Addio, Mr Chips!

Papà ed io, alle spalle Giannino, l’amico di sempre.
Addio, Mr Chips!

Più volte m’è stato chiesto
che cos’è la poesia,
o la prosa,
impulso a esprimerel’intangibile,
questa dannazione, condanna,
ed ho risposto sempre male,
sbagliato.
Un certo giorno,
dopo essermi esaltato,
dissi che è sorta di scrivere
sotto dettatura di un alto principio,
come se i predestinati a interrogarsi
fossero eletti,
invece non è proprio esatto.
Comporre significa
voler spiegare
misteri che solo tu vedi,
non esistono,
molti neanche lo sono,
originano da te,
alla fine si torna al principio,
è investigare l’infinito tuo,
l’effetto di trascinamento
per quella volta,
tanto tempo fa,
che hai capito la vita
esser anche malata,
quando sei scoppiato a piangere,
da solo, disperato,
sulla copertina del libro di papà,
appena terminato di leggere
“Addio, Mr Chips!”,
tutto qui.

© Copyright Mauro Giovanelli “Pulsionale poesia III Millennio”, l’amore da qui all’eternità – “Le tessere del pàmpano”, in forma di poesia – “Settantanove scritti o giù di lì”, vita, amore, morte, i soliti discorsi…

IMMACOLATA DI ME

Scultura Pietro Guida – Foto Mario Sorcinelli

Immacolata di me

Nel tempo ho capito,
che sei potere dell’anima
l’avevo solo intuito.
Dare e avere,
dopo e prima
sono in te.
Neanche nocchiero
delle mie pulsioni,
schiavo della passione,
considero possesso
la penetrazione
della carne,
invece ti appartengo,
mi genufletto e tu,
per l’eternità,
da me immacolata,
ecco cos’è.

© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Pulsionale” 3a edizione
© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Affinché morte non ci separi” 1a edizione febbraio 2023
© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Settantanove scritti o giù di lì, vita, amore, morte, i soliti discorsi” – “Seventy-nine writings or thereabouts, life, love, death and the usual” 2a edizione febbraio 2023

Translation Italian-English: Philip Mc Court.

Immaculate for me

  • Over time I have understood,
    that you are power of the soul
  • formerly mere intuition on my part.
    Giving and having,
    before and after,
    I am in you.
    Not even helmsman
    of my own pulsions,
    slave to passion,
    I consider the penetration
    of the flesh
    possession;
    conversely, I belong to you,
    I genuflect and you,
    unblemished by me,
    for eternity.
    That’s what it is.

© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Seventy-nine writings or thereabouts, life, love, death and the usual” 2a edizione febbraio 2023 – “Settantanove scritti o giù di lì, vita, amore, morte, i soliti discorsi

Mare verticale

photo by Mauro Giovanelli

Il mare verticale

Ho visto un mare così genovese,
ligure, invernale, denso e alto,
superiore,
come ineffabile ala protesa,
e sulla battigia si faceva mano,
e le bianche dita parlavano
dicevano qualcosa,
i sassi, la sabbia rispondevano,
non è stato vano
ascoltare questo vento…

© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Le tessere del pàmpano – in forma di poesia” – Seconda Edizione

ORIZZONTI

photo by Mauro Giovanelli

Orizzonti

… quante volte ho trascorso la primavera
a fare progetti, vagheggiare il futuro,
adesso ne ho quasi paura,
passo il tempo a ricordare
ogni proposito toccato e svanito,
m’impigrisco nella nostalgia
quasi fosse la sola distrazione,
forse indolenza, cronica malattia,
timore di fare del male, riceverlo
ricadere nella sana follia.
Marzo sta finendo,
l’aria tiepida giungerà in aprile,
da lì a breve il caldo, estate.
Batteranno il ritmo della vita
le città deserte, svuotate,
come ora le spiagge,
voci lontane, ovattate…

© Copyright 2023 Mauro Giovanelli – Pulsionale poesia III Millennio – L’amore da qui all’eternità – Terza edizione

Correvo o Mi sono fermato un istante

Correvo
o
Mi sono fermato un istante

Correvo, e volando su tutto, godevo.
Mi sono fermato un istante a pensare, ho visto lontani bagliori, incontri, lavoro, emozioni, passione concessa e voluta, esatta e negata, sesso, il seme versato, le cose di sempre.
Riemerge costante un rimprovero ingiusto, il torto subito, le figlie cresciute, due ceffoni mal dati, occasioni perdute di sogni mancati, il tempo è compiuto.
Mi sono fermato a pensare che ero immortale invece finisco, non avevo confini e son quasi arrivato, la grande giocata su un piatto importante, prevista, geniale, efficace, la smorfia del viso ha tradito il mazziere e un batter di ciglio mi ha detto le carte.
Allievo, ufficiale, scrittore bandito, insegnante, dirigente d’azienda, mi chiedo perché, eppure ho imparato, caserma in rovina, il registro smarrito, altoforno crollato, la pagina bianca.
Adolescenza vissuta selvaggia, audace, eterna, la stanza e il cielo, rock duro, amici, ragazze, Beatles e Mireille, i baci segreti, la moto nascosta e seta che copre la pelle di lei, il piacere mi basta, che sballo la Crota, il pensiero rivolto a due cose, la seconda è amore che dopo ha regnato, allora era più per la vita.
Mi sono fermato un istante a pensare Pike Bishop e il suo mucchio, la porta di Ethan che apre al passato, la ruota che gira, la serie vicina ma quando decide è sul sei la pallina.
Non amo la rima, è così, ve lo giuro, eppure s’insinua impensata, un colpo vigliacco, inatteso, regali ne ho avuti e sfasciando gli involti mi sono piaciuti.
Ecco! Vedete? Ci son ricascato, ne esco, mi fermo.
Adesso ci siamo, un fulgore m’avvolge, la mamma al mio fianco ha chiuso le entrate dei posti sbagliati, moglie indifesa, papà è volato, l’astuccio fedele di plastica lucida, all’interno pastelli e il colore annotato, il banco, lavagna, segni ammiccanti, ed io non capivo l’inganno nascosto.
Ho ripreso baldanza, indago il futuro, la serranda abbassata è perfino uno strappo, mi fermo di nuovo, rifletto, ma ancor più piegato.
Il traguardo vicino, lo studio accurato di un gesto maldestro riemerso improvviso, gigante. Ancora? Era cosa da poco gettata nel sacco del niente.
Ma io sono tosto, e che cazzo! Per quale motivo tornate a giocare? Mia sorella davanti a fermare i cattivi mentre io custodisco le biglie vincenti.
Il sole non lo riconosco, adesso è una stella, nient’altro, e lo sciocco che andò sulla luna non è più tornato.
Mi sono voltato a guardare Lucrezia, i suoi occhi raggianti, il viso stupendo, l’astuccio contrario, gli atti indistinti, è la piccola Angelica a sfiorarmi la guancia, una dolce carezza, ritorno al presente.
La cucciola dice: “Tranquillo, noi andiamo spavalde, il mondo è bello e lo avremo, ci piace, rallenta.”.
Lulú acconsente, allora le stringo sentendole mie, ritorna la forza, distribuisco le carte, faccio ancora una mano.

© Copyright 2016 Mauro Giovanelli “Tracce nel deserto”

La poesia “Correvo” o “Mi sono fermato un istante a pensare” è stata pubblicata da “Memoria Condivisa” il 02 marzo 2016

Dalla risacca…

Prefazione

«L’ottimista pensa che questo
sia il migliore dei mondi possibili.
Il pessimista sa che è vero.»

(J. Robert Oppenheimer)

Perché amiamo gli aforismi? Probabilmente per il piacere che ci dà il poter condensare un senso più ampio in una limitata perfezione. La bellezza dell’aforisma, infatti, risiede proprio in questo, nel fascino di un’espressione complessa e articolata custodita nell’essenzialità, nella brevità, nell’equilibrio, in quel morso rubato alla vita che tanto ci stimola e infiamma. Potremmo paragonarlo all’incanto del bacio nell’ardore della sua prima volta che riesce a essere infiniti colori e sapori tutti insieme, in questo caso stupendoci sempre, a ogni passaggio, vergine anche nel suo ripetersi.
Scrittore a tutto tondo, dopo la sua prospera esperienza letteraria nella poesia e nella saggistica, Mauro Giovanelli ha deciso di confrontarsi in questo campo solo apparentemente semplice e in realtà complesso, poiché richiede quel bilanciamento interiore e intellettuale non indifferente e soprattutto l’accuratezza d’idee e intenti in una padronanza linguistica incontrovertibile. Questa sua opera, dunque, ci arriva carica della nostra curiosità, poiché affascinati di sapere se la sua perspicacia poetica e la raffinatezza tipica del suo poetare possano riscontrarsi anche in questo contesto. Non rimarrete delusi, al contrario si resta imprigionati dalla verve tipica della sua scrittura che ancor più riscontriamo qui, nella scelta sopraffina delle parole, il loro musicale accostamento, il carico dell’esperienza uniti alla forte portata interpretativa maturata in anni di dimestichezza con la composizione più articolata.
Ecco, con questi suoi motti, adagi, spesso tradotti in dialoghi secchi, botta e risposta, racconto breve, Mauro Giovanelli si fa esegeta, perché riesce, con arguzia e mai sarcasmo, a centrare la questione, a proporre spunti di riflessione esistenziali e filosofici per gli orecchi di chi non si limiterà a leggerli semplicemente, bensì ne vorrà trarre prezioso spunto interpretativo per una più personale conoscenza.
Apprezziamo molto in quest’opera la decisione di lasciare gli aneddoti liberi, in ordine sparso, casuale, del resto la silloge è una raccolta di appunti, interrogativi e osservazioni anche lontani nel tempo. Evitare quindi di racchiuderli, come fanno molti, in aree tematiche è una scelta non solo azzeccata ma che denota come sia vivo e chiaro il loro senso più vero, quello di non essere legati a una schematicità o a un pensiero razionalmente fisso, bensì prediligere la necessità comunicativa, partorire maièuticamente non tanto l’idea quanto l’essenza.
A farci compagnia, poi, è il gusto espressivo che da sempre accompagna Mauro Giovanelli, per cui la scrittura è qualcosa di talmente personale e intimo da potersi permettere una sfacciataggine con la parola ardita, l’iperbole più che temeraria, come si fa con l’amico di vecchia data, fratello e complice, a volte assumendo toni bruschi, fin troppo diretti, sovente provocatori, oltre il limite del pensare comune: La vera libertà nei “rapporti” di qualsiasi tipo è non doversi mai scusare della sincerità, un legame, il loro, di lunga data, proficuo e appassionato.
Pamela Michelis

SCRIVO A PASOLINI

Prefazione

«Il mondo non mi vuole più
e non lo sa.»

(Pier Paolo Pasolini)

Degli anni dell’università, ricordo con chiarezza molti esami ma in particolare la tematica di uno, il corso era “Letteratura italiana moderna e contemporanea” e verteva solo su Pier Paolo Pasolini. A pensarci oggi, mi tornano alla mente diverse situazioni – universitarie e culturali, di più ampio respiro – in cui Pasolini “spuntava fuori” in contesti di divulgazione che allora mi davano la sensazione di “qualcosa d’insolito”. Oggi, leggendo l’opera di Mauro Giovanelli, questo pensiero si è fatto improvvisamente chiaro e, con un po’ di pazienza da parte del lettore, proverò a spiegarlo meglio.
Il Professore ordinario – che, fra l’altro, scriveva anche per “L’Osservatore romano” – cuore nobile, fine e appassionato letterato, a una lezione disse, quasi sconsolato, che dopo Pasolini non esisteva più nulla; aveva da poco presentato un testo sul grande poeta in cui passava in rassegna alcune opere letterarie del Maestro collegandole a quelle cinematografiche, in particolar modo soffermandosi su “Petrolio”, ultimo, discusso, postumo e incompiuto lavoro.
Ricordo con nitidezza la sua pubblicazione, le sue lezioni, e per come mi arrivasse, giovane studentessa, quella che ora potrei chiamare la passione degli incompresi, ossia il cercare di trasmettere un amore – a tratti venerazione – non tanto per un autore e l’eredità che ha lasciato, quanto per le idee, i messaggi che percepivo fossero stati recepiti dal docente alla maniera di un’illuminazione che, a sua volta, avvertiva l’esigenza di diffondere quale discepolo del profeta. Questo pensiero mi sembrò strano, forse eccessivo, non avevo ancora gli strumenti per materializzarlo diversamente (e correttamente). Teniamolo però un attimo da parte, ci tornerò.
Più avanti diedi l’esame, robusto e altrettanto bello, di “Storia e critica cinematografia”, ed ebbi la fortuna di sostenerlo con altro professore emozionato e profondamente amante del suo incarico allo stesso modo del mio primo insegnante.
Tra i tanti libri e documenti da visionare era contemplato il monografico su Pier Paolo Pasolini, con le pellicole “La Ricotta”, “Accattone” e “Teorema”. Questi tre film, in diverso modo, mi avevano scosso, lasciandomi una profonda malinconia, percezione di perdita, anzi di smarrimento, come di abbandono, ed avevo faticato a lungo non tanto a capire, quanto a convincermi che potesse essere reversibile, cioè guarire, per come ero profondamente certa, all’epoca, che il riscatto, l’opportunità e il miglioramento fossero veramente alla portata di tutti. Un parallelismo mi ha fatto realizzare, più di quindici anni dopo, che non era il riscatto che dovevo cercare, ma un senso umano vero, che invece profondamente credo possa esistere di là dal contesto sociale. Ci sono arrivata con la visione di “Non essere cattivo” (2015) di Claudio Caligari, film dove, per tanti aspetti, ho ravvisato un filo di connessione proprio con “Accattone”, e non solo per gli scenari di una diversa Roma di borgata.
Questo apparentemente inutile preambolo, in realtà, dà la dimensione di quanto il testo di Mauro Giovanelli mi abbia colpito accompagnandomi in una riflessione più sincera e matura. Leggendo le sue pagine, infatti, mi è arrivato un dialogo intimo ed emozionante non solo con un letterato, un uomo, bensì con un’entità di pensiero; ho avuto l’esatta sensazione che Mauro Giovanelli arrivasse a Pasolini, ne oltrepassasse la carne e potesse scorgere, come con un terzo occhio in grado di percepire realtà situate oltre la visione ordinaria, un valore nascosto del Poeta, un moto interiore che, attraverso l’Autore, non smette di vivere per tutti.
Lo vedo perché Pasolini, tra le sue parole, non è semplicemente capito o assimilato, neanche solo amato, è scrutato, analizzato, interrogato, contraddetto. È così che si costruiscono i veri e proficui rapporti, non accettando passivamente ma mettendo in dubbio, confrontandosi senza dogmi precostituiti, dunque attraversando a piedi nudi quella landa d’incertezze che abbiamo di fronte.
Ed ecco allora che prende vita un libro che accompagna il lirismo più puro a una prosa riflessiva, arguta, in cui opere diverse procedono su un binario comune, a costruirne uno immaginario di cooperazione divulgativa, perché se è vero che leggendo Pasolini una cosa mi è stata da subito chiara, ossia l’intento non solo di parlare di sé, bensì farsi portavoce, di tanti, dei molti, e di un mondo che si celava nel buio del non visto che, per quanto inesistente agli occhi della borghese quotidianità, prosperava in un mutismo, spesso sofferente, ma altrettanto carnale e viscerale nella sua apparente staticità.
È un dialogo, quello che si viene a creare, ininterrotto, un rapporto speciale che alcuni hanno la fortuna di provare e trovare in un’anima con cui si coglie una sorta di affinità elettiva e che, il più delle volte pur senza saperlo, riesce a dare un’interpretazione al nostro sentire, alla nostra volontà (e necessità di comprensione).
Infatti, Mauro Giovanelli scrive:

«Credo di essere entrato nella mente di Pasolini per il semplice fatto che nel momento in cui ascolto la sua parola essa s’incastra perfettamente con il mio ragionare.».

E ancora:

«Ho scritto molto su Pasolini, pure “Io credo in Pasolini” quasi fosse una preghiera, “Ultimo Messia” per elevarlo al rango (laico) che gli compete, altre cose che tengo per me poiché quando gli parlo mi sento libero e non legato a stereotipi, modelli, stampi. Che cosa pagherei per fare una chiacchierata con lui.».

L’intera opera è ricca di questi momenti che elevano ulteriormente il lirismo che si cela anche nella prosa più cruda, sprezzante, per quanto sempre raffinata, poiché il messaggio che Mauro Giovanelli vuole comunicare è di ben più ampio sguardo: È togliere il poeta dalla teca degli sterili idolatranti di Pasolini – sul cui agire per divulgarlo e comprenderlo molto ci sarebbe da dire – e questo proprio per liberarlo e restituirci un’immagine affrancata, non quella iconoclastica che l’ha sostituito, in particolare dopo la sua morte, tanto discussa ma certamente per i motivi sbagliati, dimenticando – e ci verrebbe da dire volontariamente – tutto un lavoro importante del poeta originario di Bologna ma friulano nelle viscere, che esula da congetture e pettegolezzi.
Più avanti:

«Molti scrittori, direi un’infinità, si sono dedicati a scrivere in merito alla morte di Pasolini, mille e più mille sono le ipotesi al riguardo, comunque l’alone di mistero che circonda questo grave delitto persiste fitto sull’immagine del suo cadavere martoriato. Fra l’altro non si è mai arrivati a qualcosa di concreto. Invece nel mio libro considero il suo massacro ineluttabile, scritto nelle pagine del destino, cioè “dovuto” proprio per elevare la sua figura e il suo impegno sociale al rango di Messia, l’ultimo, un predestinato al martirio, come Gesù di Nazareth e altri profeti.».

Ecco che torniamo a quella riflessione iniziale sul riconoscere un profeta. Credo che profeta possa significare molte cose, che vanno oltre il senso meramente religioso, è quella capacità di essere guida pur senza saperlo e volerlo, perché con la parola, la propria arte e con la propria esistenza si diventa faro, messaggio assoluto, e credo sia questo l’elemento che Mauro Giovanelli riconosce in Pier Paolo Pasolini, perché avvertiamo che il poeta sia vissuto e continua a essere tra noi per tramandare un ufficio importante, non potendo tenere scisso il suo piano quotidiano da quello emozionale e da quello creativo. È una fusione centralizzante che, credetemi, non è scontata né di facile gestione. Nelle parole accorate che in più punti l’autore rivolge allo scomparso scrittore, c’è proprio questa immensa forza prorompente, questo cercare, scavare senza sosta, e sempre al massimo della volontà, perché essa ci permette di lambire lidi sconosciuti, di amare nella sofferenza e di farne tesoro, bellezza, insegnamento e… tenerezza.

Infine:

«Dunque tu chi sei Pasolini? Perché ti soffermi a declamare una tragedia tra le quinte di un palcoscenico inesistente? Quanto sono tese le tue corde? Dove potrebbe arrivare la sensibilità di cui ti nutri a ogni istante?».

Concludiamo proprio con questo climax interrogativo perché non potrebbe essere altrimenti, perché solo nel porsi domande continuamente – domande vere e spesso scomode – non spegneremo mai la fiamma della vera conoscenza.

Pamela Michelis

Affinché morte non ci separi

Prefazione

«Se non hai quel grembo
entro cui riversare
ogni lacrima delle tue ferite,
verso sera si va incontro a se stessi…»

MG

Con questa sua ultima raccolta poetica data alle stampe, “Affinché morte non ci separi - Poesie d’amore”, Mauro Giovanelli realizza quella che possiamo definire un’opera di assoluti. Intendiamo, per assoluti, due opposti totalmente distanti, eppure, a ben guardare, costretti a un legame indissolubile che li vincola alla reciproca esistenza. Il più conosciuto è sicuramente Bene/Male: quante volte, infatti, abbiamo letto di come un aspetto esista solo in funzione dell’altro e viceversa?

Mauro Giovanelli, però, in questa raccolta, si concentra su altri assoluti, che crediamo siano ancora più potenti: Eros e Thànatos.
Senza avventurarci in disquisizioni troppo filosofiche o freudiane, possiamo riassumere molto brevemente il concetto dicendo che Eros è la pulsione di vita, quella spinta inarrestabile che ci motiva verso il soddisfacimento di sé, la ricerca del piacere, l’appagamento dello spirito e della carne; collegato vi è Thànatos, uno stimolo altrettanto potente ma distruttivo, spesso inarrestabile – e comunque inevitabile – con cui dobbiamo imparare a convivere. Nondimeno, Thànatos può anche essere letto come forma di difesa dalla paura della morte, che perde dunque il suo carattere distruttivo e torna a essere una forza evolutiva, e quindi imprescindibilmente legata con lo slancio vitale e l’impulso anche sessuale. Solo nell’equilibrio tra le due può esserci eternità.
Ecco dunque che con le sue poesie Mauro Giovanelli li supera entrambi e ci porta a conoscere l’incontro di anime e di corpi che va oltre il presente, attraversa quella soglia mortale per inoltrarsi nell’indefinibilità di quel che non possiamo conoscere.
“Affinché morte non ci separi” è l’elogio definitivo a una dualità che non si arresta con la cessione delle funzioni vitali e, infatti, vive anche quando agli amanti vien meno la vicinanza, poiché sono le anime a essere collegate, e la fisicità che prende vita è potente e stremante quanto lo sarebbe quella tangibile, lasciando in più un’irresistibile perdizione di sensi data dallo smarrimento momentaneo di sé.
Non a caso una delle immagini dominanti che ricorre nella raccolta è proprio quella del bisòmo, termine con cui, nelle catacombe, s’indicava una sepoltura doppia: tecnicamente sono proprio i loculi orizzontali nelle pareti realizzati spesso per contenere due salme, di solito marito e moglie.
Ogni poesia diventa bisòmo: scrigno sacro destinato a conservare l’immortalità di un ricordo, ancor più di un amore, e anche se la materia si disgrega in polvere, la presenza del sentimento vive perfino attraverso questa dissolvenza, ossia la sacralità di due anime che si sono incontrate e che attraverso la parola sigilla la loro presenza terrena e ultraterrena, perché senza definire un oltre, esso esiste comunque, lo sentiamo tra queste pagine ogni volta che le anime comunicano in modi che non riusciamo neanche a immaginare.

[…] Mi ascoltavi, ripenserai all’infinito che proprio perché tale ha il suo limite, una volta concesso all’universo d’esplorare ogni gioco, lo costringerà a cavalcare ciò che è stato, rimodulare il destino con le medesime pedine […]
(Torneremo)

Però il lettore un poco più spregiudicato potrebbe chiedersi se in realtà Mauro Giovanelli non stia adoperando una metafora e questa morte, anzi l’andare oltre la morte, non sia anche simbolo della perdita di (del) sé nell’altro. Il dubbio è lecito: quando la perdizione di sé nell’altro è compiuta, perché tracimano i margini
che un’intera esistenza ci ha imposto, che cosa succede al sé più profondo? È forse l’esperienza più “terrificante” che abbia provato chi, appunto, si è annullato nella perdita dell’amore: lo smarrimento di sé equivale a una vera e propria morte e l’altro diventa un luogo ultraterreno da raggiungere disperatamente, il paradiso promesso per ritrovare se stessi.

  [...]Fossi specchio
      il tuo bagliore
      attraverserebbe
      indefinitamente
      l’universo mondo
      per riposare
      alle mie spalle
      l’eternità. [...]
      (Fossi specchio...)

Ancora:

[...] Amore,
      amare,
      essere amati,
      amaro averli perduti,
      così da rinunciare
      all’affilata luce del sole
      che leviga ogni dolore
      e ombra benevola
      accoglie tregua, silenzio,
      mentre la vita scorre
      come carezza
      sul muso del purosangue
      che sta guardando il cielo. [...]
      (I divini cavalli di Achille)

Forse abbiamo proposto un’interpretazione un po’ azzardata, ma in fondo stiamo parlando di assoluti, di terre sconosciute e dunque di confini superati nel buio più completo… (pensiamo al componimento “Al centro”, per esempio):

[…] e sarà amore totale, fluido, i nostri corpi ci faranno toccare confini mai neppure immaginati, fino a coprire tutte le direzioni, e noi sempre al centro. […]
(Al centro)

Ma è in realtà l’amore, la sua nascita, il suo dirompente prendere vita che si contrappone alla morte stessa pur essendone sorella. La convergenza di entrambi raggiunge l’apice nel brano in cui lo stimolo vitale tramite la fisicità è lasciato libero di incontrarsi e scontrarsi in un luogo estremo, è una collisione pari a un big bang animico:

 [...] Là in fondo,
       alla fine del parco,
       appena dietro il cimitero,
       erano fredde le tue cosce,
       denso e madido
       profumo di fiori morenti
       riempiva le narici,
       e al riparo della sottile nebbia
       l’ultimo cigolio dei cancelli
       diede voce al silenzio,
       e nella spenta luce
       tutto si dissolse
       fra le tue mutandine,
       e baciarti fu importante. [...]
       (Il giorno dei morti)

Il fatto che la raccolta si risolva con una poesia intensa come “Il prossimo incontro”…

  [...] Il prossimo incontro
        sarà più o meno così,
        intanto vederti,
        una carezza sul viso,
        di quelle che non si dimenticano,
        tu alzerai il mento,
        respiro corto, intenso,
        come lupa che fiuta il vento,
        abbraccio forte,
        ti stringerò in vita,
        la mano scenderà lieve,
        risoluta, calda,
        e questo per portar via qualcosa di te
        oltre il bacio,
        e la tensione della tua nuca. [...]
        (Il prossimo incontro)

…lascia aperte altre vie interpretative, fa pensare che in effetti tutto sia un presagio di nuova vita, non un semplice rinnovarsi, piuttosto un trasmutare completo che avvia una nuova ciclicità del divenire che nondimeno transita nella carnalità e nell’amore ma esiste solo perché le anime hanno saputo superare l’averno della fine e sono ora proiettate verso un infinito di luce immateriale, però sempre all’insegna del conosciuto: lo sguardo di chi amiamo.
Pamela Michelis

Pulsionale poesia III Millennio

Prefazione

L’essere umano non è nato – filosofeggiando si potrebbe persino dire “progettato” – per mantenere un’opinione fissa, costante, egli è una sorta di ossimoro vivente, un coesistere di opposti nel tempo… ed è bene che sia così. Si potesse indagare scrupolosamente nel passato di quelle persone che affermano con risolutezza di avere sempre la stessa opinione su un’idea o un concetto, si scoprirebbe quanto dicano il falso, spesso senza neppure averne coscienza.
L’uomo – infatti – è frutto degli eventi, delle esperienze e spesso in lui convivono termini contradditori, ossimori appunto, idee e pensieri totalmente contrastanti che pur tuttavia vivono in perfetto equilibrio poiché costretti ad attraversare i veli del tempo.
Questo ci porta alla riflessione che in alcune menti più illuminate, ossia predisposte a un’apertura intellettiva – potremmo dire metafisica – che vada oltre il loro essere per abbracciare un infinito dal senso più alto, lo stravolgimento delle percezioni sia qualcosa d’impossibile da evitare, una vera e propria impellente e predestinata necessità.
Mauro Giovanelli appartiene a questa categoria di uomini che costantemente mettono in discussione il tutto: non sono mai paghi di porsi domande e nel mantenere punti fissi quei valori imprescindibili, particolarmente capaci di orientarli pur lasciandoli liberi di sperimentare, sono alla
continua ricerca di una forma per misurare la sostanza dell’essere, consapevoli della sua transitorietà poiché costantemente in divenire.
Nasce così “Pulsionale poesia III Millennio – L’amore da qui all’eternità”, una silloge che affonda le sue radici nella vasta produzione dell’Autore rispondendo all’urgenza di inserire il nuovo anelito di vita in un contesto amico, familiare, confortevole qual è, appunto, la serie delle sue opere.
Perché questo?
Ce lo svela lo stesso Autore in un verso che dice tutto, che sa d’infinito: “Abbiamo ancora futuro” in chiusura della lirica “Nessuna messa è detta”.
Ecco, la creazione poetica di Mauro Giovanelli fa pensare a un’opera futuristica com’è stata “Forme uniche della continuità nello spazio” di Boccioni, solo che qui è applicata alla scrittura: un movimento perpetuo elegiaco che va verso il divenire, ma nella materica essenza che si rinnova pur senza destrutturarsi. Allora ritroviamo quel sentire familiare nella presenza “femmina”, selvaggia eppure innocente, che trascende in maniera estatica il sentimento – anche carnale – che nulla ha da invidiare alla purezza di un giglio virginale, un’essenza allo stesso tempo tentatrice e timida, riservata (torna l’ossimoro), anch’essa a suo modo caposaldo esistenziale perché il groviglio di sentimenti e sensazioni che la donna fa nascere nell’Autore si dipana come un albero della vita, le cui fronde e le cui radici affondano nel compiuto.

[…] quante volte ho trascorso la primavera
a fare progetti, vagheggiare sul futuro,
adesso ne ho quasi paura,
passo il tempo nel ricordare
ogni proposito toccato e svanito,
m’impigrisco nella nostalgia
quasi fosse la sola distrazione,
forse indolenza, cronica malattia,
timore di fare del male, riceverlo
ricadere nella sana follia.
[…]
(Orizzonti)

A fare da sfondo è una natura umana impervia, estrema, in cui le forze ataviche implodono, più che esplodono, dove persino i segni di civiltà – porti, strade, città, costruzioni… – hanno un non so che di artefatto, come se vivessero di un riverbero fuori dimensione, a conferma di quel senza spazio e senza tempo (più che a-spaziale e a-temporale) tanto caro all’Autore.
La sfumatura nuova che avvertiamo in quest’opera è una presenza animica più ponderata, riflessiva, come se Mauro Giovanelli al momento si trovasse coinvolto in una meditazione più consapevole e cosciente, che richiede di fermarsi per andare avanti: sembra essere giunto il tempo di edificare un pensiero che non possa essere portato via dalle alluvioni della vita che con la loro violenza colpiscono nella quiete delle giornate e travolgono tutto, senza rimorso, senza rimpianto, lasciando una distruzione inspiegabile e spesso dolorosamente senza risposta.

[…] pianti pietrificati
in un solo momento
che lungo il filo invisibile,
inesistente, dell’implacabile
curvo orizzonte scorre
come vento generato
da un dio sussistente
unicamente per ricordarmi,
alla fin fine,
essere solo a giocare
la mia partita
con infinito e nulla,
avversari senza volto
e grande abilità
nel mischiare le carte
[…]
(Panico)

Ecco la necessità di una silloge definitiva frutto di un ulteriore lavoro di limatura che sembra appunto ripulire il pensiero dai detriti del tempo restituendo se non le fattezze originali perlomeno quel che si è salvato, perché non sempre è possibile recuperare se non ponendo l’accento su ciò che è ora, quel qui e adesso tanto caro alla filosofia come alla psicanalisi.

[…] Per egoismo avevo puntato tutto
su uno sguardo, senza considerare
il dolore dell’anima
che mi stava di fronte,
non me ne accorsi,
e lì mi ero perduto,
e parlai di questo
il giorno dopo, allo specchio,
mentre sistemavo il ciuffo ribelle,
pronto a calpestare altri sentieri
che si stavano aprendo,
e li avrei percorsi uno a uno
con insolenza, indifferente,
neanche fossi stato il vincitore.
[…]
(Nessun vincitore)

C’è una consapevolezza più matura fra queste pagine, talmente profonda da essere quasi serena, un’accettazione sincera dell’imponderabile che ricorda moltissimo l’ultima produzione di David Maria Turoldo, quando la morte quasi imminente non era combattuta ma accettata e condivisa quale compagna di viaggio dischiarante un cammino che ora si faceva luminoso, nella sua comprensione totale.
L’imponderabile diventa evidente, quando si comprende che non è possibile fare altro che affidarsi, lasciarsi andare, certi che quella mano che sempre è stata appoggiata alla nostra spalla è ora pronta anche a sorreggere, in una stretta più percepibile ma ancora lontana nel suo ultimo abbraccio finale.

[…] è quando ci coricammo sul prato,
io ti venni sopra, mai potrò dimenticare
il morbido spessore, sì la consistenza del tuo corpo,
da quel momento tutto fu chiaro, come una rivelazione
che mi avrebbe accompagnato per sempre,
la distanza intendo, lo stacco, proprio così, cioè il tuo
frapporti, tenermi discosto dal terreno, proteggermi,
non è facile dirlo, neppure pretendo d’esser capito,
mi riferisco al fatto che esisti, e in virtù di ciò sto separato
dall’abisso, sei scudo fra me e l’ultima dimora, la differenza
tra la vita e la morte, spero ti giunga il mio pensiero…
[…]
(Il tuo spessore)

La parola, dunque, diventa quel supporto, quello strato a protezione di noi e tutto il resto e nuovamente l’Autore ci indica la strada in questo senso utilizzando un’immagine di grande potenza, dove una metaforica giovane donna, che proprio in quella sua freschezza diviene vita, si frappone tra il compagno e quel mondo che può essere tutto, diventando l’aiuto che ci permette di osare, di affidarci preservati dall’ignoto, a volte minaccioso, venendoci in soccorso dandoci una difesa che è però conforto, amore, piacevolezza… vigorosa presenza quasi sovrannaturale.
Nuovamente arriviamo all’ultima pagina tracimanti di vibrazioni che se da una parte ci lasciano storditi per la loro pienezza, dall’altra non possono che integrare – nuovamente e con più forza – il non detto in noi che chiede risposta.
Pamela Michelis

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