio Evandro,
O la fame gli fe torre un pollastro
Che stava nel taglier dalla mia parte,
Per questo ho da pigliar l’amico in urto?
Che farei, se m’avesse svaligiato,
Rotto il segreto, oppur la fè tradita!
Chi vuol che uguali sien tutte le colpe,
Quando al fatto si viene è in grande intrico.
Il senso e l’uso vi s’oppone, ed anche
L’utilità, che quasi al giusto è madre.
Quando gli uomini primi usciro al mondo
Muti e sozzi animali ebbero insieme
Per le ghiande e le tane ad azzuffarsi
Con unghie e pugni, co’ baston dipoi,
Indi con l’armi che foggiò il bisogno,
Finché inventate fur parole e nomi
A dinotar gl’interni sensi; e allora
Cessaron le battaglie, e alzate furo
Città munite, e con le leggi esclusi
I furti, gli adulterj e le rapine.
Perocché prima ancor d’Elena al mondo
Donne impudiche fur cagion di guerra,
Ma ignoti son que’ che di fere in guisa
Cercando pasto alla lussuria ingorda
Spense la mano di rival più forte,
Come toro che sventra i men gagliardi.
Se a scorrer prendi d’ogni età gli annali,
Vedrai che incontro all’oprar fello e ingiusto
Fur le leggi dagli uomini inventate;
Nè Natura scevrar dal torto il dritto
Può come il ben dal male, il pro dal danno.
Nè ragion mai ti proverà che fallo
Commetta ugual chi pochi fusti infranga
Nell’altrui campo, e chi di notte involi
Con sacrilega man gli arredi a i numi.
Regola v’abbia che delitto e pena
Tra lor pareggi; nè flagello atroce
Solchi le spalle a chi di sferza è degno;
Ch’io già non ho timor che tu alla frusta
Danni chi meritò maggior gastigo,
Poichè tu dì che l’assassinio e ’l furto
Son cose uguali, e di tagliar minacci
Con falce indifferente il poco e il molto,
Qualor tu giunga a conseguire un regno.
Se chi è saggio tuttinsieme è ricco,
Buon calzolajo, ei solo è bello ed anche
Re, perché brami aver ciò che possiedi?
Ei mi dirà, Tu non sai quel che insegna
Il gran padre Crisippo. Il saggio mai
Fatto non si ha nè sandali nè scarpe,
Eppure il saggio è calzolajo. Come?
In quel modo ch’Ermogene è cantore
E musico eccellente ancorch’ei taccia;
In quel modo che dopo aver gittato
Via gli stromenti e chiusa la bottega,
Era cordovanier lo scaltro Alfeno;
Così di tutto il saggio è gran maestro,
E così re. Sta in guardia che una turba
Di ragazzi insolenti, o re maggiore
Di tutti i re, la barba non ti peli,
E se col nerbo non la tieni indietro,
Non ti s’affolli addosso, e tu frattanto,
O meschinello, invan ti sfiati urlando.
Ma per finirla, mentre al bagno vai
Tu re con pochi soldi, e nessun altro
Che lo scempio Crispin ti fa la corte,
Io dolci amici avrò che alle mie colpe
D’inavvertenza accorderan perdono,
Ed io del par compatirò lor falli
Ben volentieri, e tuttoche privato
Più di te, che re sei, vivrò contento.

Quinto Orazio Flacco – Satire (I secolo a.C.) – Traduzione dal latino di Luca Antonio Pagnini (1814) – Libro I – Satira III

Mauro Giovanelli – Genova
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L’UOMO CON LA SCIARPA BIANCA (GENITORI ESODATI)

FU COSÌ, FRA L’INDIFFERENZA GENERALE, CHE SI GIUNSE A MONTI, LETTA, RENZI, GENTILONI, IL VOTO DI SCAMBIO PER LOTTI / MINZOLINI…

L’UOMO CON LA SCIARPA BIANCA
(GENITORI ESODATI)

Barbara e Valentina, le mie figlie. Erano adolescenti quando dalla tribuna d’onore della sua squadra di calcio meneghina, sciarpa bianca démodé e borsalino in testa, un signore divenuto miliardario cominciava a rilasciare striscianti dichiarazioni politiche che mi inquietavano. Ne intuivo la minaccia, percepivo l’insidia, mi infastidivano. Ecco le sue prime apparizioni televisive che non sarebbero finite mai. Non gli diedi peso più di tanto nella convinzione che le istituzioni lo avrebbero rifiutato, il sistema si sarebbe automaticamente protetto attivando gli anticorpi, quell’uomo non avrebbe potuto costituire un pericolo. Il tempo è passato in un lampo e solo ora prendo coscienza quanto la mia fiducia fosse mal riposta, sia guardando alla parte politica in cui credevo che a quella avversa, oggi alleate.
All’improvviso sento la necessità di chiedere scusa alle mie figlie per non aver fatto di più, il massimo, un estremo sforzo nel cercare di evitar loro un ventennio culturalmente e socialmente decomposto.
Io posso dire che i miei genitori mi hanno lasciato la Costituzione. Ma loro, di me, cosa racconteranno?

Mauro Giovanelli – Genova GE
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“L’UOMO CON LA SCIARPA BIANCA – GENITORI ESODATI)” è stato pubblicato il 28 ottobre 2013 sul sito www.memoriacondivisa.it: – Su “la Repubblica” del 22 ottobre 2013 pag. 24 – su “Il Segno” novembre 2013 pag. 7 – http://ilsegnoroccadipapa.blogspot.it

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FERNANDO PESSOA – TABACCHERIA

TABACCHERIA

[…] Ma il padrone della Tabaccheria s’è affacciato sulla porta e vi è rimasto.
Lo guardo con il fastidio della testa piegata male
e con il disagio dell’anima che sta intuendo.
Lui morirà ed io morirò.
Lui lascerà l’insegna, io lascerò dei versi.
A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi.
Dopo un po’ morirà la strada dove fu stata l’insegna,
E la lingua in cui furono scritti i versi.
Morirà poi il pianeta che gira in cui tutto ciò accadde.
In altri satelliti di altri sistemi qualcosa di simile alla gente
continuerà a fare cose simili a versi vivendo sotto cose simili a insegne,
sempre una cosa di fronte all’altra,
sempre una cosa inutile quanto l’altra,
sempre l’impossibile, stupido come il reale,
sempre il mistero del profondo certo come il sonno del mistero della superficie,
sempre questo o sempre qualche altra cosa o né una cosa né l’altra.
Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
e la realtà plausibile improvvisamente mi crolla addosso.
Mi rialzo energico, convinto, umano,
con l’intenzione di scrivere questi versi per dire il contrario.
Accendo una sigaretta mentre penso di scriverli
e assaporo nella sigaretta la liberazione da ogni pensiero.
Seguo il fumo come se avesse una propria rotta,
e mi godo, in un momento sensitivo e competente
la liberazione da tutte le speculazioni
e la consapevolezza che la metafisica è una conseguenza dell’essere indisposti. […]

FERNANDO PESSOA

Mauro Giovanelli – Genova
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PULSIONALE

PULSIONALE

Nel procedere del nostro tempo,
durante l’intervallo fra apparente
sorgere del sole e tramonto,
c’è un istante vivo, improvviso,
subdolo strappo,
plausibile pulsione cosmica
che della Terra
trasmette ogni movimento,
rotazione, rivoluzione,
precessione, traslazione, fuga.
Così l’illusione svanisce,
sogno e incanto vengono sostituiti
da ineffabile realtà.
Rapito dallo spazio
nulla può arrestare malinconia,
tormento del ripetitivo risorgere
solo e sperduto in tale vastità.
Giunge puntuale nel tardo pomeriggio,
replica di qualcosa che si compie quando,
virando sul rosso,
già stanca sembrerebbe la luce.
Di eterna notte accogliente, protettiva,
avverto quindi esigenza estrema.
Mi sia sempre accanto
finché fluiscono i miei giorni.

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza: FULVIO LEONCINI ARTISTA TOSCANO – “Pulsionale” – 1997/1999 – Grandecuore 1998 – Tecnica mista su legno – Dimensioni cm. 102 x 72

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I “LORO” ED I NOSTRI (ovvero Figli e figliastri)

I “LORO” ED I NOSTRI
(ovvero Figli e figliastri)

Più o meno siamo in campagna elettorale permanente effettiva. Sbaglio? Lo schieramento di partiti, movimenti, “ideologie”… centro, centro destra (?), centro sinistra (?), allineati al centro, allineati a sinistra, disallineati, gruppo misto, dispersi, berlusconiani, renziani, casinisti (Pierferdinando Casini), Bersaniani e chi più ne ha più ne metta… sta raggiungendo livelli tossici.
Ai politici, ahimè, di casa nostra dovrebbe ALMENO essere impedito blaterare sul futuro dei giovani usando la locuzione

“…I NOSTRI FIGLI…”

poiché, a mio modesto avviso, ci sono i “nostri” con enormi problemi da affrontare (indice di disoccupazione alle stelle) ed i “loro”, un esercito (del resto possono pure permetterselo), ben sistemati e rinumerati (indice di disoccupazione zero).
Chiaro il concetto?

Mauro Giovanelli – Genova
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Derek Walcott – IL NEGRO ROSSO CHE AMA IL MARE

IL NEGRO ROSSO CHE AMA IL MARE

Io sono solamente un negro rosso che ama il mare
ho avuto una buona istruzione coloniale
ho in me dell’olandese del negro e dell’inglese
sono nessuno, o sono una nazione.

Derek Walcott
Castries, Santa Lucia, 23 gennaio 1930 – 17 marzo 2017
premio Nobel 1992 per la letteratura

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Derek Walcott – PER TUTTI I “TOLLERATI”

PER TUTTI I “TOLLERATI”

Disse Derek Walcott:

“…il tempo che di noi fa tanti oggetti, moltiplica la nostra naturale solitudine…”

questo scrittore riesce a riassumere in poche parole il problema (che non dovrebbe esistere) del razzismo e dei migranti. Una sua meravigliosa poesia:

IL NEGRO ROSSO CHE AMA IL MARE

“Io sono solamente un negro rosso che ama il
mare, ho avuto una buona istruzione coloniale, ho in me
dell’olandese del negro e dell’inglese, sono nessuno,
o sono una nazione”.

Derek Walcott

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AMORE

AMORE

Scrivere di amore non è argomento banale,
neppure desueto o scontato
per animali genere “homo” unici,
fin dalla loro comparsa,
ad intrattenere dialoghi insensati con l’Universo,
forse perché mai lo hanno compreso
al contrario degli altri viventi privi di favella,
sembrerebbe, ma ricchi in comunicazione,
ignari di ogni classificazione, distinzione, discriminazione
sebbene abbiano i sensi sviluppati.
Amore è pomeriggio folle generato in una stazione,
due binari fuggono nell’inseguirsi all’infinito
senza mai deviare dalle inesauribili parole dette,
sguardi di intesa ad annunciare il culmine
scritto da tempo immemore
in qualche angolo dello smisurato vissuto.
Serata zingara nel girovagare senza meta
immersi tra moltitudine attenuata, inesistente,
e fumare, godere, lacerarsi di piacere, sentirsi,
incorporarsi mentre sopraggiunge la notte fresca,
sale ed entra senza essere percepita,
sigarette, una camera qualunque, fare pipì
diventano necessità, impellenza… riposare.
E la mattina presto si innesta al ritardo
cui si è giunti alla tregua ambita, ineluttabile.
Ammirare la sua sagoma controluce,
già in piedi, cauta si è alzata, silenziosa,
Solo contorni, netti, precisi,
chinata leggermente, una gamba sollevata
nell’infilarsi le mutandine,
poi l’altra, infine indossate con decisione
nell’aggraziata scrollata di fianchi.
Non esiste visione più preziosa
della sua pancia di madre, seni generosi e morbidi,
cosce forti, candide, roventi,
glutei pieni, sodi, ascendenti e discendenti
nei movimenti della vestizione.
Sto parlando di amore,
immanenza ed uguaglianza,
pace e fratellanza che trovi nella profondità
dello sguardo del cane, il felino a caccia nella savana,
la gazzella terrorizzata, un gorilla braccato, cucciolo di umano,
la micia nell’attimo che osserva la tua indolenza.
Amore ravvisabile anche nel tempo,
passato che non è, inafferrabile presente,
futuro inconoscibile divenire solo per dare continuità…
Al dileguare.
Insieme.

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza: FULVIO LEONCINI ARTISTA TOSCANO – DUE DISEGNI CAPOLAVORO – LAPIS – DIMENSIONI cm. 21 x 30

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Lino Curci – QUESTO GRANO DELL’UOMO

QUESTO GRANO DELL’UOMO

Ho imparato negli anni
ad amare l’assenza, portatore
di creature lontane. Ho spigolato
il mio racconto d’anime. Ma è giunta l’ora
in cui tutto cestisce e si moltiplica
con più dolore, non so se un incontro
mi arricchisca o divori.
Avrei dovuto difendermi dal tuo dono,
ma già cresce più di ogni altra la tua piccola spiga
e per te sola pesa
questo grano dell’uomo.

Lino Curci

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Immagine in evidenza: Lino Curci

PIER PAOLO PASOLINI – Una luce

PIER PAOLO PASOLINI

Una luce

È una povera donna, mite, fine,
che non ha quasi coraggio di essere,
e se ne sta nell’ombra, come una bambina,
coi suoi radi capelli, le sue vesti dimesse,
ormai, e quasi povere, su quei sopravvissuti
segreti che sanno, ancora, di violette;
con la sua forza, adoperata nei muti
affanni di chi teme di non essere pari
al dovere, e non si lamenta dei mai avuti
compensi: una povera donna che sa amare
soltanto, eroicamente, ed essere madre
è stato per lei tutto ciò che si può dare.
La casa è piena delle sue magre
membra di bambina, della sua fatica:
anche a notte, nel sonno, asciutte lacrime
coprono ogni cosa: e una pietà così antica,
così tremenda mi stringe il cuore,
rincasando, che urlerei, mi toglierei la vita.
Tutto intorno ferocemente muore,
mentre non muore il bene che è in lei,
e non sa quanto il suo umile amore,
poveri, dolci ossicini miei
possano nel confronto quasi farmi morire
di dolore e vergogna, quanto quei
suoi gesti angustiati, quei suoi sospiri
nel silenzio della nostra cucina,
possano farmi apparire impuro e vile…
In ogni ora, tutto è ormai, per lei, bambina,
per me, suo figlio, e da sempre, finito:
non resta che sperare che la fine
venga davvero a spegnere l’accanito
dolore di aspettarla. Saremo insieme,
presto, in quel povero prato gremito
di pietre grigie, dove fresco il seme
dell’esistenza dà ogni anno erbe e fiori:
nient’altro ormai che la campagna preme
ai suoi confini di muretti, tra i voli
delle allodole, a giorno, e a notte,
il canto disperato degli usignoli.
Farfalle e insetti ce n’è a frotte,
fino al tardo settembre, la stagione
in cui torniamo, lì dove le ossa
dell’ altro figlio tiene la passione
ancora vive nel gelo della pace:
vi arriva, ogni pomeriggio, depone
i suoi fiori, in ordine, mentre tutto tace
intorno, e si sente solo il suo affanno,
pulisce la pietra, dove, ansioso, lui giace,
poi si allontana, e nel silenzio che hanno
subito ritrovato intorno muri e solchi,
si sentono i tonfi della pompa che tremando
lei spinge con le sue poche forze,
volenterosa, decisa a fare ciò che è bene;
e torna, attraversando le aiuole folte
di nuova erbetta, con quei suoi vasi pieni
d’acqua per quei fiori. Presto
anche noi, o dolce superstite, saremo
perduti in fondo a questo fresco
pezzo di terra; ma non sarà una quiete
la nostra, ché si mescola in essa
troppo una vita che non ha avuto meta.
Avremo un silenzio stento e povero,
un sonno doloroso, che non reca
dolcezza e pace, ma nostalgia e rimprovero,
la tristezza di chi è morto senza vita:
se qualcosa di puro, e sempre giovane,
vi resterà, sarà il tuo mondo mite,
la tua fiducia, il tuo eroismo:
nella dolcezza del gelso e della vite
o del sambuco, in ogni alto o misero
segno di vita, in ogni primavera, sarai
tu; in ogni luogo dove un giorno risero,
e di nuovo ridono, impuri, i vivi, tu darai
la purezza, l’unico giudizio che ci avanza,
ed è tremendo, e dolce: che non c’è mai
disperazione senza un po’ di speranza.

Appendice a “La Religione del mio tempo” – Una luce (PIER PAOLO PASOLINI)

Mauro Giovanelli – Genova
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