2001 ODISSEA NEL G8 DI GENOVA

Era il 20 luglio 2001, uno dei due registi di quei fatti sarà ritenuto meritevole del funerale di Stato, all’altro solo una casa a Montecarlo.
Come passa il tempo…


CARLO GIULIANI – 2001 ODISSEA NEL G8 DI GENOVA
di Mauro Giovanelli
Gli anni ‘60 sono stati favolosi, magici, le nuove generazioni devono credermi, un periodo unico, si sono verificate circostanze abbastanza difficili a ripetersi, un po’ come accadde per la corrente degli impressionisti, in Francia soprattutto, o la scuola dei pittori liguri primi ‘900, o l’inclinazione dell’asse di rotazione terrestre in concomitanza con la massa e dimensione del nostro Pianeta e la sua distanza dal sole, un miracolo che consente la vita. Per chi li ha vissuti una consolazione in più del tempo che se ne va.
Abbiamo avuto la cinematografia dei Fellini, Risi, Monicelli, Visconti, Antonioni, Kubrick, Bergman e attori del calibro di Gassman, Tognazzi, Sordi, Manfredi, Mastroianni. La letteratura con Fenoglio, Pavese, Calvino, Pratolini e tanti, tanti altri, americani, francesi, tedeschi, russi e ancora italiani non menzionati ma secondi a nessuno. Ovunque nasceva cultura. E musica. “I Nomadi” sono stati il gruppo pop rock, fondato nel 1963 dal tastierista Beppe Carletti e dal cantante Augusto Daolio che, fra i “nostrani”, osservavo con maggiore attenzione e rispetto per la sonorità e il messaggio di denuncia e impegno sociale che sin dagli inizi trasmise. Il nicciano (nietzschiano) “Dio è morto” con richiami nel testo, secondo il mio personalissimo parere, alla poesia “Urlo” del grande Allen Ginsberg”, fu una meteora sonora che penetrò nelle menti dei giovani. I Beatles li ho visti a Genova il 26 giugno 1965. A loro preferivo i Rolling Stones, nella mia città il 9 aprile 1967, e Bob Dylan che vi si esibì il 4 luglio 1992. Quest’ultimo tornò in Liguria nel 2001, sempre a luglio, durante il famigerato G8 e, volendo ascoltarlo di nuovo dal vivo, la sera del venti andai a La Spezia dove spostarono il concerto per motivi di sicurezza.
Genova era stata occupata, circondata, sbarramenti e cancellate ovunque, polizia, presidi di carabinieri, vigilanti in borghese, brutti ceffi mai visti dall’inquietante aspetto di agenti del KGB, elicotteri che ronzavano continuamente sopra le nostre teste, insomma la città era stata posta sotto sequestro, in stato di assedio, stuprata. Pensare che la Superba aveva subito un simile smacco una volta sola nella storia recente, da parte dei nazisti, seconda guerra mondiale, e i genovesi gliela fecero pagare perché, in tutta franchezza, quando arrivarono gli alleati, i partigiani liguri avevano già badato a mettere in fuga i tedeschi, a fare pulizia, togliere la più grossa. Come fecero i Napoletani. Tornando al G8, in quell’estate d’inizio secolo aleggiava un clima mefitico, la gente era meditabonda, depressa, le donne si recavano a fare la spesa con passo lesto, testa china, gli uomini parlavano tra loro a voce bassa, l’atmosfera che si viveva, sebbene splendesse un sole furente, era di rabbia, disorientamento, le espressioni confuse e irritate dei cittadini impregnavano il panorama complessivo.
Fu mentre stavo assaporando “Like a rolling stone” al Picco, lo stadio della città del “golfo dei poeti”, che venni a sapere della morte di un giovane “facinoroso” nel quartiere Foce, dove abito. Provai una sensazione strana, di sbigottimento e rassegnazione, mi sentii anche un po’ a disagio per essere seduto sulle gradinate ad ascoltare un concerto, come singolare fu il mormorio che intorno a me si andava propagando al diffondersi della notizia. Avvertii che il mio stato d’animo era comune a tutti gli spettatori, il vociare andava aumentando, si formulavano ipotesi, congetture a voce bassa.
Qualcosa era già cambiato dagli anni ‘70, di piombo furono chiamati. Gli ‘80 scivolarono dritti verso la caduta del muro di Berlino portando un po’ di speranza ma trascinandosi dietro bagagli d’incertezze essendo guidati per la gran parte dal primo socialista Presidente del Consiglio della nostra Repubblica, Bettino Craxi, uomo dalle mille sfaccettature, amico intimo di un semplice imprenditore che gli subentrerà dopo la miserevole capitolazione e tempestiva fuga in Tunisia per sottrarsi al carcere. I ‘90 ci predisposero all’Unione Europea, con “Mani Pulite” che pareva potesse dare la sterzata a una crisi che si aggravava alla velocità della luce, sempre più in basso, moralmente, culturalmente e l’economia fuori controllo. Così l’uomo dalla sciarpa bianca démodé “scese in campo” con un dispiegamento di forze mai visto e l’intero Paese s’immobilizzò, sembrò impazzire consegnandosi nelle sue mani, un certo Berlusconi. Si arrivò al luglio 2001 e mentre il Capo del nostro Governo pensava a come si potesse eliminare l’indecorosa biancheria stesa nei carruggi della città e a far innalzare pannelli che riproducessero false facciate a quei palazzi storici che lui riteneva sconvenienti, proprio come fa con la sua finta persona, Piazza Alimonda fu il palcoscenico di una tragedia, il segnale che il fondo non si era ancora toccato, tutto sarebbe ancor più piombato nell’oscurantismo. Un giovane di ventitré anni avrebbe smesso di godere per l’alternarsi delle stagioni: Carlo Giuliani. La sua morte è legata allo scontro avvenuto tra gli “anti G8” (o per meglio dire la parte infiltrata ad arte, i “Black Bloc”, gruppo d’individui di stampo fascista dediti ad azioni di protesta violenta caratterizzata da atti vandalici, devastazioni, disordini) e le forze dell’ordine costituite da giovanissimi militari, con poca esperienza, guidati da “responsabili” la cui la gestione dei sistemi di sicurezza attorno al Vertice ha lasciato molti punti interrogativi. Le notizie della contestazione in atto convinsero Carlo a rinunciare alla gita al mare che aveva programmato quella mattina per dirigersi verso il corteo delle Tute Bianche. Nel pomeriggio, a seguito di una carica abortita, una Land Rover Defender con tre carabinieri a bordo rimase apparentemente bloccata contro un cassonetto per rifiuti e fu circondata da alcuni manifestanti. Tra questi, il volto coperto da un passamontagna, Carlo Giuliani che sollevò da terra un estintore vuoto precedentemente scagliato contro il mezzo da un altro giovane e a sua volta fece il gesto di lanciarlo verso il veicolo dei carabinieri uno dei quali, dopo aver estratto e puntato la pistola intimandogli di andarsene, sparò due colpi di cui uno raggiunse il ragazzo allo zigomo sinistro. Morirà nei minuti successivi mentre il fuoristrada, nel tentativo di sbloccarsi rapidamente, riprese la manovra passando due volte su quel corpo immobile steso a terra, una prima in retromarcia, la seconda allontanandosi. Erano le 17 e 27 del 20 luglio 2001, quindi venni a saperlo circa cinque ore dopo. Per coprire un fatto ignobile e scaricare le responsabilità, o per chissà quali altri disegni eversivi, la notte del giorno successivo ci fu lo scandalo dell’incursione della Polizia alla scuola Diaz, e nell’adiacente Istituto Pascoli, concessi dal comune di Genova al “Genoa Social Forum” come loro sede e dormitorio. Vi accaddero eventi contrari all’articolo 3 della Convenzione europea per la difesa dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, relativi alla tortura, alle condizioni e punizioni degradanti e inumane cui furono sottoposte le vittime. Eh sì, indubbiamente la città fu presa quale teatro di prova per verificare la possibile “tenuta” di eventuali successivi programmi di governo.
Comunque tranquillo Carlo, stretto nel pullover tanto l’aria si era d’improvviso freddata, pensavo a un mucchio di cose, tra le quali il rientro immediato nella mia città, si stavano già alzando le note di “Idiot wind” e sicuramente l’inimitabile voce del grande Bob, in quell’istante, voleva giungere fino a te. Mi venne da riflettere quanto sia idiota il vento che a cicli alterni attraversa la mente dell’uomo, questo ha soffiato per alcuni giorni e continuerà ancora e ancora ma lassù tu e Daolio già intonavate “Noi non ci saremo”.
Mauro Giovanelli – Genova
© Copyright 2015 Mauro Giovanelli “Destra e… manca” (politica, satira, ricordi, e altro ancora…)

IL MARE VERTICALE

Il mare verticale

Ho visto un mare così genovese,
ligure, invernale, denso e alto,
superiore,
come ineffabile ala protesa,
e sulla battigia si faceva mano,
e le bianche dita parlavano
dicevano qualcosa,
i sassi, la sabbia rispondevano,
non è stato vano
ascoltare questo vento…

© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Le tessere del pàmpano – in forma di poesia – Seconda Edizione

SCRIVO A PASOLINI

Grandi poeti, grandi calciatori

«Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica.»
(Pier Paolo Pasolini)

Commento:

Non comprendo quest’analisi del grande Pasolini, ho l’impressione che strida con la sua personalità improntata alla difesa degli ultimi e dedicata alla giustizia sociale, panacea di ogni sopruso. Lo sport in generale (e il calcio in particolare) è lo specchio della vita, essa stessa gara, pura competizione, lotta per superare l’avversario ad ogni costo al fine di raggiungere lo scopo: la “rete”, come il knock-out nel pugilato, il colpo smorzato del tennis, il denaro accumulato dal capitalista, e così via.
Neanche ritengo il goal un’invenzione ma l’effetto ultimo conseguito a causa d’intensi e forsennati allenamenti, allo stesso modo di un trapezista piuttosto che un pattinatore, ecc., tanto meno una sovversione del codice, se mai il contrario, ovvero conservazione, riconoscimento, assoggettamento alla dottrina stessa che nel raggiunto
obiettivo agonistico vede la sua punta massima. Ineluttabilità non direi, nulla è scontato, viceversa tutto potrebbe essere scritto…

                          “Quod scripsi, scripsi”  

                                È scritto,
                                giunti al limite
                                sarà stato
                                esattamente
                                come avvenuto.

© 2020 Vertigo Edizioni s.r.l., Roma – Mauro Giovanelli.

…questa è nichilista, lo so, però vera, al limite il goal potrebbe considerarsi quale premio delle fatiche impiegate al raggiungimento di “quello scopo”, anch’esse previsto sebbene concorra anche un pizzico di fatalità comunque annunciata.
Folgorazione o lampo di genio? Beh, sì, limitatamente al contesto in cui ci stiamo muovendo, a genio sostituirei “estrema abilità”, “gesto atletico” compiuto. La genialità è ben altro a mio parere e tu, amico mio, ne sai qualcosa. Stupore d’accordo, è ovvio, così come irreversibilità, vale a dire impossibilità a rivivere l’attimo appena trascorso. Ciò è vero in tutto “l’universo mondo”, anche di una semplice lacrima neppure sappiamo se un giorno sarà ricordo, cioè
pensata da un’intelligenza in grado di farlo, e comunque ricostruire il momento in cui è stata generata:

                                    Istante oltre  

                                 Se anche adesso
                                 neppure sarà ricordo,
                                 rievocare il passato
                                 è come ricomporre
                                 nell’immenso mare
                                 la primigenia essenza
                                 del tuo pianto.

© 2020 Vertigo Edizioni s.r.l., Roma – Mauro Giovanelli.

Immaginiamoci un calcio al pallone, della serie la palla è rotonda, frase usata e abusata dagli addetti ai lavori, ossia gli scienziati del manto erboso, giocatori, allenatori, tecnici, magazzinieri, ortopedici, logopedisti, presidenti, negli estenuanti quanto inutili dibattiti televisivi, confronti che si trascinano ogni settimana per riempire il vuoto lasciato dal football giocato, compresi giornalisti un tanto il chilo, cronisti della domenica e ancora opinionisti, streghe, maliarde, maghi, esperti. Allora ecco la locuzione che sottintende il destino, l’ineluttabile, il caso, che poi la palla sia sferica è tutta un’altra storia da lasciare ai geometri.
Nel momento in cui sto predisponendo il presente testo per la pubblicazione, anno infausto 2020, mese di novembre, fra i tanti si è registrato un altro grave lutto proprio nel pianeta calcio. È morto Diego Armando Maradona e, caro Pier Paolo, sta succedendo di tutto un po’ ovunque ma a Napoli e in Argentina si sono toccati livelli impensabili. Gli altri decessi dovuti o meno alla pandemia da Sars-Cov-2 nulla più contano se non per le statistiche. Questo il mio cordoglio inserito a sangue caldo su Facebook e rivolto al solo giocatore per il quale è valsa la pena fosse inventato il gioco del calcio:

Diego Armando Maradona
Lanús, 30 ottobre 1960 – Tigre, 25 novembre 2020

“È il solo giocatore che mi ha fatto vedere cose strabilianti in un mondo, quello del calcio, dove in mancanza di tifo gli sbadigli degli spettatori regnerebbero sovrani. Grande giocoliere, forse ineguagliabile, l’uomo Diego Armando è stato il jolly impazzito di una società degna solo di scaricare ogni frustrazione sotto il campanile. Di lui ho sempre apprezzato tre cose, il ragazzo segnato dalle grinfie dell’idolatria, il tatuaggio del “Che” sul braccio destro, la sua capacità di piangere. Comunque diamo a Maradona quel che è di Maradona, ai napoletani quel che è dei napoletani, a Dio quel che è di Dio. Che la terra ti sia lieve.”
Mauro Giovanelli – Genova

Eh sì, amico mio, perché oggi ci sono i “social”, la “rete”, il “web”, s’è avverato quanto tu temevi, e non è finita, dobbiamo pur arrivarci a questo benedetto limite, nel frattempo comunicare con costoro non è facile, credimi, io la vedo così…

Democrazia e dittatura perfetta

Andrà a finire che di circa sette miliardi di attuali abitanti del Pianeta, mediamente avremo un venti miliardi al giorno di opinioni da valutare. In questa previsione ho tenuto conto, uno più uno meno, dell’incremento demografico da qui ai prossimi trent’anni, la conoscenza indotta già nell’età prenatale tramite sofisticatissimi ultra-microchip placentali, infine l’evoluzione della robotica i cui replicanti, comunque e giustamente, avranno da dire la loro. Democrazia e dittatura perfetta, felici, liberi e contenti di poterci esprimere su tutto senza avere alcuna personale nozione su niente.
Allo stesso modo dei devoti a una qualsiasi delle circa ottomilacinquecento confessioni esistenti al mondo, tutti certi della loro verità, mi domando se i tifosi del calcio siano in grado di realizzare o no che qualcuno trovi assurda l’idolatria di giocolieri in velocità, scatto e astuzia. Costoro – i fedeli o credenti, comunque adepti di questa nuova dottrina – non dovrebbero dimenticare, e se lo ignorano meglio ne siano informati, che poco tempo dopo il suo arrivo a Napoli, Diego Armando Maradona, spaventato, perplesso, infastidito e dell’accoglienza ricevuta, e dell’ospitalità, disse (testuale): “Dio mio, questa gente vive per se stessa!”.

Più che ai suoi goal credo che l’amore dovuto a quest’uomo sia per il suo modo di pensare sebbene quello da lui riscosso neppure sia stato sufficiente a salvaguardarlo da uno sfruttamento feroce, continuo, crudele e ambiguo.
A me fa pena. Era giovane, sessantenne, però gonfio e sfatto come avesse vent’anni di più, e alla fin fine è morto solo come un cane abbandonato in autostrada, nessuno al suo capezzale. In compenso ovunque spuntano eredi o presunti tali. Del resto provo anche una certa repulsione verso questi “ultrà”, neppure sono sfiorati dal pensiero che almeno ora il pibe de oro vorrebbe essere lasciato in pace. Non so se l’hanno ancora capito, eppure è di facile comprensione prendere atto che Diego Armando Maradona non avrebbe più voluto essere Diego Armando Maradona. Invece no, costoro, anche colleghi di lavoro, continuano a usarlo perché solo così ciascuno di essi potrà sentirsi vivo, assaporando la propria fettina di desolante notorietà riflessa. Io vado per istinto intendiamoci anche se suffragato da fatti, e mai è capitato che mi sbagliassi, e dico che certamente quest’uomo è stato una bella persona, manipolato a dovere e gettato via come la cicca di una sigaretta, con una semplice bicellata così da mandarla il più lontano possibile. Avrà sbagliato, peccato d’ingenuità, ma che grande cuore, demasiado corazón si dice dalle sue parti, si leggeva negli occhi smarriti lo sguardo buono, fanciullesco, il sorriso franco, neanche un pizzico di supponenza, presunzione, poi la voglia di vivere, il piacere del gioco, la professionalità unita a grande maestria. E pensare che l’unico sogno inseguito da questo ragazzo nato e cresciuto nella miseria, le tue periferie caro Pier Paolo, ovunque le stesse, sempre uguali, ebbene stavo dicendo che il suo sogno è stato quello di giocare a football per arrivare a comprare una casa ai suoi genitori, null’altro, parole sue, e glielo hanno rubato. In ultima analisi direi che la “stoffa” di un grande giocatore, il talento innato – e lui l’aveva, eccome – è uno strumento donatogli dalla natura per superare gli antagonisti, gabbarli, la “finta” è scaltrezza che lascia inebetito il giocatore avversario assimilabile alla “furbizia”, vizio servile, usata e premiata all’interno e fuori dai campi di calcio. Accostarla alla poesia poi… forse tu solo hai potuto permetterti quest’affermazione lasciando che passasse indisturbata. Non a caso il gioco del pallone è utile strumento del Potere per dare sfogo alle frustrazioni della “massa”, e non da ieri. “Panem et circenses” la locuzione latina coniata dal poeta Giovenale e usata nell’antica Roma (imperiale), “pane e giochi” al fine di indicare le aspirazioni della plebe e piccola borghesia. La famosa proposizione era preceduta da “populus duas tantum res anxius optat…” ossia “il popolo due sole cose ansiosamente desidera, mangiare e tifare”, il resto viene da sé tanto per alimentare proletariato e sottoproletariato.
Mio parere è poeta chi scrive sotto dettatura di un alto principio riconducendo ogni idioma a lingua universale , come già detto, e in questo senso l’artista potrebbe tramutare in lirica anche il rovescio lungo linea del tennista, un canestro, il salto nel gioco del pàmpano, un fuori campo… caro Pier Paolo, quanto vorrei ascoltare quel che avresti da dire, il tuo parere. I tempi sono cambiati amico mio, gli interlocutori sono spariti, non ne vedo da lustri, se non parlo con te con chi altri confrontarmi?

P.S.

Sono a conoscenza dell’inclinazione di Pasolini a cimentarsi in partitelle nei polverosi campetti di periferia dai quali, peraltro, sono anche usciti molti “campioni” così
come dalle favelas brasiliane o quartieri ghettizzati argentini. Il mio commento è comunque più incentrato sulla frase in sé e le considerazioni ivi proferite. Concludo dicendo che al di là di tutto Pasolini amava il calcio, che non è peccato, intendiamoci (in ogni caso ci sarebbe da approfondire), ma è la sua unica “passione” che, così come proposta, trovo enfatica e contrastante la sua personalità. Non sarebbe scandaloso rilevare in lui una “debolezza”, anzi…

© Copyright 2022 Mauro Giovanelli “Scrivo a Pasolini” – edizione 2022 “cent’anni di Pasolini”

Il cimitero delle api

Il cimitero delle api

Mai m’è capitato di dovermi chinare
per soccorrere un’ape dolente
del peso dei giorni, del lavoro svolto,
sacrificio di un’intera vita,
e nemmeno è successo d’imbattermi
nei resti di qualcuna morta di vecchiaia, di malattia,
allora mi domando
dove possa essere il cimitero delle operaie,
andarle a trovare,
e nell’osservare l’andirivieni di quel posto
cercar di capire, parlare con i guardiani,
almeno sapere da quale luogo provengono, e perché,
infine ringraziare del dono che ci fanno,
poi allontanarmi in silenzio, con cautela,
facendo attenzione di non calpestare
neanche un filo d’erba, una tomba, un fiore…

© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Le tessere del pàmpano – in forma di poesia – Seconda
Edizione
© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Settantanove scritti o giù di lì – Vita, amore, morte, i soliti
discorsi…” – “Seventy-nine writings or thereabouts – Life, love, death and the usual…”
Translation Italian-English: Philip Mc Court.

The cemetery of the bees

Never have I happened to dutifully
bend to succour a bee ailing
from its days, work done,
sacrifice of a whole life,
nor have I happpened to stumble
upon the remains of one dead because of old age,
illness, thus, I ask myself
where the cemetery of the worker bees might be,
so I might visit them.
And in observing the coming and going therein
I might try to understand, to speak to the guard,
at least find out where they come from, and why,
in the end thank them for the gift they bestow
upon us,
then go away in silence, cautiously,
careful not to tread
a blade of grass, a grave, a flower…

© Copyright 2023 Mauro Giovanelli

Quel che resta – What remains

Quel che resta

Una sera d’inverno, la città deserta,
molto dopo l’imbrunire,
mi capitò d’incrociare uno sguardo
che già qualche secondo prima
avevo percepito esser quello.
A farmi alzare il capo con tale certezza
non fu lo scalpìccio che si avvicinava
ma il trasalimento da cui fui investito,
sussulto di gioia e timore
per esser finalmente giunto
in prossimità dell’arcano,
e cosciente di smarrirlo allo stesso tempo,
ed è perciò che lo rammento.
Quando emerse dalla penombra
la fissai più di un istante, lei anche,
e nel procedere oltre l’intesa
abbassammo gli occhi chinando la testa,
poi ciascuno, rallentando l’andatura,
la reclinò di un quarto verso il passato,
e ciò che ci dicemmo fu profondo,
e solo adesso comprendo
perché la porterò sempre con me.
Ovunque, in ogni momento,
qualcuno è predisposto a te, o qualcosa,
è intorno a questo che tutto quanto ruota,
il resto è solo attesa e rimpianto.

What remains

A winter’s evening, city deserted,
long after dusk,
I happened to meet a glance
which some seconds before
I had perceived as the one.
What made me lift my head with such certainty
was not the nearing of the scuffling
but the quiver which struck me,
startled in joy and terror to be at last
next to living the arcane –
aware that I might at the same time lose it –
and this is why I remember it.
When she emerged from the dim light
I gazed more than a moment, as did she,
and in going beyond the understanding,

heads bowed, we lowered our eyes,
then, with a slackening of the pace, each made
a quarter turn of the head not to miss the
fleeting moment,
and what we said was profound,
and only now do I understand
why I will have her by my side for ever.
Everywhere, every moment,
someone is responsive to you, or something,
and around this everything revolves,
the rest is merely waiting and regret.

© Copyright 2021 Mauro Giovanelli – “Settantanove scritti o giù di lì – Vita, amore, morte, i soliti discorsi…” – “Seventy-nine writings or thereabouts – Life, love, death and the usual…”

Pulsione – Pulsion

Pulsione

Non lasciarti trascinare
dalla pazzia di questa vita,
rifletti solo l’istante,
soffermati in esso
e libera la tua follia,
gusta ogni momento,
traguarda il successivo
già sopraggiunto,
anche questo è impulso
che svanisce nel nulla,
come gli altri che respiriamo,
ciascuno oltre il proprio
irripetibile orizzonte.
Prima d’esser stati lampi,
nel buio ricorderemo
con languore solo ciò
che sognavamo tra i banchi
della scuola se non siamo
il futuro che avremo impresso
ogni volta che ti amo.

Pulsion

Do not let yourself be dragged along
by the madness of this life,
reflect merely an instant,
dwell inside that instant
and free your folly,
savour every moment,
keep an eye on the next one
already here,
this too is impulse
which vanishes into nothing,
like others we breathe,
each beyond its own
unique horizon.
Before our demise as flashes of lightning,
if we are not
the future which in all probability has already elapsed,
in the dark we will recall
with languor merely what
we once dreamt about in
our school desks,
every time that I love you.

© Copyright 2021 Mauro Giovanelli – “Settantanove scritti o giù di lì – Vita, amore, morte, i soliti discorsi…” – “Seventy-nine writings or thereabouts – Life, love, death and the usual…”

Prefazione a “Le tessere del Pàmpano” in forma di Poesia – 2a edizione

«Religentem esse oportet,
religiosus nefas [ne fuas]»

(Aulo Gellio, Noctes Atticae, XX 4,9)

Il percorso poetico di Mauro Giovanelli si è arricchito nel tempo d’importanti tasselli. Chi ha avuto il piacere di seguire la sua produzione sa che per l’Autore la parola è il mezzo maieutico per eccellenza, è un tramite – nel senso potremmo dire divino, inteso come altissimo, perfettamente completo – di scoperta e riscoperta, ma soprattutto di trascendenza, un veicolo attraverso cui l’anima raggiunge l’inatteso e inizia a parlare una lingua nuova, universale. Quindi con il passare degli anni non stupisce che egli ravvisi la necessità di tornare sui propri passi e ciò comporta, in diverse occasioni, un riesame del già scritto alla luce della nuova percezione acquisita nel qui e ora. È una sorta di ripetersi ciclico, un ripresentarsi di corsi e ricorsi esistenziali e, parafrasando Giambattista Vico che “ci chiede un passo indietro”, qui è al solo scopo di acquisire più energia, ricaricarsi, al fine di spiccare un volo che non sia pindarico, ma verso le vette più alte e consapevoli.
L’uomo/poeta che ci troviamo di fronte con questa nuova opera, “Le tessere del pàmpano in forma di poesia”, è persona che ha trasceso la vita, che ormai ha una tale padronanza dell’essenziale e del necessario da vedere oltre, sentirsi finalmente libero di intraprendere la ricerca di un altro inizio, ricco di stimoli ma privo di urgenze materiali, animato, in definitiva, da pura volontà.

      [...]
      Comporre significa
      voler spiegare misteri, sensazioni
      che solo tu vedi e senti,
      non esistono,
      hanno origine da te,
      alla fine si torna al principio,
      è interrogarsi all’infinito tuo,
      è l’effetto di trascinamento
      per quella volta, tanto tempo fa,
      che ancora bimbo già comprendesti
      la vita esser anche malata,
      quando scoppiasti a piangere,
      da solo, disperato,
      sulla copertina del libro di papà,
      appena terminato di leggere
       “Addio, Mr. Chips!”. 
      Tutto qui. [...]
       (Addio, Mr. Chips!)

È questa una conoscenza intesa nel senso più “metafisicamente” consapevole. Come ci dice lo stesso Autore, infatti, «rispetto ai miei due ultimi lavori, “Affinché morte non ci separi” e “Pulsionale”, qui l’aspetto terreno, materiale cerca anche di inoltrarsi nell’indefinito con
l’intento di piegarlo al nostro volere».
Adesso l’artefice della raccolta, se pur nelle sue costanti fragilità (e pensiamo in tal senso ai versi del brano Prima Vera «…allora divento giudice e imputato / cavaliere e servente, vulnerabile, / piccolo uomo, vivo e disperato…») è Uomo nel senso più elevato possibile, e da quest’ottica viene immediatamente alla memoria la rappresentazione che ne diede Kubrick nel finale di “2001 Odissea nello spazio” dove, a compimento della sua evoluzione, l’astronauta è esso stesso divinità, trascendenza, puro intelletto. Una nuova trinità che non pretende di essere Dio o di superarlo sebbene travalichi il suo essere mortale e, ormai purificato, emendato dei peccati moderni, neanche cerca di sostituirlo, piuttosto può aprire gli occhi sulla vastità concessagli per non fermarsi alla sola posa del Suo sguardo, ma di esplorarlo in tutti i luoghi (fisici e concettuali), poiché ovunque Egli è, va solo “cercato e trovato”.
In un interessante scambio con l’Autore, quest’ultimo – con molta efficacia – illustrava come «La parola “Dio” incomba su tutto il presente testo» poiché egli si definisce religente fino al midollo e, citando Aulo Gellio, specifica come la parola “religioso” sia da evitare proprio perché portatrice di una passività e dipendenza che non appartiene al suo sentire. Mauro Giovanelli sa di essere, invece “fruitore” attivo, dinamico, soggettivo, che inserisce la sua esperienza nella percezione e indaga nella maniera
più viva possibile perché «voglio la Verità. Ecco, è la Verità che inseguo, spesso scavando nelle leggi della fisica, della matematica, astronomia, altre volte contemplando un tramonto, le nuvole, il mare in burrasca, un volto femminile. Tutto ciò per me è preghiera, atto di fede, culto».
In tutto questo ci sono una profondità e un’intimità che emozionano, poiché ciò presuppone l’umiltà di chi si toglie il “velo di Maya” (secondo Arthur Schopenhauer, grande studioso delle filosofie induiste, il “velo di Maya” era l’illusione che impediva all’essere umano di fare esperienza della Verità, del principio assoluto di realtà N. d. A.) dagli occhi per aprirsi fiduciosi allo sconosciuto.
Ce lo ricorda sottilmente il nostro Autore in tutti quei momenti in cui nella raccolta si supera quell’atmosfera decadente di macerie esistenziali, appunto quelle che ci impediscono di “vedere” e che ancora percepivamo in parte nella precedente produzione, vivendo ora una realtà nuova, più definita nel suo essere comunque eterica, vitale, energetica:

[…] «Per ogni sbilenca rotazione su se stessa durante l’ellittico percorso intorno al sole, nella traslazione
dei corpi celesti verso chissà dove, sulla Terra
c’è un momento in cui il confine fra luce e ombra è netto, deciso, implacabile come affilatissima lama di katana,
privo della pur minima, impercettibile sbavatura,
al punto che percorrendo e superando nel silenzio assoluto ogni ostacolo taglia in due parti precise strade, facciate
di palazzi, lastricati, giardini, piazze, panorami urbani, periferie, monumenti, tutto.» […]
(Significante nonsenso)

Azzardiamo nel dire che è superato il concetto stesso di aldilà, perché siamo oltre; quella che l’Autore identifica come «certezza che tutto debba continuare, qualcosa di più della sola speranza di un ulteriore» è la vera consapevolezza che siamo legati con un filo a Dio non “perché suoi figli”, ma come Suo specchio, vero e proprio riflesso e tramite di conoscenza. In uno scambio biunivoco, raggiungere un certo grado di consapevolezza e trascendenza e una volta affrancati dai vincoli delle credenze umane si può essere finalmente liberi di vedere a occhi pieni e non solo più percepire o a mala pena intravedere; in un autentico salto di fede è finanche possibile afferrare, ripresentarsi alla casa primordiale che diventa ora luogo nuovo, terra fertile e inesplorata.
Come in “Torneremo”, quando l’Autore scrive «mano alla fronte che si fa visiera per osservare il lontano passato che avanza, ecco perché avrai di più, e fra te e te bisbiglierai: dunque sei tornato, sei tu.».
Bellissimi a questo proposito i versi di “Ennegici settemilasettecentoventisette”, l’incipit ad esempio: «C’è un punto, diverso da utopia, le cui coordinate non sono celesti, è ovunque luogo…». “Ovunque…”, avverbio che racchiude la potenzialità infinita, poiché è immersione totale nello scorrere, nella fluidità della vita e della vita oltre, la scomparsa definitiva dei confini in tutte le sue
accezioni.
Finalmente “l’uomo giovannelliano” è libero, ha toccato il sole, non ne è rimasto bruciato, si è fuso con esso e ora assapora il suo smaterializzarsi per farsi infinito, presenza imperitura. Quest’uomo ha abbandonato quelle catene meschine che tanto fanno orrore al nostro Autore perché inchiodano l’animo a un vischioso pavimento di bitume che può solo annientare, portando a un’asfissiante morte interiore di sofferenza lenta e silenziosa. Quest’orrore lo percepiamo verso l’uomo schiavo delle sue paure, che china il capo e decide di non guardare la luce, con la giustificazione che i suoi occhi pavidi non potrebbero sopportarla.

[…] A parer mio è questa la prova che in definitiva l’uomo
vuole essere schiavo, che qualcuno provveda per lui,
e più è soddisfatto del poco ottenuto, purché lo ponga
un’inezia sopra il vicino, più abbassa la testa e porge
le terga. Ed è la sola cosa che dittatori e aspiranti tali
hanno capito. […]
(Tutto quel che c’è da sapere)

Anche la figura femminile è più sofisticata, sebbene apparentemente silente, quasi marmorea, presenza imperturbabile, idiosincrasica alla falsità, donna che non è più madonna né guida dantesca, bensì l’unica possibile compagna di viaggio per quest’uomo nuovo, poiché essa, nella sua complessità e grandiosità – pensiamo solo al potere straordinario di dare la vita – incarna l’altro lato di
Dio, complementare e basico.
Due creature rinate dalle ceneri dell’oscurantismo, capaci di solcare un percorso resosi visibile ai loro occhi e pronto a essere esplorato verso la luce promessa da loro stessi a se stessi fin dalla notte dei tempi e finalmente dischiarata. La ricerca della verità non è più dunque una prospettiva ma cammino già intrapreso che ha dato i suoi frutti: lo stesso desiderio, il forte bisogno, di mettere in discussione l’impensabile – come l’aldilà – lo dimostra. Non c’è paura, ma non è per superbia è piuttosto proprio per la vivida certezza di quell’Ovunque che ci fa sentire accolti, protetti, e liberi di osare. Perché come scrive Luis Sepùlveda «Vola solo chi osa farlo».
Pamela Michelis

Immagine di copertina de “Le tessere del pàmpano” di prossima pubblicazione

1945, foto di famiglia scattata da un reporter dell’esercito americano di passaggio che, affascinato del gruppo familiare, si staccò dal reparto e chiese il permesso di poter fare qualche scatto promettendo che al suo rientro in patria glieli avrebbe spediti. Mantenne la parola e dopo qualche tempo la mia mamma ricevette una lettera di ringraziamento e auguri con alcune copie delle foto.

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