HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Carla Infante, 20 gennaio 2019, pensiero critico “PULSIONALE POESIA III MILLENNIO” 1a Edizione – Vertigo Edizioni srl – Roma

Vorrei rendere omaggio (avrei dovuto farlo prima) a uno degli Editor della pagina “Setteversi”, Mauro Giovanelli, che ritengo profondo conoscitore della letteratura e dell’arte italiana e internazionale. Singolare nella sua poliedricità, personalità non facile, direi rude e inavvicinabile per certi aspetti, ma sicuramente una delle più grandi penne in circolazione! Devo confessare, dopo aver letto il suo ultimo libro “Pulsionale – Poesia III millennio”, di essermi trovata di fronte a un capolavoro! Opera che contiene un ritratto della vita senza filtri, pagine in cui prosa e poesia si mescolano per raccontare l’amore o il dolore con la stessa intensità… nella sua lirica che segue, è esaltata l’importanza di avere un “grembo” in cui rifugiarsi la sera quando al ritorno a casa si ha bisogno di qualcuno cui svelarsi senza finzioni e trovare ristoro! A presto Mauro… grazie.
Carla Infante
Teacher presso Ministero Pubblica Istruzione

[…] Se non hai “quel” grembo
entro cui riversare ogni lacrima
delle tue ferite,
verso sera si va incontro a se stessi,
il pensare è compresso all’essenziale,
senza fronzoli né finzioni,
così che tutto
possa stare dentro l’abito mentale
predisposto all’ultimo,
eventuale fottuto viaggio,
e lo riporrai a ogni fottuta alba
fino a quando il sorgere del sole
ti dovesse comunicare
che un altro crudele,
fottuto giorno, sta per cominciare. […]
(Il mio grembo)

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Pamela Michelis, marzo 2022, prefazione a “SCRIVO A PASOLINI” – 1a Edizione Illeggìoanoveposizioni

«Il mondo non mi vuole più
e non lo sa.»

(Pier Paolo Pasolini)

Degli anni dell’università, ricordo con chiarezza molti esami ma in particolare la tematica di uno, il corso era “Letteratura italiana moderna e contemporanea” e verteva solo su Pier Paolo Pasolini. A pensarci oggi, mi tornano alla mente diverse situazioni – universitarie e culturali, di più ampio respiro – in cui Pasolini “spuntava fuori” in contesti di divulgazione che allora mi davano la sensazione di “qualcosa d’insolito”. Oggi, leggendo l’opera di Mauro Giovanelli, questo pensiero si è fatto improvvisamente chiaro e, con un po’ di pazienza da parte del lettore, proverò a spiegarlo meglio.
Il Professore ordinario – che, fra l’altro, scriveva anche per “L’Osservatore romano” – cuore nobile, fine e appassionato letterato, a una lezione disse, quasi sconsolato, che dopo Pasolini non esisteva più nulla; aveva da poco presentato un testo sul grande poeta in cui passava in rassegna alcune opere letterarie del Maestro collegandole a quelle cinematografiche, in particolar modo soffermandosi su “Petrolio”, ultimo, discusso, postumo e incompiuto lavoro. Ricordo con nitidezza la sua pubblicazione, le sue lezioni, e per come mi arrivasse, giovane studentessa, quella che ora potrei chiamare la passione degli incompresi, ossia il cercare di trasmettere un amore – a tratti venerazione – non tanto per un autore e l’eredità che ha lasciato, quanto per le idee, i messaggi che percepivo fossero stati recepiti dal docente alla maniera di un’illuminazione che, a sua volta, avvertiva l’esigenza di diffondere quale discepolo del profeta. Questo pensiero mi sembrò strano, forse eccessivo, non avevo ancora gli strumenti per materializzarlo diversamente (e correttamente). Teniamolo però un attimo da parte, ci tornerò.
Più avanti diedi l’esame, robusto e altrettanto bello, di “Storia e critica cinematografia”, ed ebbi la fortuna di sostenerlo con altro professore emozionato e profondamente amante del suo incarico allo stesso modo del mio primo insegnante. Fra i tanti libri e documenti da visionare era contemplato il monografico su Pier Paolo Pasolini, con le pellicole “La Ricotta”, “Accattone” e “Teorema”. Questi tre film, in diverso modo, mi avevano scosso, lasciandomi una profonda malinconia, percezione di perdita, anzi di smarrimento, come di abbandono, ed avevo faticato a lungo non tanto a capire, quanto a convincermi che potesse essere reversibile, cioè guarire, per come ero profondamente certa, all’epoca, che il riscatto, l’opportunità e il miglioramento fossero veramente alla portata di tutti. Un parallelismo mi ha fatto realizzare, più di quindici anni dopo, che non era il riscatto che dovevo cercare, ma un senso umano vero, che invece profondamente credo possa esistere di là dal contesto sociale. Ci sono arrivata con la visione di “Non essere cattivo” (2015) di Claudio Caligari, film dove, per tanti aspetti, ho ravvisato un filo di connessione proprio con “Accattone”, e non solo per gli scenari di una diversa Roma di borgata.
Questo apparentemente inutile preambolo, in realtà, dà la dimensione di quanto il testo di Mauro Giovanelli mi abbia colpito accompagnandomi in una riflessione più sincera e matura. Leggendo le sue pagine, infatti, mi è arrivato un dialogo intimo ed emozionante non solo con un letterato, un uomo, bensì con un’entità di pensiero; ho avuto l’esatta sensazione che Mauro Giovanelli arrivasse a Pasolini, ne oltrepassasse la carne e potesse scorgere, come con un terzo occhio in grado di percepire realtà situate oltre la visione ordinaria, un valore nascosto del Poeta, un moto interiore che, attraverso l’Autore, non smette di vivere per tutti. Lo vedo perché Pasolini, tra le sue parole, non è semplicemente capito o assimilato, neanche solo amato, è scrutato, analizzato, interrogato, contraddetto. È così che si costruiscono i veri e proficui rapporti, non accettando passivamente ma mettendo in dubbio, confrontandosi senza dogmi precostituiti, dunque attraversando a piedi nudi quella landa d’incertezze che abbiamo di fronte.
Ed ecco allora che prende vita un libro che accompagna il lirismo più puro a una prosa riflessiva, arguta, in cui opere diverse procedono su un binario comune, a costruirne uno immaginario di cooperazione divulgativa, perché se è vero che leggendo Pasolini una cosa mi è stata da subito chiara, ossia l’intento non solo di parlare di sé, bensì farsi portavoce, di tanti, dei molti, e di un mondo che si celava nel buio del non visto che, per quanto inesistente agli occhi della borghese quotidianità, prosperava in un mutismo, spesso sofferente, ma altrettanto carnale e viscerale nella sua apparente staticità.
È un dialogo ininterrotto quello che si viene a creare, un rapporto speciale che alcuni hanno la fortuna di provare quando ci si imbatte in un’anima con cui si coglie una sorta di affinità elettiva e che, il più delle volte pur senza saperlo, riesce a dare un’interpretazione al nostro sentire, alla nostra volontà (e necessità di sapere). Infatti, Mauro Giovanelli asserisce:

«Credo di essere entrato nella mente di Pasolini per il
semplice fatto che nel momento in cui ascolto la sua parola
essa s’incastra perfettamente al mio ragionare.».

E ancora:

«Ho scritto molto su Pasolini, “Io credo in Pasolini” quasi
fosse una preghiera, “Ultimo Messia” per assegnargli la
condizione (laica) che gli compete, e altre cose che tengo
per me poiché quando gli parlo mi sento libero e non
legato a stereotipi, modelli, stampi. Che cosa pagherei per
fare una chiacchierata con lui.».

L’intera opera è ricca di questi momenti che elevano ulteriormente il lirismo nascosto pure dalla prosa più cruda, sprezzante, per quanto sempre raffinata, poiché il messaggio che Mauro Giovanelli vuole comunicare è di ben più ampio sguardo, ossia togliere il poeta dalla teca degli sterili idolatranti di Pasolini – sul cui agire per divulgarlo e comprenderlo molto ci sarebbe da dire – e questo proprio per liberarlo e restituirci un’immagine affrancata, non quella iconoclastica che l’ha sostituito, in particolare dopo la sua morte, tanto discussa ma certamente per i motivi sbagliati, tralasciando quel lavoro fondamentale e del poeta e dell’uomo originario di Bologna ma friulano nelle viscere, che esula da congetture e pettegolezzi. Più avanti:

«Molti scrittori, direi un’infinità, si sono dedicati a scrivere
in merito alla morte di Pasolini, innumerevoli le ipotesi al
riguardo, comunque l’alone di mistero che circonda questo
grave delitto persiste fitto sull’immagine del suo cadavere
martoriato. Fra l’altro non si è mai arrivati a qualcosa di
concreto. In questo mio lavoro, all’opposto, considero il
suo massacro ineluttabile, scritto nelle pagine del destino,
cioè “dovuto” affinché alla sua figura, l’ingegno e il carico
sociale di cui si fece paladino, sia assegnata la condizione
di Messia, l’ultimo, un predestinato al martirio, come Gesù
di Nazareth e altri profeti.».

Ecco che torniamo a quella riflessione iniziale sul riconoscere un profeta. Credo che profeta possa significare molte cose, che vanno oltre il senso meramente religioso, è quella capacità di essere guida pur senza saperlo e volerlo, perché con la parola, la propria arte e con la propria esistenza si diventa faro, messaggio assoluto, e credo sia questo l’elemento che Mauro Giovanelli riconosce in Pier Paolo Pasolini, perché avvertiamo che il poeta sia vissuto e continua a essere tra noi per tramandare un ufficio importante, non potendo tenere scisso il suo piano quotidiano da quello emozionale e creativo. È una fusione centralizzante che, credetemi, non è scontata né di facile gestione. Nelle parole accorate che in più punti l’Autore rivolge allo scomparso scrittore, c’è proprio questa immensa forza prorompente, questo cercare, scavare senza sosta, e sempre al massimo della volontà, perché essa ci permette di lambire lidi sconosciuti, amare nella sofferenza e farne tesoro, bellezza, insegnamento, amore.
Ecco che:

«Dunque tu chi sei Pasolini? Perché ti soffermi a declamare
una tragedia tra le quinte di un palcoscenico inesistente?
Quanto sono tese le tue corde? Dove potrebbe arrivare la
sensibilità di cui ti nutri a ogni istante?».

Concludiamo proprio con questo climax interrogativo perché non potrebbe essere altrimenti, perché solo nel porsi domande continuamente – domande vere e spesso scomode – non spegneremo mai la fiamma della vera conoscenza.
Pamela Michelis

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Pamela Michelis, febbraio 2022, prefazione a “DALLA RISACCA” 1a Edizione “Illeggìoanoveposizioni”

«L’ottimista pensa che questo
sia il migliore dei mondi possibili.
Il pessimista sa che è vero.»

(J. Robert Oppenheimer)

Perché amiamo gli aforismi? Probabilmente per il piacere che ci dà il poter condensare un senso più ampio in una limitata perfezione. La bellezza dell’aforisma, infatti, risiede proprio in questo, nel fascino di un’espressione complessa e articolata custodita nell’essenzialità, nella brevità, nell’equilibrio, in quel morso rubato alla vita che tanto ci stimola e infiamma. Potremmo paragonarlo all’incanto del bacio nell’ardore della sua prima volta che riesce a essere infiniti colori e sapori tutti insieme, in questo caso stupendoci sempre, a ogni passaggio, vergine anche nel suo ripetersi.
Scrittore a tutto tondo, dopo la sua prospera esperienza letteraria nella poesia e nella saggistica, Mauro Giovanelli ha deciso di confrontarsi in questo campo solo apparentemente semplice e in realtà complesso, poiché richiede quel bilanciamento interiore e intellettuale non indifferente e soprattutto l’accuratezza d’idee e intenti in una padronanza linguistica incontrovertibile. Questa sua opera, dunque, ci arriva carica della nostra curiosità, poiché affascinati di sapere se la sua perspicacia poetica e la raffinatezza tipica del suo poetare possano riscontrarsi anche in questo contesto. Non rimarrete delusi, al contrario si resta imprigionati dalla verve tipica della sua scrittura che ancor più riscontriamo qui, nella scelta sopraffina delle parole, il loro musicale accostamento, il carico dell’esperienza uniti alla forte portata interpretativa maturata in anni di dimestichezza con la composizione più articolata.
Ecco, con questi suoi motti, adagi, spesso tradotti in dialoghi secchi, botta e risposta, racconto breve, Mauro Giovanelli si fa esegeta, perché riesce, con arguzia e mai sarcasmo, a centrare la questione, a proporre spunti di riflessione esistenziali e filosofici per gli orecchi di chi non si limiterà a leggerli semplicemente, bensì ne vorrà trarre prezioso spunto interpretativo per una più personale conoscenza.
Apprezziamo molto in quest’opera la decisione di lasciare gli aneddoti liberi, in ordine sparso, casuale, del resto la silloge è una raccolta di appunti, interrogativi e osservazioni anche lontani nel tempo. Evitare quindi di racchiuderli, come fanno molti, in aree tematiche è una scelta non solo azzeccata ma che denota come sia vivo e chiaro il loro senso più vero, quello di non essere legati a una schematicità o a un pensiero razionalmente fisso, bensì prediligere la necessità comunicativa, partorire maièuticamente non tanto l’idea quanto l’essenza. A farci compagnia, poi, è il gusto espressivo che da sempre accompagna Mauro Giovanelli, per cui la scrittura è qualcosa di talmente personale e intimo da potersi permettere una sfacciataggine con la parola ardita, l’iperbole più che temeraria, come si fa con l’amico di vecchia data, fratello e complice, a volte assumendo toni bruschi, fin troppo diretti, sovente provocatori, oltre il limite del pensare comune: La vera libertà nei “rapporti” di qualsiasi tipo è non doversi mai scusare della sincerità, un legame, il loro, di lunga data, proficuo e appassionato.
Pamela Michelis

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Pamela Michelis, ottobre 2021, prefazione a “SETTANTANOVE SCRITTI O GIÚ DI LÌ – Vita, amore, morte, i soliti discorsi… SEVENTY-NINE WRITINGS OR THEREABOUTS – Life, love, death and the usual…” 1a Edizione “Illeggìoanoveposizioni”

Cosa ci spinge a scrivere poesia? Noi crediamo sia la necessità di dare forma spirituale alla sequenza di parole, restituire al pensiero il candore di una rosa, la morbidezza di un petalo, la soavità del profumo di un giardino in fioritura. La poesia è, in fondo, un bocciolo dell’anima e, proprio come l’omaggio floreale, sa essere dono inaspettato e forse, proprio per questo, maggiormente gradito. Ogni verso è bellezza unica che arriva al cuore e lì rimane perché eterno, non nell’immobile restare a memoria, ma nel rinnovarsi costante nell’animo del lettore che decide di farlo proprio, di assorbirne la linfa infusa dall’Autore nell’atto della creazione.
La poesia è trionfo ed eredità, è decidere di lasciare la parte più nobile di sé non solo a una discendenza di sangue ma anche a coloro che semplicemente varcheranno le porte di questa vita dopo di noi.
Mauro Giovanelli ama la poesia, la accudisce, la cresce, la vivifica, la immortala, persino la santifica quando decide di farne elemento sacro, non solo da venerare ma da proteggere e amare sopra ogni cosa. È per questo che nel corso della sua vita, ha dedicato a essa gran parte del suo impegno, anzi, della sua dedizione, e se è stato capace di dare alle stampe diverse raccolte, ora è pronto per un progetto più complesso, più intenso, realizzare appunto un’antologia delle sue opere arricchita da testi esclusivi, ciò che siamo qui oggi a presentarvi insieme a brani in nuova edizione già pubblicati.
“Settantanove scritti e mezzo – Vita, amore, morte, i soliti discorsi…” è il titolo di quest’ambiziosa raccolta, valorizzata dalla traduzione in inglese a fronte, per cui il titolo aggiuntivo “Seventy-nine and a half writings – Life, love, death and the usual…”.
La raccolta contiene testi di “Pulsionale, poesia III Millennio”, 1a e 2° edizione, e “Le tessere del pàmpano”, entrambe Vertigo Edizioni, oltre a recenti produzioni inedite, quali Il cimitero delle api, Pulsione, Ti amo, L’altra faccia di Giacomo Leopardi (Ancóra), Il tuo spessore, Quel che resta, Riproverò, Annichiliti, Tomba bisoma per citarne alcune.
A colpirci, negli scritti precedenti, c’era stata un’innata poliedricità, capace di esprimersi con un verso sorprendente, “attivo”, nel modo di organismo vivente privo dell’intenzione d’adagiarsi semplicemente sulla pagina ma in grado di rifulgere a ogni tocco, sguardo, come se da questi traesse nutrimento e al passaggio del lettore facesse sbocciare un nuovo elemento interpretativo. In Pulsionale (1a edizione), per esempio, a questo discorso si affiancava anche un elemento artistico aggiuntivo, poiché il testo era stato arricchito da quelle che ci piace definire impressioni d’arte «…riproduzioni inserite dall’Autore di opere presenti nella sua collezione privata, immagini familiari storiche, foto da lui stesso scattate e altre universalmente conosciute per il loro valore artistico…» (dalla Prefazione alla prima edizione). Tale pubblicazione, dunque, è stata un’esperienza pregnante, come se Mauro Giovanelli avesse voluto farci sentire circondati dalla lirica e dall’arte, avvolti dalla bellezza, alla maniera di un abbraccio sensuale e affettuoso allo stesso tempo, un caldo invito a stringerci al riparo delle sensazioni sotto la portentosa protezione della creatività che emoziona, e lasciarsi trasportare in un mondo sconosciuto, accogliente come nessun altro mai.
A traghettarci nei successivi lavori, fino a “Le tessere del pàmpano”, la sottile capacità intellettuale dell’Autore che affonda le sue radici in una conoscenza che non è didascalica ma appassionata, dunque vera e sincera, ricca di stimoli e instancabilmente “vogliosa” di nuove scoperte, inesauribile sete di comprensione. Proprio quest’atteggiamento è ciò che gli ha permesso di dare voce a un’esigenza nata in concomitanza ai tragici eventi vissuti negli ultimi diciotto mesi, un periodo che sembra drammaticamente lungo per l’impronta lasciata su tutti noi e che ancora oggi non siamo capaci di tarare in base alle nostre esistenze attuali. Ed è con questa silloge che Mauro Giovanelli dimostra non solo capacità adattative da un punto di vista artistico ma anche spiccata propensione di rimanere al passo con i tempi ed esserne innovatore, cercando nella poesia l’esatto spunto per salpare alla ricerca di esperienze incisive frutto di un’urgenza vigorosa che nasce sì dal disagio, ma anche da quell’innata capacità dell’uomo di non fermarsi alle difficoltà e superarle, anche quando sia ancora impossibile comprenderne l’effettiva portata. È, in fondo, quella resilienza che s’invoca in continuazione, ma a pochi è data la capacità di metterla in pratica.
I nuovi componimenti non giungono inattesi – come si può, infatti, arrestare l’onda creatrice? – ma necessariamente accolti, perfino voluti, fiduciosi che pure questa volta l’Autore sarebbe stato capace di offrire un apporto sincero e produttivo al nostro desiderio di ascolto. Infatti, il florilegio interno alla raccolta spazia in un’espressività strutturale varia; alcune, per esempio, molto vicine alla prosa (pensiamo a un testo come “Il tuo spessore”, di cui riportiamo alcuni passaggi) con un verso più lungo, articolato, energico flusso di coscienza che necessita d’infiniti elementi, quasi fossero appigli di senso per una rapidissima scalata alla consapevolezza. Da lettore ci si sente partecipi di un breve monologo fatto nella solitudine della propria anima ma con l’ardente desiderio che sia condiviso con chi sappia realmente ascoltare.

[…]
… sai, alla fine una cosa m’è rimasta impressa, non ci crederesti, anch’io
fatico a spiegarmi, neppure saprei in che modo descriverlo, o rispondere al
perché mi ricordo quel pomeriggio assolato, cicaleccio lontano, luce fredda
e tagliente del giorno, insomma voglio dire, tu stavi seduta su un sasso a
margine del sentiero, aria sbarazzina, ginocchia unite, piedi divaricati,
calzini bianchi, lo sguardo, ma non è questo, è quando ci coricammo sul
prato, io ti venni sopra, mai potrò dimenticare il morbido spessore, sì la
consistenza del tuo corpo
[…]
(Il tuo spessore)

A questi brani si affianca una scelta più contenuta, minimalista, quasi aforistica che intende scandagliare il significato primordiale dell’uomo, come se l’interrogativo sul mistero della vita si fosse fatto impellente e non più procrastinabile. Sentiamo che l’idea stessa dell’essere uomini è stata ribaltata, non semplicemente stravolta, e percepiamo forte questa ricerca del nostro posto nel mondo.

[…]
La domanda non è
“Che cos’è l’universo?”,
la domanda è
“Io ero previsto? E perché?”.
[…]
(A caso)

Anche:
[…]
È poeta chi scrive sotto dettatura di un alto principio convertendone l’idioma a lingua universale. […]
(È poeta…)

La scelta di una metafora potente come quella dell’ape operaia nel componimento “Il cimitero delle api” è rappresentativa: la forma di vita che più simbolizza l’insetto verso un’agonia lenta che sembrerebbe inarrestabile per mancanza di volontà da parte di chi potrebbe fare qualcosa, rabbia e impotenza che si uniscono in una desolazione che sfiora i lidi stessi di quella umana, e viene da chiedersi se si stia parlando solo delle api e non di ciascuno di noi, in una simbiosi che è fratellanza ancestrale. Rimane una sensazione struggente e cruda nel lettore ma che non sovrasta
la consapevolezza di possedere la chiave per superare tutto questo, è il desiderio di un mondo migliore, è quella stessa poesia cui affidiamo i nostri messaggi e che desideriamo divulgare, come un volo d’api, a portare polline salvifico ovunque, pure nello spazio siderale che l’Autore apre alla vista:

[…]
Nulla so di te, distante la tua luce,
mentre perviene, narra il passato,
ma del tuo fulgore assorbo ogni stilla,
mi disseta e fortifica,
sorgente di vita indica la via
da seguire per annullare spazio fra noi,
così da annichilirci all’infinito
in una sola sostanza ogni volta
più lieve nel liberare energia.
In virtù di un principio ignoto
sei destinata a me,
il resto è vuoto.
[…]

Non di rado la visione del mondo di Mauro Giovanelli lambisce le equazioni matematiche, le leggi della fisica, ma non in un sistema che intenda ridurre di significato il sentimento e l’anima, al contrario per dargli respiro, esaltarli nel tentativo di possederne la formula. L’Autore si annida nei meandri del Cosmo senza perdere il filo che gli consenta di tornare sulla Terra, è una figura ricca di complessità ma sicuramente uomo coerente nel suo pensiero, la cui prosa si getta e si riversa sui fogli come un fiume. Ogni suo libro è una summa di molteplici elementi che necessita anche di pause di riflessione, rilettura, e il loro insieme vanno a plasmare un quadro articolato dove i temi universali di vita, amore e morte si muovono in binari talvolta distinti, talvolta amalgamati con sapiente tecnica e padronanza di stile.
Buona lettura, e buon viaggio.
Pamela Michelis

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Monica Vendrame, luglio 2017, per “RASSEGNA PREMIO NAZIONALE DI POESIA” Atlantide Edizioni

Per il suo ingegno e per il suo impegno professionale ampio e multiforme, che gli hanno consentito di percorrere, con successo, anche i sentieri dell’arte, garantendogli altresì l’acquisizione di una vasta conoscenza della natura umana. La sua vita è stata accompagnata da una continuità di ricerca che, dispiegandosi in tanti campi di studio, ha privilegiato il suo percorso di intellettuale illuminato e profondamente sensibile al fascino della poesia e della letteratura. Personalità di grande spessore culturale ed umano, ha coltivato i valori più importanti della vita e si è interessato, con serietà e competenza, alla storia e alla cultura di tanti popoli e tanti Paesi del mondo.
Monica Vendrame – Presidente della rassegna

Onorato e commosso del prestigioso “Premio alla carriera” che benevolmente mi è stato assegnato ringrazio di cuore l’estensore delle parole spese nei miei riguardi. Per quanto concerne l’aspetto “umano” sono emozionato e sbigottito nel constatare quanto questa persona mi conosca profondamente. Chiunque sia la abbraccio con affetto. Esprimo particolare gratitudine a Monica Vendrame e Fiore Sansalone e nel salutarli desidero rimarcare la profonda stima e amicizia che nutro per loro.
Mauro Giovanelli – Genova

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Monica Vendrame, Fiore Sansalone, Eugenio Maria Gallo In merito alla lirica “Spaventapasseri”, 1 dicembre 2016, 1a Rassegna Nazionale “Apri il cuore alla poesia”

«Un canto filosofico, si direbbe un canto di ricerca teso a rispondere al bisogno di conoscere il senso dell’oltre e, in primis, di cogliere e capire anche il senso dell’esserci, dell’essere. È con questa ansia di sapere che il poeta si rivolge alla “donna amata” quasi a volerle carpire il senso dell’abitare dell’uomo nell’universo o, meglio, tra “le grandi masse celesti” e “le particelle elementari”, cioè al centro del “Tutto”. E mentre si tende alla ricerca del “varco” per l’eterno trova pace alla propria ansia nella natura e nella serenità che proviene dal contemplarla».
Monica Vendrame, Fiore Sansalone, Eugenio Maria Gallo

Spaventapasseri

Non saranno certo coloro che hanno fede,
essi dicono, a farmi desistere dal cercare
la risposta, individuare la meta stabilita
dalla notte dei tempi. Pure dal mio osare
voler intendere il presupposto d’esser qui,
tra la prescelta folla dei contendenti.
Gli indagatori dell’ulteriore vengono
definiti sciocchi e superbi dai drogati
di antiche e incongrue narrazioni,
nel convincimento di essere stati eletti
alla conoscenza, chissà da chi e perché,
a tal punto da imbalsamare loro la mente, il cuore,
l’anima, lo spirito. Congelati nell’inerzia.

Dunque a te, donna amata, venerata
desiderata, dico solo, non lasciarti sedurre
da ingannevoli, primitivi miraggi, impedisci
che la notte ci avvolga, avvinghiamoci nella
nostra illuminata singolarità, tu sei me.
La disattesa promessa di aver separato la luce
dal buio è illusoria, da sempre il grande
splendore è compagno di ciò che fatalmente
ci lasciamo alle spalle e tenendoci per mano
rischiara il percorso imboccato,
non smorziamolo, impediamo alla vita
di ottenebrare il tempo che ci appartiene,
scambiamoci baci, abbracci, carezze, i corpi.

Impossibile sfidare l’enigma in solitudine.
Già te lo dissi amore, siamo misura
di riferimento dell’Universo?
Se le grandi masse celesti interagiscono
obbedendo a regole certe e le particelle elementari
non soggiacciono ai medesimi principi
abitiamo noi fra queste due grandezze?
Saremmo quindi al centro del Tutto?
E procedendo nell’infinitesimale o nell’immenso
arriveremo a scoprire altre entità di mezzo?
La somma degli interi positivi fino all’incomputabile
genera un numero più piccolo di ciascuno di essi,
per di più negativo. Ciò potrebbe indicare stravolgimento
di ogni precetto? Un domani senza confini?
Voglio condurti nell’inesauribile, donarci eternità.

Immerso in questo pensare eccomi giunto nell’ospitale spiazzo
dove avverto gli aromi del nostro primo, sregolato prenderci.
Ora finissimi steli d’erba formano un morbido tappeto,
gli umori che un giorno remoto abbiamo disperso
in questo terreno gli hanno dato nutrimento.
Ruoto su me stesso e siedo sfinito ai piedi della quercia,
sguardo fisso verso l’attraente, soleggiata radura,
gambe raccolte, avambracci sulle ginocchia,
mani abbandonate. Indicibile tristezza non veder più
lo spaventapasseri, nessun sfarfallio piumoso di corvi
che gracchiando si alzano in volo, la natura è ferma.
Nell’accendermi una sigaretta, smanioso di assurda
malinconia, gli occhi vanno oltre,
al distante pendio che chiude il cerchio,
indugio a lungo nel contemplare i ruderi
di quella discosta abbazia.

© 2016 Mauro Giovanelli – “Tracce nel deserto – Poesie e varie riflessioni”

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Pamela Michelis, dicembre 2020, prefazione a “PULSIONALE POESIA III MILLENNIO” 2a Edizione – Vertigo Edizioni srl – Roma – VEDERE “PULSIONALE POESIA III MILLENNIO 3A EDIZIONE PUBBLICAZIONI “ILLEGGìo A NOVE POSIZIONI”-

È sempre incantevole ritrovare un’opera di Mauro Giovanelli, leggerlo è come riscoprire il viaggio creativo sedimentato nella nostra mente, nel modo di un apparente letargo che aspetta solo d’esser sollecitato – o solleticato – per riprendere vita, inebriarsi di nuovi approdi e scoprire inedite possibilità espressive. I suoi componimenti sono caleidoscopiche opportunità per essere rapiti da un vortice poliedrico che non segue mai un’unica intuizione, si fa piuttosto guidare da una voce lontana – Musa ante-litteram – capace di emergere, di volta in volta, da angoli diversi, attimi di luce sorgente quasi fossero comete.

[…]
Alzo lo sguardo al Cielo,
m’interrogo,
definisco l’orizzonte,
il canto della risacca
scompiglia ogni certezza,
abbasso gli occhi,
l’ombra di un gabbiano
dà percezione di tremolio dei sassi
e svanisce nel vento.
Invano l’ho seguita
per guadagnare tempo. […]
(Sum)

Ci troviamo di fronte a un’avventura dei sensi e per i sensi, tenuti desti dallo scorrere di pagine che non ne prediligono mai uno solo, scegliendo di mescolarli fra loro, inebriando il lettore di un appassionante discorso, un harem elegiaco di godimento intellettuale ed estatico. Ogni brano è come il gioiello forgiato dalla passione creativa del poeta, che non si limita a trasmettere alla materia (in questo caso le parole) un significato, ma lo compenetra, plasmandolo a un’esigenza di possessione letteraria per fondersi in un vero e proprio godimento creativo, intensa voluttà espressiva.

[…]
Verso sera…
si comincia a vivere o morire,
fare l’amore
o la notte accanto al congiunto in coma,
in attesa dell’alba
che vedrà esecuzioni di sorelle e fratelli.
Verso sera
sai che il tuo pensare
ti aspetta più agguerrito che mai,
potresti trascinarlo fino al sorgere del sole,
annuncio che hai superato l’ostacolo
e il fardello comincia a pesare
sull’altra parte di mondo. […]
(Verso sera…)
E se il vigore delle immagini descritte colpisce quanto la tela più raffinata, il sotto-testo della creazione e l’elegante contestualizzazione letteraria trascinano il lettore nel vortice della percezione coinvolgendolo in un vero e proprio sabba dell’inventiva da cui è avvolto nell’accezione più compiuta, profonda, quella che lega indissolubilmente l’arte alla vita in uno scambio emozionale continuo, e negli attimi in cui siamo chiamati alla più intima riflessione si nutre anche di eccessi e raccoglimento.
È bene notare che nella silloge non troviamo riverberi di una sola vita, ma più esistenze che s’incrociano: da una parte quelle vissute dallo stesso autore, dall’altra ogni germoglio generato dall’attenta osservazione del reale, raccolti nello spettro di un immaginario senza fine, sussurri, sguardi, letture, percezioni, un incontro, il bacio che ci ha tolto il respiro per un attimo, per sempre; segnali indelebili che hanno influenzato l’animo e la genialità dell’artefice.

[…]
Attenta alle mie parole
hanno perso sostanza
potrebbero affascinarti
come sempre
ma sono menzognere
non per volontà loro
del mio pensare
ha preso il sopravvento
va per conto suo
non ne ho controllo
valgono solo il momento
in cui le pronuncio
e subito dopo
pur nel rimpianto
mi accorgo che già
hanno cambiato gioco. […]
(Rinuncia)

Caro lettore, immergiti in questa raccolta, immagina d’essere su un picco a strapiombo nel mare dell’intelletto e tuffati fra le pagine in burrasca, ti accoglieranno – stanne certo – in un abbraccio fecondo, per condurti sulle più belle spiagge dell’ingegno umano.

Pamela Michelis

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Pamela Michelis, agosto 2020, prefazione a “LE TESSERE DEL PÀMPANO” 1a Edizione – Vertigo Edizioni srl – Roma – ORA IN COMMERCIO LA 2A EDIZIONE pubblicazioni “ILLEGGìOANOVEPOSIZIONI”

Questa nuova silloge di Mauro Giovanelli ancora una volta sorprende per la sua modernità, per la capacità di sapersi adattare ed esprimere, attraverso le parole, il profondo disagio che nasce da uno sconvolgimento emotivo improvviso e del tutto improbabile. Ciascuno di noi è cosciente di quanto questi primi mesi del 2020 abbiano avuto un impatto devastante sul nostro essere persone. Senza entrare nello specifico di tante, tantissime situazioni drammatiche che hanno coinvolto ogni aspetto della vita, quello che probabilmente accomuna tutti è il profondo senso di smarrimento, uno sconquasso che affonda le radici nelle paure più sedimentate del nostro animo, che hanno trovato la via per l’esterno, smosse dal terremoto degli eventi attuali.
Se le precedenti opere di Mauro Giovanelli ci avevano portato in una creatività poetica multiforme e liricamente sofisticata, ora ci troviamo di fronte a un nuovo modo di fare poesia, urgenza comunicativa che scardina gli stilemi autoriali e sembra anticipare un’ulteriore, feconda
evoluzione che darà altri frutti solo quando tutto ciò sarà completamente assorbito e rielaborato, sebbene già ora ci lasci senza parole:

[…]
Ciò che accompagna alla fine non è tanto la vecchiezza
quanto una sorta di crisi di rigetto, sociale ancor prima
che naturale, spirituale piuttosto che materiale, che
produce senso di esclusione dalla vita perciò causa
dell’inaridimento dei tessuti, originato più dalla crescente
percezione di eccezionalità ad essere partecipi di questo
mondo che dal fisiologico deperimento. […]
(Crisi di rigetto)

… dall’altra percepiamo la scomparsa totale di una patina temporale che affondava le radici in un tempo passato, necessario in quel frangente poetico, ma ora superato da una immediatezza potremo dire post-moderna:

[…]
Ed è stata un’altra stagione,
ancora,
ed è come non l’avessi vissuta,
la transitorietà…
aggrinfiato a suoni dissonanti,
poi un canto,
fugace,
delizioso,
e via,
di seguito,
più intenso,
forse,
andare avanti per non morire […]
(Piano Forte)

A farla da padrone in questa raccolta è una sorta di poesia-verità, versi a metà strada tra un intento aneddotico e uno drammatico, che vuole essere più immediata senza abbandonare l’avvincente armonia della parola scelta in funzione della più complessa e articolata espressività. Se una sorta di stato di crisi ha messo in discussione la nostra identità, solo combattendola – destrutturandola – la si potrà vincere, preferendo appunto una “discordante armonia” di struggente bellezza ad una certezza più classicheggiante:

[…]
Se Gerusalemme fosse inizio e fine del Mondo mi domando
dove dirigerci, quale parte dell’universo esplorare per
giungere nella città in cui le cose abbiano un senso,
dimora della verità, così da incontrarla alle fermate della
rettitudine, parlare con lei d’innumerevoli soli che sorgono
e muoiono, ricordare insieme le battaglie, quando lunghe
carovane di certezze s’incrociavano, superare passato
presente e futuro di ogni estensione dell’abisso, divenire
creature senza tempo. […]
(Gerusalemme)

Non siamo più solo di fronte alla poesia come finalità creatrice e forma letteraria, ma anche nella veste di “dispensatrice di senso” quando sembra non essercene più possibilità; le pagine che si susseguono, dove ai versi si affiancano testi in apparente prosa, sono l’evoluzione della letterarietà che s’inoltra in un futuro sempre più in grado di mescolare le suggestioni, dando vita a una nuova forma d’arte, a conferma che ogni crisi è opportunità di rinascere in una dimensione ancora più pura.
Pamela Michelis

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Alessandro Arvigo (Alex), Palermo (Italia), prefazione a “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” 1a Edizione – giugno 2019 – Vertigo Edizioni srl – Roma – ORA IN COMMERCIO EDIZIONE 8 PUBBLICAZIONI “ILLEGGìOANOVEPOSIZIONI” SU ILMIOLIBRO.IT

Yuzaf non è asceso al cielo come c’è raccontato. In cerca di una risposta impossibile, almeno quanto lo sarebbe stato il dubbio che lo avrebbe colto durante il supplizio, lamentando l’abbandono del Padre, ha invece continuato a vagare tra le dimensioni del reale e del fantastico. Questa la sua missione, la croce alla quale sembra condannato dalla stessa natura di cui è composto, che gli fa incontrare altri “inverosimili” come lui: Corto, Srinivasa, Ramòn, Judex, dando vita a una ratatouille filosofica in salsa spirituale, insaporita con un melting pot delle migliori spezie antropologiche, raccolte dall’Autore ai crocevia della vicenda umana, nella sua mente, lungo le sconfinate praterie dell’investigazione fantastica.
Bene e Male, Divino e Umano, sono le invisibili sbarre della gabbia di Mānī che imprigionano il pensiero di Yuzaf nella speculazione dell’Oltre, lo costringono a surreali dialoghi con personaggi della storia e della fantasia che cucineranno a fuoco lento le convinzioni del lettore fino a dissolverle con la sola spiegazione alla nostra portata.
Le molecole letterarie dell’opera sembrano formate da atomi privi di legami, gli elettroni saltano dall’orbita di un nucleo all’altro, collidono, rilasciano quanti di energia che riempiono di tracce luminose l’etere della narrazione: preziose indicazioni che, per il lettore attento e motivato dalla ricerca terrena e spirituale, rappresentano la segnaletica del sentiero che conduce a concepire l’inspiegabile.
La ricostruzione storica e filosofica della religione sotto l’aspetto di “urgenza esistenziale” è accurata, onesta, priva d’intenzionalità alcuna di negare o affermarne l’esattezza, lasciandoci liberi di manovrare il leggìo a nostro piacimento per interpretare i manoscritti che su esso si alternano e incrociare lo sguardo del topo al fine di rispondere come possiamo a una domanda priva di senso: “Qual è la verità?”.
Alessandro Arvigo (Alex)

Premessa dell’Autore:

Questo racconto è la naturale prosecuzione di “Ecco perché Juanita”, antologia elaborata nel 2012, certamente originale nella composizione al punto che non trovavo termini adatti a definirla. Per descriverne la “costruzione” decisi di utilizzare il verbo “comporre” vale a dire “mettere insieme varie parti allo scopo di costituire un tutto organico” ovvero “produrre, realizzare un’opera di carattere letterario o artistico in generale”. Conclusi che il termine più adeguato a designarla fosse proprio “libro” intendendosi con tale parola “volume di fogli cuciti tra loro, scritti, stampati o bianchi”. Desidero ricordare che la parola “bibbia” significa insieme di generi letterari diversi. Non è casuale che “biblia”, dal greco “biblos” (corteccia interna del papiro che cresce sul delta del Nilo utilizzata per produrre materiale scrittoio) sia un plurale che indica l’insieme di opere scritte e narrate (nella Chiesa greca dell’epoca di Giovanni Crisostomo si cominciò a usare l’espressione “Ta Biblìa”, che significa “I libri”). Infatti, il Vecchio e Nuovo Testamento sono compendi di elaborati vari per origine, genere, compilazione, lingua e datazione, prodotti in un periodo abbastanza ampio, preceduti da tradizione orale difficile da identificare, racchiusi in un canone stabilito dagli inizi della nostra era. In parole povere la prima grande raccolta, copiatura e forse pure sofisticazione della storia.
Tornando a “Juanita” dico che l’idea della sua realizzazione s’insinuò nella mia mente quando decisi di riunire diversi e preziosi frammenti della letteratura (sottotitolo “arabesco letterario”) di circa cinquanta autori e un centinaio di brani e citazioni disponendoli all’interno di una narrazione secondo il mio gusto. Occorreva solo la base di appoggio. Quale migliore “cronologia” potrebbero regalarci altri capolavori che non siano “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” del grande Saramago, seguito da “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov per agganciarlo a “Il Procuratore della Giudea” di France e concludere con “Il Grande Inquisitore” di Dostoevskij? Nessuna, un’avventura lunga 1700 anni.
Saramago descrive la vita di Gesù con un’autenticità da lasciare senza fiato, ineguagliabili lo stile e la prosa. Nel suo Vangelo neppure è sfiorata la personalità di Ponzio Pilato perché marginale al messaggio che l’autore ci ha compiutamente trasmesso. Per approfondirne la figura siamo quindi costretti a immergerci nelle strabilianti pagine di Bulgakov dove il procuratore della Giudea è assalito dal rimorso per una condanna decretata suo malgrado; la collera verso se stesso lo dilania, realizza di essere entrato nel mito dalla porta sbagliata e la sua ignavia (qui ci sarebbe da discutere) lo inchioderà per sempre nella penombra del porticato, dietro la brocca del servitore che versa l’acqua sulle sue mani sudate. Che ne sarà di lui? Allora lo seguiamo nell’epico “Il procuratore della Giudea” di Anatole France dove, vecchio e dolorante, si reca ai Campi Flegrei per curarsi la gotta che lo tormenta. I tempi del fasto e del potere li ricorda con il fedele e ritrovato Lamia che, riferendosi al Cristo, gli chiede: “Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?” ed egli “Gesù? Gesù il Nazareno? No, non ricordo”. Non ricordo… Perché? Amnesia senile? Inconscia rimozione di una rievocazione ostica? Menzogna? Indulgenza divina? Non lo sapremo e il Gesù de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskji, che chiude il mio saggio, non dice alcunché in proposito. Essendo stato vano il sacrificio estremo, Egli torna in questo mondo per riparare l’errore sennonché, riconosciuto e incarcerato dal Grande Inquisitore, non pronuncia una sillaba durante l’eccitazione verbale dell’aguzzino che a sera si reca nella cella per comunicargli la condanna al rogo. Il confronto tra i due si trasforma in un delirante monologo del prelato.
Che cosa rappresenta l’unica risposta del Nazareno, il bacio sulle labbra del suo persecutore con cui suggella il loro incontro? Quali potrebbero essere stati i pensieri di Yuzaf nel momento in cui, graziato per tale gesto, si diresse verso nuovi orizzonti? Dove sarà andato? Che panorami gli si apriranno? Come esplorerà l’intrico che custodisce l’oggetto della sua ricerca? La reinterpretazione delle Scritture? Il leggìo a nove posizioni?
Mauro Giovanelli – Genova

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Me medesimo, prefazione a “ECCO PERCHÉ JUANITA” Arequipa, Perù, 28 ottobre 2011 – Genova, 27 gennaio 2012 1a Edizione Illeggìoanoveposizioni, 27 gennaio 2012 Volume non in vetrina

Alcune considerazioni su questo lavoro. Due righe su di me.

Potrebbe essere una buona antologia. Oppure una cosa insensata. O una tesi, un componimento, anche una favola. Comunque credo sia una discreta idea. Specialmente quando nasce da un’esigenza che è difficile spiegare. Credo, però, di conoscerne la causa: una memoria eccellente (solo per ciò che trovo interessante) che mi accompagna ovunque. Lo strumento invece sono le buone letture, mie fedeli amiche fin dall’infanzia merito l’educazione ricevuta da mamma, papà e la sorella maggiore. Quindi da “Pinocchio”, “Il capitano di quindici anni” o “Il corsaro nero” piuttosto che “Il barone di Munchausen” e “Il tesoro della Sierra Madre” sono precocemente saltato, usando i punti di appoggio dei Cronin, Vicki Baum e l’indimenticabile “Il villaggio sepolto nell’oblio” di Theodor Kròger, ai Melville, Cervantes, “La saga dei Forsyte” poi ancora “L’amante di lady Chatterley” e tanti altri della famosa superba collana Omnibus Mondadori. Ricordo benissimo quanto ero attratto dalle illustrazioni delle copertine. Approdare poi, in breve tempo, ai Calvino, Cassola, Moravia, Pratolini, Fenoglio, Pavese, seguire le tracce di Hemingway e Caldwell per passare ai “maledetti americani” del calibro dei Ginsberg, Burroughs e Kerouac è stato facile perché inevitabile. I dissociati da questi ultimi, o “seconda generazione”, quelli del tipo Bukovski, Henry Miller, Fante tanto per intenderci, hanno avuto un particolare irresistibile fascino, la mia personalità ne è stata influenzata non poco. Sbarcare sui classici russi, i francesi Camus, Mauriac e Sartre, i tedeschi tipo Gunter Grass, il portoghese Fernando Pessoa, i latino-americani della statura di Márquez, gli ebrei americani alla Philip Roth, i Cormac McCarthy… è stato utile per sfociare infine nella filosofia alla ricerca di risposte impossibili. Per quelli della mia generazione Marcuse è stata una tappa obbligata. Se aggiungo che il 27 febbraio 1945 sono nato a Genova dove risiedo, sono sposato, ho due figlie, due splendide nipotine, Lucrezia e Angelica, ho fatto diversi lavori che in fondo non mi piaceva fare e ho avuto incarichi e mansioni di responsabilità che non avrei voluto avere, ecco che ho anche completato la mia biografia.
Questo non è un libro nel senso stretto del termine, cioè, tanto per restare in tema, una “creazione” nata dall’idea buttata giù dall’estro di una persona che vuole raccontare una storia. Neppure lo classificherei un saggio, anche se gli somiglia. Lo definirei, come dice il sottotitolo, un “arabesco”, un “ordito”, una “mescolanza” dei pensieri di diversi autori che, a mio avviso, hanno affrontato l’unico vero tema sensibile dell’umanità le cui ramificazioni s’intrecciano con la lotta tra il Bene e il Male, la ricerca del destino dell’uomo, il significato della sua presenza in questo immenso spazio, l’enigma del fine ultimo, il rapporto con le Chiese e le religioni imperanti. Tutto quanto visto da angolazioni diverse ma sempre convergenti su questi ossessionanti interrogativi.
La sua “costruzione” non è stata semplice per i motivi che spiegherò più avanti. Per gli autori geniali qui citati è sicuramente meno difficoltoso edificare ex novo partendo dalle fondamenta piuttosto che assemblare perfette opere architettoniche come in questo mio modesto lavoro.
C’erano una volta quattro grandissimi scrittori, Saramago, Bulgakov, France e Dostoevskij, che, fra tutte, hanno composto in particolare quattro opere da sembrare fatte apposta per essere messe in fila una dietro l’altra al solo scopo di realizzare una profezia. Ho ritenuto che la loro unione potesse tradursi in un nuovo Vangelo, ovviamente apocrifo, oppure in un romanzo lungo di fantascienza. La cronologia è perfetta. Allora l’impulso è stato irrefrenabile. Mi si era insinuata una spina nella mente e dovevo assolutamente toglierla. Era maturata in me la convinzione che in un modo o nell’altro gli Autori avessero un comune denominatore che è poi di tutti, compresi quelli che dichiarano di esserne esenti, cioè la ricerca di risposte ai troppi dubbi che la vita impone. Questi quattro scritti, stavo dicendo, sono stati creati apposta per coniugarsi tra loro. Almeno così mi è sembrato. Come se gli ideatori avessero stretto un patto segreto. Congruenti gli accadimenti che vi si narrano, i diversi stili irreprensibili, sublimi, non potevo fare a meno di realizzare l’intreccio. In conclusione: mi erano stati forniti i pezzi per mettere insieme questo gioco d’incastri e ho assolutamente dovuto lavorarci sopra per vedere come sarebbe stata l’opera finita, e poi che occasione unica aver la possibilità di poter mettere in bocca a Dio, Satana e Jeshua le risposte alle domande che ci poniamo. Non avevo alternative. Tra l’altro ne intravedevo l’utilità per il potenziale lettore, come se per lui dovessi posizionare uno scivolo per invogliarlo a calarsi nel mondo della letteratura e filosofia con estrema facilità e renderlo partecipe degli stessi quesiti che questi scritti hanno insinuato nella mia mente. A questo scopo, per dirne una, del vangelo di Saramago ho evitato di citare la grandiosa descrizione dell’incisione del Dürer sulla crocifissione, roba da palati finissimi, per affrontare direttamente il “racconto” vero e proprio. Così, senza preamboli, al fine di catturare da subito l’attenzione e la curiosità dell’anonimo e paziente interlocutore. In generale una “storia” suscita maggiore interesse che l’analisi, eccelsa, di un’opera d’arte. E questa è una vera storia, anzi la storia.
In totale gli scrittori, poeti, registi, filosofi riportati, sono una cinquantina, autentici giganti della cultura mondiale. I quattro che costituiscono la spina dorsale dell’intero percorso già li ho nominati, gli altri, dei quali ho raccolto i riverberi, li incontrerete di volta in volta. Per ciascuno ho riportato i vari riferimenti fin dove la memoria mi ha aiutato. Sto lavorando a questo libro da qualche tempo, adesso che l’ho terminato, mi lascerà un gran vuoto. La “costruzione” ha richiesto diversi aggiustamenti per poter “incastrare” adeguatamente e coerentemente la cronologia e gli avvenimenti narrati nelle opere degli autori che ne costituiscono le fondamenta. Ho dovuto quindi prendermi qualche licenza e tante libertà. In concreto e in ordine sparso:
La conclusione del dialogo tra il cavaliere di ritorno dalle crociate e la morte l’ho adeguata allo spirito di tutta l’impalcatura. Ne “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, Antonius Bloch incarna il secondo e il terzo dei tre paradigmi di uomo teorizzati dalla filosofia di Kierkegaard: l’etica e la religiosità rappresentati in un solo personaggio, il cavaliere appunto. L’esempio del nobile che ha svolto il proprio dovere andando in guerra (etica) si coniuga con la sua forte tensione di ricerca del divino (religiosità) che lo pervade durante il viaggio di ritorno in patria. Egli ha come unico obiettivo il ricongiungimento con la moglie e sfida a scacchi la Morte per rinviare il momento della sua dipartita. Nel nostro racconto si è omesso che per vincere il confronto, la Morte lo inganna due volte, la prima durante la sua confessione: fingendosi un frate, la Morte ottiene dal cavaliere utili informazioni circa la strategia che intenderà adottare per le prossime mosse sulla scacchiera; la seconda quando, con un movimento del suo ampio e nero mantello, scompiglia i pezzi del gioco per ricomporli a suo favore. Invece nel nostro racconto il dialogo dei due personaggi si concentra esclusivamente ai dubbi e tormenti del cavaliere. Mi pare anzi di ricordare che non si faccia alcun cenno della sfida a scacchi tra i due. A incarnare invece il primo dei tre paradigmi di Kierkegaard, cioè l’estetica è Jons, il fido scudiero di Antonius Bloch. Egli è uomo cinico e pragmatico legato alla soddisfazione terrena e al puro godimento fisico. Vuole ottenere il massimo dei piaceri che la vita può concedergli e il suo essere è riassunto nelle parole che esprimono il suo pensiero: “La miapancetta è tutto il mio mondo, la mia testa è la mia eternità, le mie mani due soli meravigliosi, le mie gambe sono i dannati pendoli del tempo, e i miei
piedi sporchi sono le due splendide basi della mia filosofia. Tutto quanto ha esattamente il valore di un rutto, l’unica differenza è che un rutto dà più soddisfazione”. Anche con questo personaggio mi sono preso qualche libertà.
Nei primi due libri, “Il Vangelo secondo Jeshua Cristo” e “Il Maestro e Margherita”, la morte di Giuda di Kiriat avviene in due diversi modi. Intanto in Saramago Giuda non è un traditore bensì esegue un ordine preciso di Jeshua. È lo strumento necessario al completamento del disegno divino. Non prende denari per la delazione, e subito dopo aver compiuto la sua missione, s’impicca a un albero di fico perché non riesce a sopportare il peso di tale macigno. In Bulgakov invece Giuda si vende per trenta tetradracme per essere poi assassinato e rapinato della borsa con il denaro. Per conciliare questi due aspetti rispettando ciò che gli autori hanno concepito ho dovuto fare ricorso a un artificio. Durante il tragitto di Jeshua verso il patibolo, circondato dalle guardie di Erode che lo scortano, l’uomo trovato impiccato all’albero di fico è somigliante a Giuda di Kiriat al punto che Jeshua s’inchina per osservare attentamente il suo volto deturpato. L’artificio ha dovuto anche conciliare le due personalità di Giuda di Kiriat che in Saramago è un fedele discepolo del Cristo mentre in Bulgakov è un uomo normalissimo con tutte le debolezze che gli competono. Altre sono le differenze che si è reso necessario “incastrare” e “adattare” una con l’altra come nell’interrogatorio di Jeshua da parte di Ponzio Pilato e nel colloquio fra Dio, Satana e Jeshua in barca fra le acque del mare di Galata. Nello specifico:

  • In Saramago Jeshua è affisso alla croce con chiodi che gli perforano i polsi nello spazio fra le due ossa (radio e ulna) al contrario di quanto sovente viene raffigurato nell’iconografia classica che vede il Cristo, crocifisso con chiodi conficcati nelle mani. Cosa quest’ultima impossibile anche “tecnicamente” poiché tale sistema non avrebbe consentito che il corpo del condannato potesse essere sorretto senza provocare la completa lacerazione delle stesse. Un’ipotesi è che ciò fosse una crudeltà ulteriore.
  • Il tragitto fino al Golgota è compiuto a piedi. Il mendicante (Satana) lascia la ciotola ai piedi della croce, dove è raccolto il suo sangue dopo averlo dissetato con una spugna imbevuta di acqua e aceto.
  • Personaggi di contorno sono tutti i discepoli.
  • Uno dei tre pastori (Magi) è il diavolo.
    In Bulgakov:
  • Jeshua è affisso alla croce con corde che gli legano le braccia alla traversa del patibolo.
  • Il tragitto fino al Golgota è compiuto su un carro, insieme ai criminali Disma e Hesta, dove sono deposti anche i pali degli strumenti di tortura.
  • È il boia che disseta Jeshua con la spugna prima di finirlo con la lancia.
  • Solo Giuda Iscariota (di Kiriat) e Levi Matteo sono suoi amici e compagni.
  • Levi Matteo s’impossessa di un coltello per tagliare le corde e liberare il corpo di Jeshua dalla croce. Ho dovuto fargli eseguire la stessa operazione sui chiodi con siffatto strumento, evidentemente improprio a tale scopo. Sommando quindi questa complicazione alla fretta, l’ansia e il dolore intimo dell’apostolo, questi nel manovrare l’attrezzo ferisce anche i palmi delle mani del Cristo provocando profonde lacerazioni. Ecco, tra l’altro, come potrebbe essere spiegata la presenza delle stigmate.
  • Amici fedeli di Ponzio Pilato sono Afranio (capo del servizio segreto) e l’Amazzatopi.
  • Nella parte finale del supplizio Levi Matteo porta via il corpo di Jeshua.
    In Anatole France il solo L. Elio Lamia è prezioso e insostituibile collaboratore di Ponzio Pilato.
    In Dostoevskij:
  • Si è eliminato il dialogo tra i due fratelli Ivan e Alesa quindi è rimasto solo il confronto fra Jeshua e il Grande Inquisitore.
  • Alla frase pronunciata dal Grande Inquisitore “il Grande Spirito ti parlò nel deserto” è stato aggiunto “e in mezzo al lago di Galata” per rendere il tutto congruente con il vangelo di Saramago.
    Nel capitolo che fa da “ponte” tra il finale del vangelo di Saramago e l’inizio del Ponzio Pilato di Bulgakov sono evidenziate in corsivo le parti del primo inserite nell’episodio dell’altro e viceversa.
    Tutte le citazioni sono in corsivo tra virgolette e così i “pezzi” di altri autori inseriti nello sviluppo della narrazione vera e propria. Ho inoltre applicato un diverso carattere grafico “normale” a quanto è stato aggiunto dal sottoscritto per poter “modellare” gli incastri tra un autore e l’altro.
    L’illustrazione di copertina è un’opera dell’amico e artista genovese Enrico Bafico che si attaglia perfettamente all’argomento. Le dotte conversazioni fra noi mi hanno dato lo stimolo per comporre quest’arabesco letterario.
    Mauro Giovanelli – Genova, 27 gennaio 2012

Ecco perché… Juanita (spagnolo: Momia Juanita), è il nome di una bella bambina che tra il 1440 e il 1450 d. C. fu sacrificata dai sacerdoti Inca al Dio Apu Illapu (conosciuto anche come Illapa, Ilyap’a, Katoylla) che era il dispensatore della pioggia e del tuono. Un Dio molto importante e venerato dalla gente, dato che la pioggia era fondamentale per la vita. Gli Inca credevano che Apu Illapu prendesse l’acqua della pioggia dalla Via Lattea e la portasse fino a loro. I templi di Apu Illapu solitamente erano situati in luoghi molto elevati. Quando le persone invocavano la pioggia, si arrampicavano fino al tempio e celebravano un sacrificio. In periodi di grande siccità gli erano offerti sacrifici umani. Si riteneva che Apu Illapu agisse in accordo con Apocatequil, il Dio della luce e dei lampi. Si narrava inoltre che, soprattutto in occasione di tempeste molto violente, i due Dèi lavorassero insieme per placarle. La mummia di questa bambina fu rinvenuta vicino alla vetta del Monte Ampato (parte della cordigliera delle Ande), nel Perù meridionale, nel settembre del 1995, dall’antropologo Johan Reinhard e dal collega peruviano Miguel Zarate. L’Ampato è un vulcano delle Ande. La sua vetta raggiunge i 6.288 metri e fa parte di un gruppo di tre grandi stratovulcani, insieme all’Hualca Hualca, 6.050 metri, e al Sabancaya, 6.040 metri.
Nota anche come Signora di Ampato o Ragazza congelata, la piccola Juanita, al momento della sua morte, aveva l’età di circa 12-14 anni.
Tra i molti cerimoniali che si officiavano per quest’offerta, era previsto che la Bambina fosse portata al luogo del rituale da una corte di persone importantissime della regione, essendo attesa e poi ricevuta dal gran sacerdote Inca il quale le avrebbe trasmesso la divinità. Da quel momento la Bambina assumeva la realtà della sua morte e il contatto con gli dèi della montagna, per cui era pronta per il viaggio senza ritorno verso la sua deità. Ci furono grandi festeggiamenti e liturgie. Prima che un colpo sicuro sull’arco sopracciliare destro le provocasse la morte, la bimba fu addormentata. Fu l’eruzione del vulcano Sabancaya, che favorì il disgelo della vetta del vicino Ampato, la causa prima del ritrovamento della mummia, ritenuto una delle più importanti scoperte recenti. La Bella Bambina del vulcano Ampato è oggi mostrata al mondo affinché la scienza e le cognizioni umane traggano profitto dallo studio dei suoi resti ottimamente conservati. Uno scrigno prezioso d’informazioni per ogni disciplina.
Al Museo Santuarios Andinos di Arequipa, mentre osservavo la mummia della piccola Juanita e ascoltavo la spiegazione asettica che la guida dava del suo dramma, ebbi finalmente l’ispirazione per il titolo da dare a questo mio componimento. Ci stavo lavorando da diverso tempo, volevo raccogliere le prove dell’unico, vero e autentico messaggio che i resti di questa bimba ci trasmettono. Esso è nell’affermazione di uno dei più grandi fisici e filosofi della storia:

“Ci sono due cose infinite: l’Universo e la stupidità umana, ma riguardo all’Universo ho ancora dei dubbi…”. Albert Einstein

Mauro Giovanelli, Arequipa, Perù, 28 ottobre 2011

A proposito della follia umana:

“Sia Clark, che ha guidato la spedizione dell’anno scorso nella zona più remota dell’Etiopia settentrionale, sia Tim D. White dell’Università di Berkeley, hanno anche affermato che un riesame condotto su un cranio umano fossile di trecentomila anni fa trovato in precedenza nella stessa regione ha dimostrato che il proprietario era stato scalpato”.
“The Yuma Daily Sun”, 13 giugno 1982

“L’uomo che crede che i segreti del mondo resteranno nascosti per sempre vive nel mistero e nella paura. La superstizione lo trascinerà in basso. La pioggia eroderà gli atti della sua vita. Ma l’uomo che si assume il compito di individuare nell’arazzo il filo che tutto ordisce, in virtù di questa sola decisione si fa carico del mondo, ed è soltanto facendosene carico che egli può trovare il modo di dettare i termini del proprio destino”. Cormac McCarthy

Mauro Giovanelli – Genova