Quel che resta – What remains

Quel che resta

Una sera d’inverno, la città deserta,
molto dopo l’imbrunire,
mi capitò d’incrociare uno sguardo
che già qualche secondo prima
avevo percepito esser quello.
A farmi alzare il capo con tale certezza
non fu lo scalpìccio che si avvicinava
ma il trasalimento da cui fui investito,
sussulto di gioia e timore
per esser finalmente giunto
in prossimità dell’arcano,
e cosciente di smarrirlo allo stesso tempo,
ed è perciò che lo rammento.
Quando emerse dalla penombra
la fissai più di un istante, lei anche,
e nel procedere oltre l’intesa
abbassammo gli occhi chinando la testa,
poi ciascuno, rallentando l’andatura,
la reclinò di un quarto verso il passato,
e ciò che ci dicemmo fu profondo,
e solo adesso comprendo
perché la porterò sempre con me.
Ovunque, in ogni momento,
qualcuno è predisposto a te, o qualcosa,
è intorno a questo che tutto quanto ruota,
il resto è solo attesa e rimpianto.

What remains

A winter’s evening, city deserted,
long after dusk,
I happened to meet a glance
which some seconds before
I had perceived as the one.
What made me lift my head with such certainty
was not the nearing of the scuffling
but the quiver which struck me,
startled in joy and terror to be at last
next to living the arcane –
aware that I might at the same time lose it –
and this is why I remember it.
When she emerged from the dim light
I gazed more than a moment, as did she,
and in going beyond the understanding,

heads bowed, we lowered our eyes,
then, with a slackening of the pace, each made
a quarter turn of the head not to miss the
fleeting moment,
and what we said was profound,
and only now do I understand
why I will have her by my side for ever.
Everywhere, every moment,
someone is responsive to you, or something,
and around this everything revolves,
the rest is merely waiting and regret.

© Copyright 2021 Mauro Giovanelli – “Settantanove scritti o giù di lì – Vita, amore, morte, i soliti discorsi…” – “Seventy-nine writings or thereabouts – Life, love, death and the usual…”

Pulsione – Pulsion

Pulsione

Non lasciarti trascinare
dalla pazzia di questa vita,
rifletti solo l’istante,
soffermati in esso
e libera la tua follia,
gusta ogni momento,
traguarda il successivo
già sopraggiunto,
anche questo è impulso
che svanisce nel nulla,
come gli altri che respiriamo,
ciascuno oltre il proprio
irripetibile orizzonte.
Prima d’esser stati lampi,
nel buio ricorderemo
con languore solo ciò
che sognavamo tra i banchi
della scuola se non siamo
il futuro che avremo impresso
ogni volta che ti amo.

Pulsion

Do not let yourself be dragged along
by the madness of this life,
reflect merely an instant,
dwell inside that instant
and free your folly,
savour every moment,
keep an eye on the next one
already here,
this too is impulse
which vanishes into nothing,
like others we breathe,
each beyond its own
unique horizon.
Before our demise as flashes of lightning,
if we are not
the future which in all probability has already elapsed,
in the dark we will recall
with languor merely what
we once dreamt about in
our school desks,
every time that I love you.

© Copyright 2021 Mauro Giovanelli – “Settantanove scritti o giù di lì – Vita, amore, morte, i soliti discorsi…” – “Seventy-nine writings or thereabouts – Life, love, death and the usual…”

Prefazione a “Le tessere del Pàmpano” in forma di Poesia – 2a edizione

«Religentem esse oportet,
religiosus nefas [ne fuas]»

(Aulo Gellio, Noctes Atticae, XX 4,9)

Il percorso poetico di Mauro Giovanelli si è arricchito nel tempo d’importanti tasselli. Chi ha avuto il piacere di seguire la sua produzione sa che per l’Autore la parola è il mezzo maieutico per eccellenza, è un tramite – nel senso potremmo dire divino, inteso come altissimo, perfettamente completo – di scoperta e riscoperta, ma soprattutto di trascendenza, un veicolo attraverso cui l’anima raggiunge l’inatteso e inizia a parlare una lingua nuova, universale. Quindi con il passare degli anni non stupisce che egli ravvisi la necessità di tornare sui propri passi e ciò comporta, in diverse occasioni, un riesame del già scritto alla luce della nuova percezione acquisita nel qui e ora. È una sorta di ripetersi ciclico, un ripresentarsi di corsi e ricorsi esistenziali e, parafrasando Giambattista Vico che “ci chiede un passo indietro”, qui è al solo scopo di acquisire più energia, ricaricarsi, al fine di spiccare un volo che non sia pindarico, ma verso le vette più alte e consapevoli.
L’uomo/poeta che ci troviamo di fronte con questa nuova opera, “Le tessere del pàmpano in forma di poesia”, è persona che ha trasceso la vita, che ormai ha una tale padronanza dell’essenziale e del necessario da vedere oltre, sentirsi finalmente libero di intraprendere la ricerca di un altro inizio, ricco di stimoli ma privo di urgenze materiali, animato, in definitiva, da pura volontà.

      [...]
      Comporre significa
      voler spiegare misteri, sensazioni
      che solo tu vedi e senti,
      non esistono,
      hanno origine da te,
      alla fine si torna al principio,
      è interrogarsi all’infinito tuo,
      è l’effetto di trascinamento
      per quella volta, tanto tempo fa,
      che ancora bimbo già comprendesti
      la vita esser anche malata,
      quando scoppiasti a piangere,
      da solo, disperato,
      sulla copertina del libro di papà,
      appena terminato di leggere
       “Addio, Mr. Chips!”. 
      Tutto qui. [...]
       (Addio, Mr. Chips!)

È questa una conoscenza intesa nel senso più “metafisicamente” consapevole. Come ci dice lo stesso Autore, infatti, «rispetto ai miei due ultimi lavori, “Affinché morte non ci separi” e “Pulsionale”, qui l’aspetto terreno, materiale cerca anche di inoltrarsi nell’indefinito con
l’intento di piegarlo al nostro volere».
Adesso l’artefice della raccolta, se pur nelle sue costanti fragilità (e pensiamo in tal senso ai versi del brano Prima Vera «…allora divento giudice e imputato / cavaliere e servente, vulnerabile, / piccolo uomo, vivo e disperato…») è Uomo nel senso più elevato possibile, e da quest’ottica viene immediatamente alla memoria la rappresentazione che ne diede Kubrick nel finale di “2001 Odissea nello spazio” dove, a compimento della sua evoluzione, l’astronauta è esso stesso divinità, trascendenza, puro intelletto. Una nuova trinità che non pretende di essere Dio o di superarlo sebbene travalichi il suo essere mortale e, ormai purificato, emendato dei peccati moderni, neanche cerca di sostituirlo, piuttosto può aprire gli occhi sulla vastità concessagli per non fermarsi alla sola posa del Suo sguardo, ma di esplorarlo in tutti i luoghi (fisici e concettuali), poiché ovunque Egli è, va solo “cercato e trovato”.
In un interessante scambio con l’Autore, quest’ultimo – con molta efficacia – illustrava come «La parola “Dio” incomba su tutto il presente testo» poiché egli si definisce religente fino al midollo e, citando Aulo Gellio, specifica come la parola “religioso” sia da evitare proprio perché portatrice di una passività e dipendenza che non appartiene al suo sentire. Mauro Giovanelli sa di essere, invece “fruitore” attivo, dinamico, soggettivo, che inserisce la sua esperienza nella percezione e indaga nella maniera
più viva possibile perché «voglio la Verità. Ecco, è la Verità che inseguo, spesso scavando nelle leggi della fisica, della matematica, astronomia, altre volte contemplando un tramonto, le nuvole, il mare in burrasca, un volto femminile. Tutto ciò per me è preghiera, atto di fede, culto».
In tutto questo ci sono una profondità e un’intimità che emozionano, poiché ciò presuppone l’umiltà di chi si toglie il “velo di Maya” (secondo Arthur Schopenhauer, grande studioso delle filosofie induiste, il “velo di Maya” era l’illusione che impediva all’essere umano di fare esperienza della Verità, del principio assoluto di realtà N. d. A.) dagli occhi per aprirsi fiduciosi allo sconosciuto.
Ce lo ricorda sottilmente il nostro Autore in tutti quei momenti in cui nella raccolta si supera quell’atmosfera decadente di macerie esistenziali, appunto quelle che ci impediscono di “vedere” e che ancora percepivamo in parte nella precedente produzione, vivendo ora una realtà nuova, più definita nel suo essere comunque eterica, vitale, energetica:

[…] «Per ogni sbilenca rotazione su se stessa durante l’ellittico percorso intorno al sole, nella traslazione
dei corpi celesti verso chissà dove, sulla Terra
c’è un momento in cui il confine fra luce e ombra è netto, deciso, implacabile come affilatissima lama di katana,
privo della pur minima, impercettibile sbavatura,
al punto che percorrendo e superando nel silenzio assoluto ogni ostacolo taglia in due parti precise strade, facciate
di palazzi, lastricati, giardini, piazze, panorami urbani, periferie, monumenti, tutto.» […]
(Significante nonsenso)

Azzardiamo nel dire che è superato il concetto stesso di aldilà, perché siamo oltre; quella che l’Autore identifica come «certezza che tutto debba continuare, qualcosa di più della sola speranza di un ulteriore» è la vera consapevolezza che siamo legati con un filo a Dio non “perché suoi figli”, ma come Suo specchio, vero e proprio riflesso e tramite di conoscenza. In uno scambio biunivoco, raggiungere un certo grado di consapevolezza e trascendenza e una volta affrancati dai vincoli delle credenze umane si può essere finalmente liberi di vedere a occhi pieni e non solo più percepire o a mala pena intravedere; in un autentico salto di fede è finanche possibile afferrare, ripresentarsi alla casa primordiale che diventa ora luogo nuovo, terra fertile e inesplorata.
Come in “Torneremo”, quando l’Autore scrive «mano alla fronte che si fa visiera per osservare il lontano passato che avanza, ecco perché avrai di più, e fra te e te bisbiglierai: dunque sei tornato, sei tu.».
Bellissimi a questo proposito i versi di “Ennegici settemilasettecentoventisette”, l’incipit ad esempio: «C’è un punto, diverso da utopia, le cui coordinate non sono celesti, è ovunque luogo…». “Ovunque…”, avverbio che racchiude la potenzialità infinita, poiché è immersione totale nello scorrere, nella fluidità della vita e della vita oltre, la scomparsa definitiva dei confini in tutte le sue
accezioni.
Finalmente “l’uomo giovannelliano” è libero, ha toccato il sole, non ne è rimasto bruciato, si è fuso con esso e ora assapora il suo smaterializzarsi per farsi infinito, presenza imperitura. Quest’uomo ha abbandonato quelle catene meschine che tanto fanno orrore al nostro Autore perché inchiodano l’animo a un vischioso pavimento di bitume che può solo annientare, portando a un’asfissiante morte interiore di sofferenza lenta e silenziosa. Quest’orrore lo percepiamo verso l’uomo schiavo delle sue paure, che china il capo e decide di non guardare la luce, con la giustificazione che i suoi occhi pavidi non potrebbero sopportarla.

[…] A parer mio è questa la prova che in definitiva l’uomo
vuole essere schiavo, che qualcuno provveda per lui,
e più è soddisfatto del poco ottenuto, purché lo ponga
un’inezia sopra il vicino, più abbassa la testa e porge
le terga. Ed è la sola cosa che dittatori e aspiranti tali
hanno capito. […]
(Tutto quel che c’è da sapere)

Anche la figura femminile è più sofisticata, sebbene apparentemente silente, quasi marmorea, presenza imperturbabile, idiosincrasica alla falsità, donna che non è più madonna né guida dantesca, bensì l’unica possibile compagna di viaggio per quest’uomo nuovo, poiché essa, nella sua complessità e grandiosità – pensiamo solo al potere straordinario di dare la vita – incarna l’altro lato di
Dio, complementare e basico.
Due creature rinate dalle ceneri dell’oscurantismo, capaci di solcare un percorso resosi visibile ai loro occhi e pronto a essere esplorato verso la luce promessa da loro stessi a se stessi fin dalla notte dei tempi e finalmente dischiarata. La ricerca della verità non è più dunque una prospettiva ma cammino già intrapreso che ha dato i suoi frutti: lo stesso desiderio, il forte bisogno, di mettere in discussione l’impensabile – come l’aldilà – lo dimostra. Non c’è paura, ma non è per superbia è piuttosto proprio per la vivida certezza di quell’Ovunque che ci fa sentire accolti, protetti, e liberi di osare. Perché come scrive Luis Sepùlveda «Vola solo chi osa farlo».
Pamela Michelis

Immagine di copertina de “Le tessere del pàmpano” di prossima pubblicazione

1945, foto di famiglia scattata da un reporter dell’esercito americano di passaggio che, affascinato del gruppo familiare, si staccò dal reparto e chiese il permesso di poter fare qualche scatto promettendo che al suo rientro in patria glieli avrebbe spediti. Mantenne la parola e dopo qualche tempo la mia mamma ricevette una lettera di ringraziamento e auguri con alcune copie delle foto.

Immagine di copertina di “Pulsionale, l’amore da qui all’eternità”:

TOMBA BISÒMA (PARTICOLARE) DE “GLI AMANTI DI VALDARO”, TALVOLTA CHIAMATI ANCHE AMANTI DI MANTOVA, OSPITA DUE SCHELETRI DEL NEOLITICO RITROVATI NEL 2007 PRESSO VALDARO IN PROSSIMITÀ DI MANTOVA. IL NOME DATO AI RESTI UMANI FU PERCHÉ I DUE SCHELETRI SONO STATI RINVENUTI ABBRACCIATI TRA LORO, ANCHE CON GLI ARTI INFERIORI.

“PULSIONALE POESIA III MILLENNIO” 3a Edizione – Pubblicazioni Illeggìoanoveposizioni – Genova

L’essere umano non è nato – filosofeggiando si potrebbe persino dire “progettato” – per mantenere un’opinione fissa, costante, egli è una sorta di ossimoro vivente, un coesistere di opposti nel tempo… ed è bene che sia così. Si potesse indagare scrupolosamente nel passato di quelle persone che affermano con risolutezza di avere sempre la stessa opinione su un’idea o un concetto, si scoprirebbe quanto dicano il falso, spesso senza neppure averne coscienza.
L’uomo – infatti – è frutto degli eventi, delle esperienze e spesso in lui convivono termini contradditori, ossimori appunto, idee e pensieri totalmente contrastanti che pur tuttavia vivono in perfetto equilibrio poiché costretti ad attraversare i veli del tempo.
Questo ci porta alla riflessione che in alcune menti più illuminate, ossia predisposte a un’apertura intellettiva – potremmo dire metafisica – che vada oltre il loro essere per abbracciare un infinito dal senso più alto, lo stravolgimento delle percezioni sia qualcosa d’impossibile da evitare, una vera e propria impellente e predestinata necessità.
Mauro Giovanelli appartiene a questa categoria di uomini che costantemente mettono in discussione il tutto: non sono mai paghi di porsi domande e nel mantenere punti fissi quei valori imprescindibili, particolarmente capaci di orientarli pur lasciandoli liberi di sperimentare, sono alla continua ricerca di una forma per misurare la sostanza dell’essere, consapevoli della sua transitorietà poiché costantemente in divenire.
Nasce così “Pulsionale poesia III Millennio – L’amore da qui all’eternità”, una silloge che affonda le sue radici nella vasta produzione dell’Autore rispondendo all’urgenza di inserire il nuovo anelito di vita in un contesto amico, familiare, confortevole qual è, appunto, la serie delle sue opere.
Perché questo?
Ce lo svela lo stesso Autore in un verso che dice tutto, che sa d’infinito: “Abbiamo ancora futuro” in chiusura della lirica “Nessuna messa è detta”.
Ecco, la creazione poetica di Mauro Giovanelli fa pensare a un’opera futuristica com’è stata “Forme uniche della continuità nello spazio” di Boccioni, solo che qui è applicata alla scrittura: un movimento perpetuo elegiaco che va verso il divenire, ma nella materica essenza che si rinnova pur senza destrutturarsi. Allora ritroviamo quel sentire familiare nella presenza “femmina”, selvaggia eppure innocente, che trascende in maniera estatica il sentimento – anche carnale – che nulla ha da invidiare alla purezza di un giglio virginale, un’essenza allo stesso tempo tentatrice e timida, riservata (torna l’ossimoro), anch’essa a suo modo caposaldo esistenziale perché il groviglio di sentimenti e sensazioni che la donna fa nascere nell’Autore si dipana come un albero della vita, le cui fronde e le cui radici affondano nel compiuto.

             [...] quante volte ho trascorso la primavera
                    a fare progetti, vagheggiare sul futuro,
                    adesso ne ho quasi paura,
                    passo il tempo nel ricordare
                    ogni proposito toccato e svanito,
                    m’impigrisco nella nostalgia
                    quasi fosse la sola distrazione,
                    forse indolenza, cronica malattia,
                    timore di fare del male, riceverlo
                    ricadere nella sana follia. [...]
                    (Orizzonti)

A fare da sfondo è una natura umana impervia, estrema, in cui le forze ataviche implodono, più che esplodono, dove persino i segni di civiltà – porti, strade, città, costruzioni… – hanno un non so che di artefatto, come se vivessero di un riverbero fuori dimensione, a conferma di quel senza spazio e senza tempo (più che a-spaziale e a-temporale) tanto caro all’Autore.
La sfumatura nuova che avvertiamo in quest’opera è una presenza animica più ponderata, riflessiva, come se Mauro Giovanelli al momento si trovasse coinvolto in una meditazione più consapevole e cosciente, che richiede di fermarsi per andare avanti: sembra essere giunto il tempo di edificare un pensiero che non possa essere portato via dalle alluvioni della vita che con la loro violenza colpiscono nella quiete delle giornate e travolgono tutto, senza rimorso, senza rimpianto, lasciando una distruzione inspiegabile e spesso dolorosamente senza risposta.

              [...] pianti pietrificati
                    in un solo momento
                    che lungo il filo invisibile,
                    inesistente, dell’implacabile
                    curvo orizzonte scorre
                    come vento generato
                    da un dio sussistente
                    unicamente per ricordarmi,
                    alla fin fine,
                    essere solo a giocare
                    la mia partita
                    con infinito e nulla,
                    avversari senza volto
                    e grande abilità
                    nel mischiare le carte [...]
                    (Panico)

Ecco la necessità di una silloge definitiva frutto di un ulteriore lavoro di limatura che sembra appunto ripulire il pensiero dai detriti del tempo restituendo se non le fattezze originali perlomeno quel che si è salvato, perché non sempre è possibile recuperare se non ponendo l’accento su ciò che è ora, quel qui e adesso tanto caro alla filosofia come alla psicanalisi.

               [...] Per egoismo avevo puntato tutto
                    su uno sguardo, senza considerare
                    il dolore dell’anima
                    che mi stava di fronte,
                    non me ne accorsi,
                    e lì mi ero perduto,
                    e parlai di questo
                    il giorno dopo, allo specchio,
                    mentre sistemavo il ciuffo ribelle,
                    pronto a calpestare altri sentieri
                    che si stavano aprendo,
                    e li avrei percorsi uno a uno
                    con insolenza, indifferente,
                    neanche fossi stato il vincitore. [...]
                    (Nessun vincitore)

C’è una consapevolezza più matura fra queste pagine, talmente profonda da essere quasi serena, un’accettazione sincera dell’imponderabile che ricorda moltissimo l’ultima produzione di David Maria Turoldo, quando la morte quasi imminente non era combattuta ma accettata e condivisa quale compagna di viaggio dischiarante un cammino che ora si faceva luminoso, nella sua comprensione totale.
L’imponderabile diventa evidente, quando si comprende che non è possibile fare altro che affidarsi, lasciarsi andare, certi che quella mano che sempre è stata appoggiata alla nostra spalla è ora pronta anche a sorreggere, in una stretta più percepibile ma ancora lontana nel suo ultimo abbraccio finale.

[…] è quando ci coricammo sul prato,
io ti venni sopra, mai potrò dimenticare
il morbido spessore, sì la consistenza del tuo corpo,
da quel momento tutto fu chiaro, come una rivelazione
che mi avrebbe accompagnato per sempre,
la distanza intendo, lo stacco, proprio così, cioè il tuo
frapporti, tenermi discosto dal terreno, proteggermi,
non è facile dirlo, neppure pretendo d’esser capito,
mi riferisco al fatto che esisti, e in virtù di ciò sto separato
dall’abisso, sei scudo fra me e l’ultima dimora, la differenza
tra la vita e la morte, spero ti giunga il mio pensiero… […]
(Il tuo spessore)

La parola, dunque, diventa quel supporto, quello strato a protezione di noi e tutto il resto e nuovamente l’Autore ci indica la strada in questo senso utilizzando un’immagine di grande potenza, dove una metaforica giovane donna, che proprio in quella sua freschezza diviene vita, si frappone tra il compagno e quel mondo che può essere tutto, diventando l’aiuto che ci permette di osare, di affidarci preservati dall’ignoto, a volte minaccioso, venendoci in soccorso dandoci una difesa che è però conforto, amore, piacevolezza… vigorosa presenza quasi sovrannaturale.
Nuovamente arriviamo all’ultima pagina tracimanti di vibrazioni che se da una parte ci lasciano storditi per la loro pienezza, dall’altra non possono che integrare – nuovamente e con più forza – il non detto in noi che chiede risposta.
Pamela Michelis