“Il leggìo a nove posizioni” di Mauro Giovanelli, edizione 2023 riveduta.
La grande abbuffata – Hitler, Stalin e compagnia cantando… il dialogo che segue si svolge fra due personaggi del romanzo. Precisamente Yuzaf (pseudonimo di Gesù scampato alla condanna del Santo Inquisitore de “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij) e Ramón, l’assassino di Lev Trockij. L’argomento trattato potrebbe fornire delucidazioni in merito agli accadimenti di questo nostro travagliato dopoguerra.
Estratto da “Il leggìo a nove posizioni”:
«… Aggiungo solo che poi, alla morte di Lenin, un certo Bucharin, rappresentante della destra del partito bolscevico, sostenne con Stalin la teoria del “socialismo in un solo Paese” schierandosi tra gli oppositori di Trockij di cui votò l’espulsione dal partito. Ma il nocciolo della questione è un altro, ossia l’evidenza che per installarsi al potere e mantenervisi sia la Rivoluzione d’Ottobre sia il nazionalsocialismo beneficiarono di enormi aiuti finanziari da parte del supercapitalismo internazionale». «Spiegati meglio». «Non è difficile, piuttosto c’è il rifiuto a crederlo, è sempre così amico mio. Ad esempio pochi sapevano e sanno che fin dalla vigilia della grande guerra la finanza mondiale deteneva vasti interessi economici nei cinque continenti, in parole povere già allora il fenomeno delle società multinazionali era tutt’altro che sconosciuto, immaginiamoci oggi. E i conflitti armati, questo dalla notte dei tempi, con la crescente necessità dei governi belligeranti di dover ricorrere a prestiti, e con la sempre maggiore importanza che di conseguenza gli apparati industriali acquisivano, concorsero ad aumentare l’influenza del sistema bancario sulla vita politica nazionale e internazionale. Siamo quindi arrivati a poter dire che questo porco mondo, sebbene a fasi alterne mostri grande coesione, ha i suoi centri decisionali nell’imperialismo degli Stati Uniti d’America i quali, naturalmente, alla “rivoluzione permanente” di Trockij prediligevano la teoria del “Socialismo in un solo Paese” di quel paranoico di Stalin». «Il motivo? Perdonami ma ti seguo con fatica». «Il motivo di che? Ce ne sono tanti di motivi». «Intendo la ragione vera per cui questi “centri decisionali” fossero favorevoli alla politica di Stalin». «Dovresti arrivarci da solo, i motivi sono tanti e in parte già li ho spiegati ma il più apprezzabile, se vogliamo anche il più banale, e questa è un’idea che mi sono fatto grazie ai miei trascorsi in certi ambienti, è di una semplicità sconfortante. A guerra finita i sovietici, sotto la dittatura di Stalin, sarebbero stati limitati, infatti si verificò, a condurre un tenore di vita “socialista”, ossia austero, e i “grandi” già sapevano che il rapido e rimunerativo (per i soliti noti) sviluppo occidentale avrebbe via via sempre più attratto quei popoli in quanto vedevano in esso il nuovo eden, il “paese dei balocchi”, invogliandoli quindi a rivoltarsi al potere costituito abbagliati dal più parabolico e lusinghiero specchietto per le allodole mai concepito. Perciò in nessun caso la teoria del “socialismo in un solo Paese” avrebbe potuto funzionare se non con una feroce dittatura». «Quindi Trotskij aveva ragione». «Certo che sì, con il termine “comunismo” Trotskij intendeva, del resto come da dottrina, la fase di passaggio rivoluzionaria terminata la quale l’umanità sarebbe pervenuta al “socialismo reale”, invece…». «Invece?». «Invece così facendo la parola “comunismo” divenne impronunciabile, sinonimo di oppressione, dittatura, proprio ciò che “loro” volevano. Tutto studiato a tavolino, non sono mica stupidi quelli che reggono le sorti del pianeta, neanche intelligenti intendiamoci, ma furbi sì, molto, e scaltri, e senza scrupoli, infatti sono loro a disporre le pedine, anche gli alfieri, e i re e le regine. Non è un caso che mentre le nazioni occidentali si scagliarono le une contro le altre in una sanguinosa guerra fratricida, la quale segnerà il tramonto dell’egemonia mondiale del Vecchio Continente, da Wall Street, che si può assumere come emblema dell’alta finanza internazionale, partirono operazioni che, passando al di sopra dei belligeranti, miravano non soltanto a tutelare gli investimenti operati ai quattro angoli del globo, ma anche a esercitare una regia, tanto discreta quanto efficace, sulla situazione generale. Adesso è più chiaro?». «Sì, in parole povere c’è un centro decisionale che crea i presupposti per fare e disfare situazioni di conflitto fra nazioni molte volte intervenendo direttamente in modo pretestuoso.». «Finalmente ci stai arrivando. Così, tornando al duo Hitler e Stalin, lungo tutto l’arco della guerra si assiste “all’imparziale” sostegno finanziario, attraverso la concessione di crediti e con la prosecuzione degli investimenti sia ai tedeschi, sia ai russi e agli “alleati”. Per quanto riguarda la Russia, i crediti e gli investimenti continuarono anche con il procedere della rivoluzione bolscevica e questo pone certamente quesiti. Ed è apparentemente ancora più inspiegabile che del denaro americano raggiungesse, in preparazione dell’abbattimento del regime imperiale, non solo i rivoluzionari liberali e socialdemocratici, ma anche i gruppi della sinistra comunista. In questo modo l’opposizione di sinistra, della quale Trotskij faceva parte, fu smantellata dal gruppo stalinista, e lo stesso Trockij fu esiliato ad Alma Ata (oggi nel Kazakistan), poi espulso». «Perché non fu ucciso? Ai miei tempi era tutto molto più sbrigativo in questo genere di cose». A queste parole Ramón ebbe come un sussulto, riprese a grattarsi ferocemente la cicatrice ma Yuzaf lo fermò con delicatezza. «Lo farà assassinare» – continuò Ramón con voce rotta – «ma non subito, costui aveva troppi proseliti in patria e Stalin doveva dimostrare magnanimità ecco perché al suo rivale riservò un lungo periodo di esilio e vagabondaggio in diversi paesi». «Con il proposito di farlo fuori con tutta calma…» – intervenne Yuzaf. «Certamente, e Trockij lo sapeva, eccome se lo sapeva, eppure mai gli venne a mancare l’ottimismo, infatti, continuò a fare propaganda in ogni luogo, auspicando una rinascita del “suo” comunismo. Senti questa: “Col comunismo, l’uomo diventerà incomparabilmente più forte, saggio, acuto. Il suo corpo diventerà più armonioso, i movimenti più ritmati, la voce più melodiosa. Le forme della sua esistenza acquisteranno un’eccezionale potenza drammatica. L’uomo medio raggiungerà la statura di Aristotele, Goethe, Marx. A quote ancora più alte si ergeranno nuove vette”».
……………………
«La sconfitta dei repubblicani nella guerra civile spagnola non ha certo incupito Stalin, sia per la sua idea di “socialismo in un solo Paese”, sia per la spartizione dell’Europa concordata prima con Hitler, poi con Roosevelt e Churchill, infine per sfruttarla come occasione al fine di attribuirne la responsabilità ai trotskisti e agli anarchici. Nel marzo del 1939 giunse dal Cremlino l’ordine definitivo di giustiziare l’odiato Trotskij avvalendosi di un veterano in operazioni di guerriglia nella penisola iberica. Secondo me era anche un fatto personale, una delle tante paranoie del dittatore, questo tipo di persone sono gente maleducata.
……………………
“Per quarantatré anni della mia vita cosciente sono rimasto un rivoluzionario e per quarantadue ho lottato sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi ricominciare tutto da capo, cercherei di evitare questo o quell’errore, ma le mie scelte resterebbero sostanzialmente immutate. Morirò da rivoluzionario proletario, marxista, materialista dialettico, quindi da ateo inconciliabile. La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente, anzi è ancora più salda, che nei giorni della mia giovinezza, se si produrrà l’esplosione sociale che spero e la rivoluzione socialista trionferà in diversi Paesi, quegli stessi lavoratori avranno la missione di aiutare i loro compagni sovietici a liberarsi dai gangster della burocrazia stalinista… vedo la verde striscia d’erba oltre la finestra e il cielo limpido azzurro di là dal muro, la luce del sole dappertutto. La vita è bella, i sensi celebrano la loro festa. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione, violenza e goderla in tutto il suo splendore».
Da “Il leggìo a nove posizioni” di Mauro Giovanelli, edizione 2023 riveduta.
I nostri scheletri, intanto (Affinché morte non ci separi)
Vorrei tanto che da quel certo giorno i nostri scheletri continuassero l’altra parte del viaggio abbracciati come prima, troppe cose legate alla terra resteranno ancora da capire, e nella tomba bisoma avremo modo di parlarne a lungo. Con noi porteremo il ricordo di lontani respiri, aspetteremo la polvere nella pienezza del vissuto che ci appartiene fino al tempo in cui le particelle formeranno una sola nube di mutevole forma alata così da affrontare uniti i disegni della natura. Poi, una volta liberi della materia, voleremo ovunque spinti da ogni pioggia e vento, insieme sopporteremo il vuoto e il buio, sfioreremo mari sconosciuti per riferire dei sogni che sono pur esistiti, perciò ritorneranno e forse, chissà, alla fine giungeremo a un approdo amico, io fin da ora vedo la luce di quella città.
Da “Il leggìo a nove posizioni” di Mauro Giovanelli, edizione 2023 riveduta.
La grande abbuffata – Hitler, Stalin e compagnia cantando… il dialogo che segue si svolge fra due personaggi del romanzo. Precisamente Yuzaf (pseudonimo di Gesù scampato alla condanna del Santo Inquisitore de “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij) e Ramón Mercader, l’assassino di Lev Trockij. L’argomento trattato potrebbe fornire delucidazioni in merito agli accadimenti di questo nostro travagliato dopoguerra.
Estratto da “Il leggìo a nove posizioni”:
«… Aggiungo solo che poi, alla morte di Lenin, un certo Bucharin, rappresentante della destra del partito bolscevico, sostenne con Stalin la teoria del “socialismo in un solo Paese” schierandosi tra gli oppositori di Trockij di cui votò l’espulsione dal partito. Ma il nocciolo della questione è un altro, ossia l’evidenza che per installarsi al potere e mantenervisi sia la Rivoluzione d’Ottobre sia il nazionalsocialismo beneficiarono di enormi aiuti finanziari da parte del supercapitalismo internazionale». «Spiegati meglio». «Non è difficile, piuttosto c’è il rifiuto a crederlo, è sempre così amico mio. Ad esempio pochi sapevano e sanno che fin dalla vigilia della grande guerra la finanza mondiale deteneva vasti interessi economici nei cinque continenti, in parole povere già allora il fenomeno delle società multinazionali era tutt’altro che sconosciuto, immaginiamoci oggi. E i conflitti armati, questo dalla notte dei tempi, con la crescente necessità dei governi belligeranti di dover ricorrere a prestiti, e con la sempre maggiore importanza che di conseguenza gli apparati industriali acquisivano, concorsero ad aumentare l’influenza del sistema bancario sulla vita politica nazionale e internazionale. Siamo quindi arrivati a poter dire che questo porco mondo, sebbene a fasi alterne mostri grande coesione, ha i suoi centri decisionali nell’imperialismo degli Stati Uniti d’America i quali, naturalmente, alla “rivoluzione permanente” di Trockij prediligevano la teoria del “Socialismo in un solo Paese” di quel paranoico di Stalin». «Il motivo? Perdonami ma ti seguo con fatica». «Il motivo di che? Ce ne sono tanti di motivi». «Intendo la ragione vera per cui questi “centri decisionali” fossero favorevoli alla politica di Stalin». «Dovresti arrivarci da solo, i motivi sono tanti e in parte già li ho spiegati ma il più apprezzabile, se vogliamo anche il più banale, e questa è un’idea che mi sono fatto grazie ai miei trascorsi in certi ambienti, è di una semplicità sconfortante. A guerra finita i sovietici, sotto la dittatura di Stalin, sarebbero stati limitati, infatti si verificò, a condurre un tenore di vita “socialista”, ossia austero, e i “grandi” già sapevano che il rapido e rimunerativo (per i soliti noti) sviluppo occidentale avrebbe via via sempre più attratto quei popoli in quanto vedevano in esso il nuovo eden, il “paese dei balocchi”, invogliandoli quindi a rivoltarsi al potere costituito abbagliati dal più parabolico e lusinghiero specchietto per le allodole mai concepito. Perciò in nessun caso la teoria del “socialismo in un solo Paese” avrebbe potuto funzionare se non con una feroce dittatura». «Quindi Trotskij aveva ragione». «Certo che sì, con il termine “comunismo” Trotskij intendeva, del resto come da dottrina, la fase di passaggio rivoluzionaria terminata la quale l’umanità sarebbe pervenuta al “socialismo reale”, invece…». «Invece?». «Invece così facendo la parola “comunismo” divenne impronunciabile, sinonimo di oppressione, dittatura, proprio ciò che “loro” volevano. Tutto studiato a tavolino, non sono mica stupidi quelli che reggono le sorti del pianeta, neanche intelligenti intendiamoci, ma furbi sì, molto, e scaltri, e senza scrupoli, infatti sono loro a disporre le pedine, anche gli alfieri, e i re e le regine. Non è un caso che mentre le nazioni occidentali si scagliarono le une contro le altre in una sanguinosa guerra fratricida, la quale segnerà il tramonto dell’egemonia mondiale del Vecchio Continente, da Wall Street, che si può assumere come emblema dell’alta finanza internazionale, partirono operazioni che, passando al di sopra dei belligeranti, miravano non soltanto a tutelare gli investimenti operati ai quattro angoli del globo, ma anche a esercitare una regia, tanto discreta quanto efficace, sulla situazione generale. Adesso è più chiaro?». «Sì, in parole povere c’è un centro decisionale che crea i presupposti per fare e disfare situazioni di conflitto fra nazioni molte volte intervenendo direttamente in modo pretestuoso.». «Finalmente ci stai arrivando. Così, tornando al duo Hitler e Stalin, lungo tutto l’arco della guerra si assiste “all’imparziale” sostegno finanziario, attraverso la concessione di crediti e con la prosecuzione degli investimenti sia ai tedeschi, sia ai russi e agli “alleati”. Per quanto riguarda la Russia, i crediti e gli investimenti continuarono anche con il procedere della rivoluzione bolscevica e questo pone certamente quesiti. Ed è apparentemente ancora più inspiegabile che del denaro americano raggiungesse, in preparazione dell’abbattimento del regime imperiale, non solo i rivoluzionari liberali e socialdemocratici, ma anche i gruppi della sinistra comunista. In questo modo l’opposizione di sinistra, della quale Trotskij faceva parte, fu smantellata dal gruppo stalinista, e lo stesso Trockij fu esiliato ad Alma Ata (oggi nel Kazakistan), poi espulso». «Perché non fu ucciso? Ai miei tempi era tutto molto più sbrigativo in questo genere di cose». A queste parole Ramón ebbe come un sussulto, riprese a grattarsi ferocemente la cicatrice ma Yuzaf lo fermò con delicatezza. «Lo farà assassinare» – continuò Ramón con voce rotta – «ma non subito, costui aveva troppi proseliti in patria e Stalin doveva dimostrare magnanimità ecco perché al suo rivale riservò un lungo periodo di esilio e vagabondaggio in diversi paesi». «Con il proposito di farlo fuori con tutta calma…» – intervenne Yuzaf. «Certamente, e Trockij lo sapeva, eccome se lo sapeva, eppure mai gli venne a mancare l’ottimismo, infatti, continuò a fare propaganda in ogni luogo, auspicando una rinascita del “suo” comunismo. Senti questa: “Col comunismo, l’uomo diventerà incomparabilmente più forte, saggio, acuto. Il suo corpo diventerà più armonioso, i movimenti più ritmati, la voce più melodiosa. Le forme della sua esistenza acquisteranno un’eccezionale potenza drammatica. L’uomo medio raggiungerà la statura di Aristotele, Goethe, Marx. A quote ancora più alte si ergeranno nuove vette”».
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«La sconfitta dei repubblicani nella guerra civile spagnola non ha certo incupito Stalin, sia per la sua idea di “socialismo in un solo Paese”, sia per la spartizione dell’Europa concordata prima con Hitler, poi con Roosevelt e Churchill, infine per sfruttarla come occasione al fine di attribuirne la responsabilità ai trotskisti e agli anarchici. Nel marzo del 1939 giunse dal Cremlino l’ordine definitivo di giustiziare l’odiato Trotskij avvalendosi di un veterano in operazioni di guerriglia nella penisola iberica. Secondo me era anche un fatto personale, una delle tante paranoie del dittatore, questo tipo di persone sono gente maleducata.
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Testamento di Trotskij scritto di suo pugnopochi giorni prima di essere assassinato.
“Per quarantatré anni della mia vita cosciente sono rimasto un rivoluzionario e per quarantadue ho lottato sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi ricominciare tutto da capo, cercherei di evitare questo o quell’errore, ma le mie scelte resterebbero sostanzialmente immutate. Morirò da rivoluzionario proletario, marxista, materialista dialettico, quindi da ateo inconciliabile. La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente, anzi è ancora più salda, che nei giorni della mia giovinezza, se si produrrà l’esplosione sociale che spero e la rivoluzione socialista trionferà in diversi Paesi, quegli stessi lavoratori avranno la missione di aiutare i loro compagni sovietici a liberarsi dai gangster della burocrazia stalinista… vedo la verde striscia d’erba oltre la finestra e il cielo limpido azzurro di là dal muro, la luce del sole dappertutto. La vita è bella, i sensi celebrano la loro festa. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione, violenza e goderla in tutto il suo splendore».
Questo racconto è la naturale prosecuzione di “Ecco perché Juanita”, antologia elaborata nel 2012, certamente originale nella composizione al punto da non individuare termini adatti a definirla. Per descriverne la “costruzione” decisi di utilizzare il verbo comporre vale a dire “mettere insieme varie parti allo scopo di costituire un tutto organico”(1) e “produrre, realizzare un’opera di carattere letterario o artistico in generale”(2). Invece conclusi che il termine più adeguato a designarla fosse proprio libro intendendosi con tale parola “volume di fogli cuciti tra loro, scritti, stampati o bianchi”(3). Desidero ricordare che, con tutto il rispetto, la parola “bibbia” significa “insieme di generi letterari diversi”. Non è casuale che “biblia”, dal greco biblos, la corteccia interna del papiro che cresce sul delta del Nilo, utilizzata per produrre materiale scrittoio, sia un plurale che indica l’insieme di opere scritte e narrate – nella Chiesa greca dell’epoca di Giovanni Crisostomo(4) si cominciò a usare l’espressione Ta Biblìa, che significa “I libri”. Infatti, il Vecchio e Nuovo Testamento sono insiemi di elaborati vari per origine, genere, compilazione, lingua e datazione, prodotti in un periodo abbastanza ampio, preceduti da una tradizione orale più o meno lunga e comunque difficile da identificare, racchiusi in un canone stabilito dagli inizi della nostra era, in parole povere la prima grande raccolta, copiatura e forse pure sofisticazione della storia. Tornando a Juanita, dico che l’idea della sua attuazione s’insinuò nella mia mente quando decisi di riunire diversi e preziosi frammenti della letteratura (sottotitolo “arabesco letterario”) di circa cinquanta autori e un centinaio di brani e citazioni disponendoli all’interno di una narrazione secondo il mio gusto; occorreva solo una base di appoggio. Quale migliore “cronologia” potrebbero regalarci altri capolavori che non siano “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” del grande Saramago, seguito da “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov per agganciarlo a “Il Procuratore della Giudea” di France e concludere con “Il Grande Inquisitore di Dostoevskij?” Nessuna! Un’avventura lunga 1700 anni. Saramago descrive la vita di Gesù con un’autenticità da lasciare senza fiato, ineguagliabili lo stile e la prosa. Nel suo Vangelo neppure è sfiorata la personalità di Ponzio Pilato in quanto marginale al messaggio che l’autore ci ha compiutamente trasmesso. Per approfondirne la figura siamo quindi costretti a immergerci nelle strabilianti pagine di Bulgakov, dove il procuratore della Giudea è assalito dal rimorso per una condanna decretata suo malgrado; la collera verso se stesso lo dilania, realizza di essere entrato nel mito dalla porta sbagliata e la sua propria ignavia (qui ci sarebbe da discutere) lo inchioderà per sempre nella penombra del porticato, dietro la brocca del servitore che versa l’acqua sulle sue mani sudate. Che ne sarà di lui? Allora lo seguiamo nell’epico “Il procuratore della Giudea” di Anatole France dove, vecchio e dolorante, si reca ai Campi Flegrei per curare la gotta che lo tormenta. I tempi del fasto e del potere li ricorda con il fedele e ritrovato Lamia che, riferendosi al Cristo, gli domanda: “Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?” ed egli, dopo averci pensato a lungo, risponde sicuro: “Gesù? Gesù il Nazareno? No, non ricordo”(5). Non ricordo… perché? Amnesia senile? inconscia rimozione di una rievocazione ostica? Menzogna? Indulgenza divina? Non lo sapremo e il Gesù de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij(6), che chiude il mio saggio, nulla dice in proposito. Essendo stato vano il sacrificio estremo, Egli torna in questo mondo per riparare l’errore sennonché, riconosciuto e incarcerato dal Grande Inquisitore, non pronuncia una sola sillaba durante l’eccitazione verbale dell’aguzzino che a sera si reca nella cella per comunicargli la condanna al rogo. Il confronto tra i due si trasforma in un delirante monologo del prelato. Che cosa rappresenta l’unica risposta del Nazareno, il bacio sulle labbra del suo persecutore con cui suggella il loro incontro? Quali potrebbero essere stati i pensieri di Yuzaf nel momento in cui, graziato per tale gesto, si diresse verso nuovi orizzonti? Dove sarà andato? Che panorami gli si apriranno? Come esplorerà l’intrico che custodisce l’oggetto della sua ricerca? La reinterpretazione delle Scritture? Il leggìo a nove posizioni? Mauro Giovanelli
(*) Riferimenti alle note
(1) Zingarelli, XI edizione 1983. (2) Ibidem. (3) Ibidem. (4) Giovanni Crisostomo, o Giovanni d’Antiochia (Antiochia, 344 / 354 – Comana Pontica, 14 settembre 407), è stato un arcivescovo e teologo bizantino. Fu il secondo Patriarca di Costantinopoli. È commemorato come santo dalla Chiesa cattolica e ortodossa e venerato dalla Chiesa copta; è uno dei trentacinque Dottori della Chiesa. (5) Anatole France, “Il procuratore della Giudea”, Sellerio Editore Palermo. (6) Fëdor Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, Libro quinto, “Pro e contra”, Edizione Einaudi.
Introduzione
Yuzaf non è asceso al cielo come c’è raccontato. In cerca di una risposta impossibile, almeno quanto il dubbio che lo avrebbe colto durante il supplizio, lamentando l’abbandono del Padre, ha invece continuato a vagare fra le dimensioni del reale e del fantastico. Questa la sua missione, la croce alla quale sembra condannato dalla stessa natura di cui è composto, che gli fa incontrare altri “inverosimili” come lui: Corto, Srinivasa, Ramòn, Judex, dando vita a una ratatouille filosofica in salsa spirituale, insaporita con un melting pot delle migliori spezie antropologiche, raccolte dall’Autore ai crocevia della vicenda umana, nella sua mente, lungo le sconfinate praterie dell’investigazione fantastica. Bene e Male, Divino e Umano, sono le invisibili sbarre della gabbia di Mānī che imprigionano il pensiero di Yuzaf nella speculazione dell’Oltre, lo costringono a surreali dialoghi con personaggi della storia e della fantasia che cucineranno a fuoco lento le convinzioni del lettore fino a dissolverle con la sola spiegazione alla nostra portata. Le molecole letterarie dell’opera sembrano formate da atomi privi di legami, gli elettroni saltano dall’orbita di un nucleo all’altro, collidono, rilasciano quanti di energia che riempiono di tracce luminose l’etere della narrazione: preziose indicazioni che, per il lettore attento e motivato dalla ricerca terrena e spirituale, rappresentano la segnaletica del sentiero che conduce a concepire l’inspiegabile. La ricostruzione storica e filosofica della religione sotto l’aspetto di “urgenza esistenziale” è onesta, accurata, priva d’intenzionalità alcuna di negare o affermarne l’esattezza, lasciandoci liberi di manovrare il leggìo a nostro piacimento per interpretare i manoscritti che su esso via via si alternano e incrociare lo sguardo del topo al fine di rispondere come possiamo a una domanda priva di senso: “Qual è la verità?” Alessandro (Alex) Arvigo – Palermo/Genova
Prefazione
Il privilegio di poter parlare di e con un’opera di Mauro Giovanelli è che l’esperienza non rimane mai ancorata al testo, piuttosto diventa un crocevia di pensieri, interpretazioni, emozioni.
Terminata la lettura del libro, senza considerare gli appunti presi di getto durante lo scorrere delle pagine, ho sentito la mente focalizzarsi su alcuni liberi pensieri scambiati con l’Autore nel corso di precedenti collaborazioni letterarie. In particolare ricordo una riflessione su come “i tempi” avessero ormai raggiunto una sorta di punto di non ritorno, forse non evidente ai più, e oltrepassato quel limite resterà solo da augurarci ci sia almeno data la possibilità – quasi esprimendoci in termini biblici – di poter ripartire dalle ceneri perché ormai nulla del prima sarà risultato degno d’esser salvato. Da qui la ricostruzione di un nuovo mondo con la determinazione a non ripetere nessuno dei troppi errori commessi nella vita di prima. Un pensiero insolito ma credo non lontano da una delle personalissime letture che mi piacerebbe dare di questo libro. Infatti “Il leggìo a nove posizioni” è un’opera di confine, una terra letteraria in cui tutto è stato e, proprio per questo, tutto potrà essere, ma in veste completamente nuova. È un topos letterario vero e proprio, una marginalità filosofica dove, con tale termine, non intendiamo qualcosa di immaginario, bensì un luogo incontaminato che racchiude la bellezza interpretativa primigenia non facile da raggiungere, quindi va ricercata anche a costo di un sacrificio doloroso poiché di fondamentale importanza risorgere in essa.
Pensiamo perfino all’origine del termine leggìo, che deriva dal greco λογειον, loghĕion, che significa anche “pulpito” e, infatti, proprio in ambito sacerdotale ha la sua iniziale e poi più ampia fortuna, ma non è al senso ecclesiastico che mi voglio riferire, quanto alla sua “posizione privilegiata”. Se aveste mai avuto modo di salirci, su un pulpito, avrete notato come lassù sia immediata la sensazione di padronanza che trasmette – quasi di onnipotenza – oltre a quella di una prospettiva ben più ampia dello sguardo comune, rivelando a una persona come il cambio di veduta generi scenari inattesi. Ciò è ampiamente raffigurato nel celeberrimo “L’attimo fuggente” (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir, e magistralmente interpretato da Robin Williams nella parte del prof. John Keating che, saltando in piedi sulla scrivania, intende in modo figurativo educare i suoi studenti a mai accontentarsi di osservare le cose da un solo punto di vista. Credo che proprio questo debba essere il senso di un libro, ancor più il suo messaggio più intimo: un dischiararsi su vedute inattese, persino improbabili, se non addirittura improponibili, come se si decidesse di assaggiare il frutto proibito per arrivare alla “vera” conoscenza (termine audace ma appropriato in questo contesto). Qualora non fosse resterebbe comunque il viaggio a essere il tutto.
Lo scorrere narrativo de “Il leggìo a nove posizioni” alterna piani paralleli con un fil rouge nella figura del protagonista, quasi a confondere il lettore, affinché non abbia sempre chiara l’esecuzione temporale (perché è inevitabile: il pubblico cerca sempre gli agganci temporale e spaziale, è una necessità atavica) e che proprio in questo mancato appiglio scopra la chiave dell’indeterminatezza, variante che in certo qual modo ha una sua non circolarità ma chiusura a indefinito e infinito, fondamentale nell’insieme.
Il racconto è affascinante perché, attraverso l’origine della narrazione, che trae linfa da notevoli e diverse pubblicazioni di rilevanza mondiale, ci è presentato un protagonista, Yuzaf, che con altro nome ritroviamo dove era stato abbandonato alla fine di uno dei capitoli, “Il Grande Inquisitore” del magistrale “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. Sorprendentemente graziato dal Grande Inquisitore ma con l’ordine di scomparire e non farsi mai più vedere avendo lasciato il potere alla Chiesa, proprio lui, Gesù, tornato in terra per rimediare a quanto non è stato fatto dagli uomini nonostante il suo sacrificio, lui che ha un compito così fondamentale da assolvere, d’improvviso scopre di non essere più se stesso, neppure più morto, quasi resuscitato quindici secoli dopo, non a Siviglia, in Spagna, al tempo dell’ormai agonizzante Santa Inquisizione, ma in Italia, a Genova, nell’epoca attuale, non riabilitato si trova a palesare l’impossibile situazione di una totale assenza di personalità, identità, perciò osserva, e fra se e se annota minuziosamente le caratteristiche del posto, del percorso che affronta nella spasmodica e urgente ricerca di un rifugio, un nuovo calvario con le sue stazioni, ed è così che potrà riprendere coscienza e identità terrena. Yuzaf è ora uomo nel termine più vero, essere in balia della non comprensione, alla ricerca di se stesso e della causa prima. Infatti è Corto, uno dei personaggi che Yuzaf incontra in questo suo ultimo viaggio, a esprimersi nei seguenti termini:
[…] «Il solo fatto che tu stia tentando di giungere alla verità potrebbe essere la prova dell’esistenza di un ulteriore, questo sì che è plausibile. Comunque chiedi troppo, vorresti tutto o niente, non solo il “qui e ora”, pure il “dopo” che possa dare la risposta al “prima”. Vivere e capire, morire e riferire. Ah! Sei troppo romantico amico, io mi accontento di molto meno. A me basterebbe che la giostra in cui mi hanno ficcato si fermasse, forse non ti è ben chiaro chi sono e in quale dimensione fingo di muovermi» […]
Da lettore, il tratto forse più affascinante del protagonista è la sua sordità. Sì, Yuzaf non ascolta, pone interrogativi, disperatamente, quasi con arroganza e violenza, ma in realtà non ascolta la risposta, è come se fosse alla ricerca di un senso perduto senza possedere gli strumenti per averne compiutezza; in questa fase Yuzaf è uomo, tragicamente uomo, che nella sua egocentricità non comprende l’insieme che lo circonda, formato da personaggi della fantasia e della realtà a loro volta alla ricerca di un senso se non una via d’uscita dalla loro condizione. Forte, notevole l’esposizione del brevissimo incontro con Paperino:
[…] «Portava un berretto azzurro con banda nera e fiocco, direi da marinaio, infatti, mostrava grande rispetto per me. La blusa, anch’essa azzurra con due bottoni dorati, così come i galloni ai polsi, pareva una divisa. Non indossava calzoni ma stranamente non ci facevi caso, camminava scalzo, dondolando, e i piedi e la bocca erano arancioni, inconsueti, non saprei ma… le sue mani, pur avendo le dita e il pollice opponibile, non riesco a spiegarlo, assomigliavano alle estremità di ali, insomma di sostanza piumosa come il resto del corpo, bianchissimo. E la sua voce, la sua voce… era disperato. Diceva di chiamarsi Paolino, sembrava l’anello di congiunzione tra il primo anfibio e un piccolo papero, ed io così l’ho soprannominato, Paperino, mi sembrava non apprezzasse tale nomignolo… era così triste, indifeso, irascibile…» […]
Questo suo porre domande, avanzare dubbi e, in realtà, non trovare il tempo di ascoltare ogni responso, cela l’afflizione di dover recuperare la risposta definitiva, l’unica che possa soddisfarlo, la vera sentenza, la sola possibile: “Qual è la verità?”. Ecco una sua replica all’amico Srinivasa:
[…] «Bravo Ramanujan, tutto perfetto ma non come nelle tue equazioni perché su questo terreno è impossibile arrivare all’equivalenza allo stesso modo che nelle serie infinite di simboli matematici dove, al limite, si potrebbe quantomeno ipotizzarla, attribuirle un valore, inserirla nel calcolo. Qui no, rimane sempre un piccolo scarto, infinitesimale, la differenza residua, incolmabile anche per una mente come la tua. Non hai avuto necessità della mia conferma, ne sono certo, e di sicuro avevi intuito da solo come l’impalcatura scricchiolasse se non altro perché indimostrabile.» […]
Si dimena, Yuzaf, tra catene che non sono più quelle che lo imprigionavano fisicamente, ma in tutti gli altri sensi. Egli, infatti, è anche cieco, non vuole vedere l’evidenza, i suoi occhi sono coperti dal velo di Maya che gli oscura persino i presagi della salvezza, obliando sempre più la sua identità nonostante gli indizi per il conseguimento della sua liberazione che non riconosce, smarrendolo.
Il primo attimo di lucidità ci appare drammatico, lo si percepisce quando s’accorge di una presenza, da principio impalpabile, poi manifestatasi in quell’essere considerato alla stregua della feccia, un topo, che diventerà immagine potentissima lungo l’intero percorso accompagnando i protagonisti come entità dissolta ma sempre vigile fra le quinte di un teatro infernale. Sporco, malmenato, sterminato, ha la capacità di salvarsi, risorgere, percorrendo le vie più infere, non semplicemente adattandosi, ma immergendosi nell’immondo proprio quando tutto il sovrastante e soverchiante è ciò che rimane nella sola verità di un attimo.
[…] «Ci sarà un motivo per cui tu mi abbia suggerito di riconsiderare soprattutto gli ultimi istanti della vita di quell’uomo “perché in quel momento viene fuori la verità” dicesti. Che cosa accadde nelle ore di un supplizio che sono impresse nell’eterno divenire?» […]
E se fosse proprio questo uno degli elementi che manca a Yuzaf? La capacità di scegliere e discernere? Come già accadde sulla croce per la salvezza sua e dei suoi compagni di sventura? Abbandonando l’impossibile tentativo di far coesistere, fede e ragione? E se fosse angoscia la sordità di fronte all’evidenza di voler andare dritti per una strada che probabilmente non porterà a nulla ma che sembrerebbe l’unica? Egli pare fin troppo trasfigurato nel vivere questa sua “rinascita” (ed è lecito obiettare: Come potrebbe non essere altrimenti? Passare dalla condanna certa, anzi due, a una vita che però in nulla può correlarsi alle sue origini), ossia rimanere sempre distaccato, mancante di quella compenetrazione tra elementi che è fondamentale.
[…] «Il fatto è che io adesso ho assunto una diversa configurazione ai tuoi occhi. Così, di punto in bianco, improvvisamente sono un approdo, e tutto il resto per te è come si fosse pietrificato, ci siamo solo noi, vivi o chissà che altro, di fronte alle possibili risposte che cerchi» […]
Avvertiamo un crescendo nello scritto, un palesarsi ostile di una ricerca per ragione che ci appare di ostacolo, fuorviante, quasi un peso che siamo costretti a trascinare, una croce portata su spalle ferite. Percepiamo opposte energie, vissute in maniera ossimorica, che bruciano in quella che è nascita di consapevolezza, destabilizzando fortemente il lettore come il protagonista, che tuttavia non può e non deve fermarsi, per quanto sia impervia la salita.
Sembra chiara la necessità di rileggere tutto scegliendo un punto saldo, ma contestualizzandolo nell’insieme, poiché lasciarsi sopraffare dal pensiero unico ci porterà ancor più alla deriva. È così che il topo si rivolge a Yuzaf, parole che sgorgano dai neri riflessi di quegli occhi intelligenti, vivi, antichi, dove iride e pupilla sono rese indistinguibili:
[…] «Il sapere deve e può essere dominato, a lui la missione definitiva, conclusiva, la “quadratura del cerchio” […]
Allo stesso modo Ramanujan:
[…] «Ripeto, cosa faceva Dio avanti la venuta del profeta? Dov’era? Perché questo confine, in quel preciso giorno, ora, attimo in cui decise di occuparsi del mondo? Nulla di così terribile e raccapricciante era accaduto prima quanto gli avvenimenti verificatisi dopo il Suo intervento» […]
A Yuzaf la sola eterna domanda cui, in certo qual modo, alla fine darà una risposta nell’estremo tentativo di trasmetterne la chiave di lettura al più umile, quindi il più “vergine” degli attori che lo circondano, l’Oste, ed è proprio da qui che tutto potrà rinascere:
[…] «Mi comprendi? Hai sentito ciò che ho detto? Tu saprai “qual è la verità”. Sono stato chiaro? Non “cos’è la verità”. Rispondi, dimmi che hai afferrato la differenza» […]
Perché i dubbi che ci insinua Mauro Giovanelli alimentano il senso di vacuo, non semplicemente di vuoto, infatti, se ragioniamo, se meditiamo, pensando di poter credere l’opposto, non tenendo conto che il momento stesso in cui si realizza un concetto ne nasce il suo doppelgänger, abbiamo posto la base che porta in perdita, poiché non è a queste dimensioni che appartiene il senso, tanto meno le risposte. Ce lo dice chiaramente nel momento in cui afferma (nota 1 Capitolo = –1/12):
[…] «Quando si designa un “più” necessariamente s’indica e si fa nascere un “meno”. Questo è il nostro peccato originale, il voler conoscere il Bene e il Male… quando si “definisce” il “bene” automaticamente ciò che ne è fuori individua, per differenza, il “male” creato dalla mente poiché prima non esisteva. Superare questo modo di vedere le cose porta al Regno, alla libertà dello spirito.» […]
L’interpretazione, infatti, che raggiungiamo alla fine è proprio l’evidenza del fallimento della scissione, soprattutto del dualismo, e di come solo una concezione agglomerante possa dare la giusta chiave di lettura e svelare quel mistero che in fondo mistero non è mai stato. Ed ecco che tutti i personaggi mutano, disvelano la loro intima natura, come se da chimere avessero abbandonato le sembianze imposte per l’essenza “vera” (ed ecco che nuovamente utilizziamo questo termine di fuoco).
Perciò, a ciascuno degli “interpreti”, l’Autore fa rivivere, da spettatori, il proprio destino, fino ad arrivare alla nemesi (e qui torniamo al concetto espresso in precedenza, ossia oltrepassato quel limite, c’è solo da sperare che in un certo senso si possa ripartire solo dalle ceneri perché ormai nulla del prima è degno di essere salvato).
Allora eccoci giunti all’ecatombe finale, Yuzaf e i suoi compagni non permetteranno che la “crocifissione” si ripeta, a nulla è servita prima, ancor meno adesso, quindi “muoia Sansone e tutti i filistei”. Il progetto iniziale era sbagliato dalle fondamenta perciò tabula rasa, anche se quella sordida mano a quattro dita, comparsa dal nulla fin dall’inizio, si materializza ancora al solo fine di sottrarre agli uomini la chiave di lettura idonea al conseguimento della piena gratificazione, vivere la vita nel suo splendore.
Sconvolge, tuttavia, il dubbio che forse tutto non sia altro che il frutto della volontà di qualcuno o qualcosa, peggio ancora un delirio della sola materia:
[…] «Sei certo non ti abbia immaginato qualcuno? Chi ci assicura che noi, qui e ora, non siamo il parto di una entità che ci sta manovrando, osserva, determina il nostro parlare? Magari ciò che sto dicendo, sono parole sue pronunciate attraverso me. Hai mai valutato la possibilità che tutti si possa essere strumenti di un’allucinazione? Pensaci.» […]
Allora cosa fare? Che prove sono state raccolte? E qual è l’origine delle Scritture? Divina non sembrerebbe proprio:
[…] «E cosa vuoi che facessero i carovanieri nei rari momenti di riposo? Nelle “pause” pranzo? Quando si trovavano riuniti intorno a un fuoco o in solitudine consideravano la loro meschina presenza sulla Terra? Parlavano. Di grandi gesta, miti, leggende, imprese più o meno inventate o ingigantite, superstizioni, paure, elaboravano improbabili risposte, concepivano entità superiori a giustificazione dell’avvicendarsi degli eventi che li travolgevano. Non c’era mica la taverna sotto casa, gratificarsi era prendere la propria donna quando la carne gli ricordava di essere animali. Per il resto… parlare, fantasticare, sognare altri mondi tanto gli era greve il loro, idealizzare un salvatore, la guida, e alla fine pure crederci. Non è forse vero che in quella lunga storia ci sono solo disperazione e angoscia?».[…]
Quali possibilità restano?
[…] «Se siamo strumenti inconsapevoli di tutto quanto succede è inutile cercare un senso delle cose perché già lo abbiamo sotto gli occhi, in ogni momento della nostra esistenza, ed è nel semplice fatto di aver vissuto, interagito con ciò che ci circonda, compiuto azioni, aver influenzato il corso del destino, anzi averne fatto parte». […]
Il due che si fa uno, proprio sul finale, quando smette di interrogarsi e si abbandona al tutto, al destino, al fluire come suo lascito, quel lascito che la sua donna gli aveva chiesto, ma lui non ha mai compreso nella sua immensità. Ed è proprio da quell’ultimo bacio, riproposto in una veste speculare dall’amata rispetto a quello che gli aveva valso la grazia, che il nostro eroe trae origine, è una leggiadrìa attuale, un senso che si disvela e diventa comprensibile solo dopo aver attraversato il tutto ed essersi confrontato con la parte più profonda di se stessi, della propria natura più intima, che non ha il sapore beffardo della rinuncia alla propria identità ma quello della sua completa realizzazione. Già! La propria natura, infatti è con un potente racconto-metafora che chiude il testo, quello dello scorpione e della rana, che per altro Mauro Giovanelli approfondisce con grande interesse nelle note. Che vuol dire “la propria natura”? Che cos’è realmente? Ci sembra quasi negazione del libero arbitrio poiché ad essa incatenati, allora, in una circolarità senza fine si torna al dubbio di essere figli del delirio per uscirne l’istante dopo. La risposta è personale, dipende dallo sguardo lanciato oltre, e anche quando tutto sembra racchiudersi (e non rinchiudersi) in un ritrovato equilibrio, interviene la variante personale che non può esser trascurata, diventando piuttosto quell’assoluto, la costante statica, immobile, la sola realtà cui tutto confluisce e da cui tutto riparte. Pamela Michelis
Là in fondo, alla fine del parco, appena dietro il cimitero, erano fredde le tue cosce, denso e madido profumo di fiori morenti riempiva le narici, e al riparo della sottile nebbia l’ultimo cigolio dei cancelli diede voce al silenzio, e nella spenta luce tutto si dissolse fra le tue mutandine, e baciarti fu importante.
Down there, at the end of the park, just behind the cemetery, your thighs were cold, dense and damp scent of dying flowers filled the nostrils, and in the shelter of the slight fog the last creaking of the gates gave voice to the silence, and in the faded light everything dissolved in your underwear, and kissing you was important.
Ricordo il giorno in cui quel preciso istante già apparteneva al buio. E la brezza di mare era insolente, e la terra faticava intanto che guardavo a ponente, avere sempre più spazio nel dirigermi dove tutto finisce e ogni palpito si rigenera. Questo il pensiero che mi ha sfiorato mentre le tue fragili ossa ho stretto a me, un bacio sulla fronte, la mia carezza. Stanca, fra le mie braccia ti sei rannicchiata, eterna la tua delicatezza nel cogliere lapilli di vita.
Non puoi muoverti, sei ostacolata, lo so, la posizione, le mie labbra, ti sono talmente sopra, incollati, sudore, le tue gambe, ci sto in mezzo, anche volessi sei impedita a chiuderle, ed è piacere tuo, anche questo so, e mio nel sapere che comunque lo determino io, con gomiti e avambracci ti stringo ai fianchi, le mani si afferrano, forte, al tuo petto, non da farti male, ci vado vicino, quanto basta a te, a me, noi lo sappiamo, lo chiedo, ti ascolto, orecchie e bocca, lingua e saliva, femmina e maschio, siamo animale alato compiuto, e tu così dischiusa a me, si vola a perdifiato, ascolta, guarda, là, ti amo, in questo mondo e in quello che verrà.
You cannot move hampered as you are, your position, my lips, I am so much on top of you, glued to each other, sweat, your legs are in the way, even if you wanted to, you are prevented from closing them, and the pleasure is yours, the thought mine – that, however, I decide, with my elbows and forearms I am squeezing your sides, my hands powerfully grasp your chest, not to harm you, I draw close, just enough for both of us, we know, I ask, I listen to you, ear and mouth, female and male, perfect, winged quadruped, and you so open to me, breathless flight, listen, look, there, I love you, in this world and the one to come.
Immagine in evidenza: L’alba su Marte dal video del rover Perseverance della NASA
Infinito (Il suo bacino)
Hai puntato sull’incomprensibilità ingannando gli amanti di lunghe notti trascorse sotto ogni cielo. Quanti si sono prostrati all’ignoto delle tue innumerevoli pupille, ciascuna di natura e intervallo diversi, a volte velate dall’incostanza dei riverberi lunari. Non pochi sono impazziti senza penetrare il tuo mistero, tanti vi hanno dedicato l’esistenza, i più si sono dati semplici risposte al fine di imporre il loro potere. Incapaci di abbracciare la tua grandezza decisero di sostituirti con un dio, se vogliamo più debole e mortale di ciò che sono io. Oltre la spessa tela il vento mi ha parlato, ti ascoltavo, mentre disteso sulla duna osservavo la tua natura, sapevo esserti vicinissimo, la contrazione della distanza non era più solo tuo prodigio, ti ho sentito a meno di un ennesimo, poi accanto, ci siamo toccati, e questo vale per qualsiasi cosa ti appartenga. Mai più lancerò sogni nelle tue sinuose curvature, adesso sei me e ogni altra lunghezza, in qualsivoglia direzione, non esiste, siamo qui, insieme, nell’indefinito, appostati negli incalcolabili punti di riferimento che poi, alla fine, anche al principio, ciascuno è pure nostro centro della percezione di spazio e tempo da cui origina il vuoto e tutto quanto. Il tuo limite è la luce, costante, così ho capito, questa la tua debolezza, quindi mi hai mostrato il fianco e son ora tua misura di riferimento. Null’altro potrebbe sussistere nell’infinitamente grande e nell’immensamente piccolo senza rapportarsi alla mia massa, dunque sta in noi la creazione. Questo ho pensato nel riflettere la sua figura, camminava spensierata, gioiosa veniva verso di me, i piedi affondavano la finissima, tiepida sabbia così in pochi secondi le sono andato vicino, e in quella frazione ho compreso che la primigenia fonte sono dimensioni e forma del suo bacino.
L’altra faccia di Giacomo Leopardi (Ancóra) Forse avrei dovuto dire qualcosa quando, con fil di voce, stai attento amore, ricorda che sono ancóra fertile. Mica per altro sai, è quell’incostante vocabolo che mi fa pensare, parola detta in diverso modo, e differente causa, e l’avverbio non ferma il tempo, lo invoca, ed è imperativo mentre le tue gambe m’imprigionano con inaudita forza, e l’attimo che col bacino spingi nel farti coppa, noi, l’un l’altra ancoràti, siamo scandaglio di questo immenso mare.
The other side of Giacomo Leopardi (Still) Maybe I should have said something when, in a low voice you indicated, carefully, honey remember that I am still of child-bearing age, not for any other reason, you know, it is just that such a fickle word makes me think, a word uttered in a different way, and for a different reason, and the adverbs still and again do not arrest time, they invoke it, and it is an imperative while your legs imprison me with strength never experienced before, and the instant you push with your pelvis to make yourself a recipient, still anchored to each other, we are a sounding line of this immense sea.
… e niente, ci fu una guerra mondiale, poi una seconda, era il ventesimo secolo e, bene o male, tutto sembrava procedere, forse perché pochi, quasi nessuno si rendeva conto del terzo conflitto in corso, sommerso, esportato, nascosto, sottile, ingiusto, comunque si superò il ventunesimo, proprio quello del mille e non più mille, può darsi sia stato il sospiro di sollievo per lo scampato anatema, o più semplicemente disequilibri venutisi a creare fra le superpotenze, poche fra l’altro, una o due, poi tre, insomma si scatenò una specie di apocalisse, quella tanto temuta, chissà non ci fosse stato un errore di vent’anni, tutto può essere, o no? Il fatto è che un virus più o meno intelligente si insinuò fra le genti, tutti indistintamente, bianchi, rossi, gialli, simpatici e antipatici, era cominciato da una parte ma ebbe origine dall’altra che poi infettò anche la povera ma bellissima penisola in cui mi trovo, da qui, o da lì, di preciso non si sa, oppure sì, andò a nord, nei vecchi possedimenti romani, addirittura varcò gli oceani, insomma sto cercando di vederci chiaro, vai tu a capire che cazzo potrebbero inventarsi per distruggere quasi tutto e ricominciare a giocare. Ma con chi? “Chi gioca in prima base, non te lo chiedo te lo sto dicendo. Chi gioca in prima base? Chi!” (*)
(*) Celeberrima comedy routine “Who’s on first” di Abbott & Costello (Gianni e Pinotto) rappresentata per la prima volta nel ‘36 al “Katie Smith Radio Hour” ripresa nel film “Rain Man” del 1988 interpretato da Tom Cruise e Dustin Hoffmann.
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