Archivi categoria: Mauro Giovanelli – Opere

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI:

Alessandro Arvigo (Alex), Palermo (Italia),
prefazione a “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” di Mauro Giovanelli
1a Edizione – giugno 2019 – Vertigo Edizioni srl – Roma

Introduzione alla nuova edizione 2023

Yuzaf non è asceso al cielo come c’è raccontato. In cerca di una risposta impossibile, almeno quanto il dubbio che lo avrebbe colto durante il supplizio, lamentando l’abbandono del Padre, ha invece continuato a vagare fra le dimensioni del reale e del fantastico. Questa la sua missione, la croce alla quale sembra condannato dalla stessa natura di cui è composto, che gli fa incontrare altri “inverosimili” come lui: Corto, Srinivasa, Ramòn, Judex, dando vita a una ratatouille filosofica in salsa spirituale, insaporita con un melting pot delle migliori spezie antropologiche, raccolte dall’Autore ai crocevia della vicenda umana, nella sua mente, lungo le sconfinate praterie dell’investigazione fantastica. Bene e Male, Divino e Umano, sono le invisibili sbarre della gabbia di Mānī che imprigionano il pensiero di Yuzaf nella speculazione dell’Oltre, lo costringono a surreali dialoghi con personaggi della storia e della fantasia che cucineranno a fuoco lento le convinzioni del lettore fino a dissolverle con la sola spiegazione alla nostra portata.
Le molecole letterarie dell’opera sembrano formate da atomi privi di legami, gli elettroni saltano dall’orbita di un nucleo all’altro, collidono, rilasciano quanti di energia che riempiono di tracce luminose l’etere della narrazione: preziose indicazioni che, per il lettore attento e motivato dalla ricerca terrena e spirituale, rappresentano la segnaletica del sentiero che conduce a concepire l’inspiegabile. La ricostruzione storica e filosofica della religione sotto l’aspetto di “urgenza esistenziale” è onesta, accurata, priva d’intenzionalità alcuna di negare o affermarne l’esattezza, lasciandoci liberi di manovrare il leggìo a nostro piacimento per interpretare i manoscritti che su esso via via si alternano e incrociare lo sguardo del topo al fine di rispondere come possiamo a una domanda priva di senso: “Qual è la verità?”

Alessandro Arvigo (Alex), Palermo (Italia)

IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI NOTA DELL’AUTORE

“Il leggìo a nove posizioni” – Nota dell’Autore

Questo racconto è la naturale prosecuzione di “Ecco perché Juanita”, antologia elaborata nel 2012, certamente originale nella composizione al punto da non individuare termini adatti a definirla. Per descriverne la “costruzione” decisi di utilizzare il verbo comporre vale a dire “mettere insieme varie parti allo scopo di costituire un tutto organico”(1) e “produrre, realizzare un’opera di carattere letterario o artistico in generale”(2). Invece conclusi che il termine più adeguato a designarla fosse proprio libro intendendosi con tale parola “volume di fogli cuciti tra loro, scritti, stampati o bianchi”(3). Desidero ricordare che, con tutto il rispetto, la parola “bibbia” significa “insieme di generi letterari diversi”. Non è casuale che “biblia”, dal greco biblos, la corteccia interna del papiro che cresce sul delta del Nilo, utilizzata per produrre materiale scrittoio, sia un plurale che indica l’insieme di opere scritte e narrate – nella Chiesa greca dell’epoca di Giovanni Crisostomo(4) si cominciò a usare l’espressione Ta Biblìa, che significa “I libri”. Infatti, il Vecchio e Nuovo Testamento sono insiemi di elaborati vari per origine, genere, compilazione, lingua e datazione, prodotti in un periodo abbastanza ampio, preceduti da una tradizione orale più o meno lunga e comunque difficile da identificare, racchiusi in un canone stabilito dagli inizi della nostra era, in parole povere la prima grande raccolta, copiatura e forse pure sofisticazione della storia.
Tornando a Juanita, dico che l’idea della sua attuazione s’insinuò nella mia mente quando decisi di riunire diversi e preziosi frammenti della letteratura (sottotitolo “arabesco letterario”) di circa cinquanta autori e un centinaio di brani e citazioni disponendoli all’interno di una narrazione secondo il mio gusto; occorreva solo una base di appoggio. Quale migliore “cronologia” potrebbero regalarci altri capolavori che non siano “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” del grande Saramago, seguito da “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov per agganciarlo a “Il Procuratore della Giudea” di France e concludere con “Il Grande Inquisitore di Dostoevskij?” Nessuna! Un’avventura lunga 1700 anni.
Saramago descrive la vita di Gesù con un’autenticità da lasciare senza fiato, ineguagliabili lo stile e la prosa. Nel suo Vangelo neppure è sfiorata la personalità di Ponzio Pilato in quanto marginale al messaggio che l’autore ci ha compiutamente trasmesso. Per approfondirne la figura siamo quindi costretti a immergerci nelle strabilianti pagine di Bulgakov, dove il procuratore della Giudea è assalito dal rimorso per una condanna decretata suo malgrado; la collera verso se stesso lo dilania, realizza di essere entrato nel mito dalla porta sbagliata e la sua propria ignavia (qui ci sarebbe da discutere) lo inchioderà per sempre nella penombra del porticato, dietro la brocca del servitore che versa l’acqua sulle sue mani sudate. Che ne sarà di lui? Allora lo seguiamo nell’epico “Il procuratore della Giudea” di Anatole France dove, vecchio e dolorante, si reca ai Campi Flegrei per curare la gotta che lo tormenta. I tempi del fasto e del potere li ricorda con il fedele e ritrovato Lamia che, riferendosi al Cristo, gli domanda: “Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?” ed egli, dopo averci pensato a lungo, risponde sicuro: “Gesù? Gesù il Nazareno? No, non ricordo”(5). Non ricordo… perché? Amnesia senile? Inconscia rimozione di una rievocazione ostica? Menzogna? Indulgenza divina? Non lo sapremo e il Gesù de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij(6), che chiude il mio saggio, nulla dice in proposito. Essendo stato vano il sacrificio estremo, Egli torna in questo mondo per riparare l’errore sennonché, riconosciuto e incarcerato dal Grande Inquisitore, non pronuncia una sola sillaba durante l’eccitazione verbale dell’aguzzino che a sera si reca nella cella per comunicargli la condanna al rogo. Il confronto tra i due si trasforma in un delirante monologo del prelato. Che cosa rappresenta l’unica risposta del Nazareno, il bacio sulle labbra del suo persecutore con cui suggella il loro incontro? Quali potrebbero essere stati i pensieri di Yuzaf nel momento in cui, graziato per tale gesto, si diresse verso nuovi orizzonti? Dove sarà andato? Che panorami gli si apriranno? Come esplorerà l’intrico che custodisce l’oggetto della sua ricerca? La reinterpretazione delle Scritture? Il leggìo a nove posizioni?
Mauro Giovanelli


Note

(1) Zingarelli, XI edizione 1983.
(2) Ibidem.
(3) Ibidem.
(4) Giovanni Crisostomo, o Giovanni d’Antiochia (Antiochia, 344 / 354 – Comana Pontica, 14 settembre 407), è stato un arcivescovo e teologo bizantino. Fu il secondo Patriarca di Costantinopoli. È commemorato come santo dalla Chiesa cattolica e ortodossa e venerato dalla Chiesa copta; è uno dei trentacinque Dottori della Chiesa.
(5) Anatole France, “Il procuratore della Giudea”, Sellerio Editore Palermo.
(6) Fëdor Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, Libro quinto, “Pro e contra”, Edizione Einaudi.

IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI – PREFAZIONE

Prefazione

«Dunque chi sei tu infine?
Io sono parte di quella forza
che eternamente vuole il Male
ed eternamente opera il Bene»

J. W. Goethe – “Faust”

Il privilegio di poter parlare di e con un’opera di Mauro Giovanelli è che l’esperienza non rimane mai ancorata al testo, piuttosto diventa un crocevia di pensieri, interpretazioni, emozioni.
Terminata la lettura del libro, senza considerare gli appunti presi di getto durante lo scorrere delle pagine, ho sentito la mente focalizzarsi su alcuni liberi pensieri scambiati con l’Autore nel corso di precedenti collaborazioni letterarie. In particolare ricordo una riflessione su come “i tempi” avessero ormai raggiunto una sorta di punto di non ritorno, forse non evidente ai più, e oltrepassato quel limite resterà solo da augurarci ci sia almeno data la possibilità – quasi esprimendoci in termini biblici – di poter ripartire dalle ceneri perché ormai nulla del prima sarà risultato degno d’esser salvato. Da qui la ricostruzione di un nuovo mondo con la determinazione a non ripetere nessuno dei troppi errori commessi nella vita di prima. Un pensiero insolito ma credo non lontano da una delle personalissime letture che mi piacerebbe dare di questo libro.
Infatti “Il leggìo a nove posizioni” è un’opera di confine,
una terra letteraria in cui tutto è stato e, proprio per questo, tutto potrà essere, ma in veste completamente nuova. È un topos letterario vero e proprio, una marginalità filosofica dove, con tale termine, non intendiamo qualcosa di immaginario, bensì un luogo incontaminato che racchiude la bellezza interpretativa primigenia non facile da raggiungere, quindi va ricercata anche a costo di un sacrificio doloroso poiché di fondamentale importanza risorgere in essa.
Pensiamo perfino all’origine del termine leggìo, che deriva dal greco λογειον, loghĕion, che significa anche “pulpito” e, infatti, proprio in ambito sacerdotale ha la sua iniziale e poi più ampia fortuna, ma non è al senso ecclesiastico che mi voglio riferire, quanto alla sua “posizione privilegiata”. Se aveste mai avuto modo di salirci, su un pulpito, avrete notato come lassù sia immediata la sensazione di padronanza che trasmette – quasi di onnipotenza – oltre a quella di una prospettiva ben più ampia dello sguardo comune, rivelando a una persona come il cambio di veduta generi scenari inattesi. Ciò è ampiamente raffigurato nel celeberrimo “L’attimo fuggente” (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir, e magistralmente interpretato da Robin Williams nella parte del prof. John Keating che, saltando in piedi sulla scrivania, intende in modo figurativo educare i suoi studenti a mai accontentarsi di osservare le cose da un solo punto di vista. Credo che proprio questo debba essere il senso di un libro, ancor più il suo messaggio più intimo: un dischiararsi su vedute inattese, persino improbabili, se non addirittura improponibili, come se si decidesse di assaggiare il frutto proibito per arrivare alla “vera” conoscenza (termine audace ma appropriato in questo contesto). Qualora non fosse resterebbe comunque il viaggio a essere il tutto.
Lo scorrere narrativo de “Il leggìo a nove posizioni” alterna piani paralleli con un fil rouge nella figura del protagonista, quasi a confondere il lettore, affinché non abbia sempre chiara l’esecuzione temporale (perché è inevitabile: il pubblico cerca sempre gli agganci temporale e spaziale, è una necessità atavica) e che proprio in questo mancato appiglio scopra la chiave dell’indeterminatezza, variante che in certo qual modo ha una sua non circolarità ma chiusura a indefinito e infinito, fondamentale nell’insieme.
Il racconto è affascinante perché, attraverso l’origine della narrazione, che trae linfa da notevoli e diverse pubblicazioni di rilevanza mondiale, ci è presentato un protagonista, Yuzaf, che con altro nome ritroviamo dove era stato abbandonato alla fine di uno dei capitoli, “Il Grande Inquisitore” del magistrale “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. Sorprendentemente graziato dal Grande Inquisitore ma con l’ordine di scomparire e non farsi mai più vedere avendo lasciato il potere alla Chiesa, proprio lui, Gesù, tornato in terra per rimediare a quanto non è stato fatto dagli uomini nonostante il suo sacrificio, lui che ha un compito così fondamentale da assolvere, d’improvviso scopre di non essere più se stesso, neppure più morto, quasi resuscitato quindici secoli dopo, non a Siviglia, in Spagna, al tempo dell’ormai agonizzante Santa
Inquisizione, ma in Italia, a Genova, nell’epoca attuale, non riabilitato si trova a palesare l’impossibile situazione di una totale assenza di personalità, identità, perciò osserva, e fra se e se annota minuziosamente le caratteristiche del posto, del percorso che affronta nella spasmodica e urgente ricerca di un rifugio, un nuovo calvario con le sue stazioni, ed è così che potrà riprendere coscienza e identità terrena. Yuzaf è ora uomo nel termine più vero, essere in balia della non comprensione, alla ricerca di se stesso e della causa prima. Infatti è Corto, uno dei personaggi che Yuzaf incontra in questo suo ultimo viaggio, a esprimersi nei seguenti termini:

[…] «Il solo fatto che tu stia tentando di giungere alla verità potrebbe essere la prova dell’esistenza di un ulteriore, questo sì che è plausibile. Comunque chiedi troppo, vorresti tutto o niente, non solo il “qui e ora”, pure il “dopo” che possa dare la risposta al “prima”. Vivere e capire, morire e riferire. Ah! Sei troppo romantico amico, io mi accontento di molto meno. A me basterebbe che la giostra in cui mi hanno ficcato si fermasse, forse non ti è ben chiaro chi sono e in quale dimensione fingo di muovermi» […]

Da lettore, il tratto forse più affascinante del protagonista è la sua sordità. Sì, Yuzaf non ascolta, pone interrogativi, disperatamente, quasi con arroganza e violenza, ma in realtà non ascolta la risposta, è come se fosse alla ricerca di un senso perduto senza possedere gli strumenti per averne compiutezza; in questa fase Yuzaf è uomo, tragicamente uomo, che nella sua egocentricità non comprende l’insieme
che lo circonda, formato da personaggi della fantasia e della realtà a loro volta alla ricerca di un senso se non una via d’uscita dalla loro condizione. Forte, notevole l’esposizione del brevissimo incontro con Paperino:

[…] «Portava un berretto azzurro con banda nera e fiocco, direi da marinaio, infatti, mostrava grande rispetto per me. La blusa, anch’essa azzurra con due bottoni dorati, così come i galloni ai polsi, pareva una divisa. Non indossava calzoni ma stranamente non ci facevi caso, camminava scalzo, dondolando, e i piedi e la bocca erano arancioni, inconsueti, non saprei ma… le sue mani, pur avendo le dita e il pollice opponibile, non riesco a spiegarlo, assomigliavano alle estremità di ali, insomma di sostanza piumosa come il resto del corpo, bianchissimo. E la sua voce, la sua voce… era disperato. Diceva di chiamarsi Paolino, sembrava l’anello di congiunzione tra il primo anfibio e un piccolo papero, ed io così l’ho soprannominato, Paperino, mi sembrava non apprezzasse tale nomignolo… era così triste, indifeso, irascibile…» […]

Questo suo porre domande, avanzare dubbi e, in realtà, non trovare il tempo di ascoltare ogni responso, cela l’afflizione di dover recuperare la risposta definitiva, l’unica che possa soddisfarlo, la vera sentenza, la sola possibile: “Qual è la verità?”. Ecco una sua replica all’amico Srinivasa:

[…] «Bravo Ramanujan, tutto perfetto ma non come nelle tue equazioni perché su questo terreno è impossibile arrivare all’equivalenza allo stesso modo che nelle serie infinite di simboli matematici dove, al limite, si potrebbe quantomeno ipotizzarla, attribuirle un valore, inserirla nel calcolo. Qui no, rimane sempre un piccolo scarto, infinitesimale, la
differenza residua, incolmabile anche per una mente come la
tua. Non hai avuto necessità della mia conferma, ne sono certo, e di sicuro avevi intuito da solo come l’impalcatura scricchiolasse se non altro perché indimostrabile.»
[…]

Si dimena, Yuzaf, tra catene che non sono più quelle che lo imprigionavano fisicamente, ma in tutti gli altri sensi. Egli, infatti, è anche cieco, non vuole vedere l’evidenza, i suoi occhi sono coperti dal velo di Maya che gli oscura persino i presagi della salvezza, obliando sempre più la sua identità nonostante gli indizi per il conseguimento della sua liberazione che non riconosce, smarrendolo.
Il primo attimo di lucidità ci appare drammatico, lo si percepisce quando s’accorge di una presenza, da principio impalpabile, poi manifestatasi in quell’essere considerato alla stregua della feccia, un topo, che diventerà immagine potentissima lungo l’intero percorso accompagnando i protagonisti come entità dissolta ma sempre vigile fra le quinte di un teatro infernale.
Sporco, malmenato, sterminato, ha la capacità di salvarsi, risorgere, percorrendo le vie più infere, non semplicemente adattandosi, ma immergendosi nell’immondo proprio quando tutto il sovrastante e soverchiante è ciò che rimane
nella sola verità di un attimo.

[…] «Ci sarà un motivo per cui tu mi abbia suggerito di riconsiderare soprattutto gli ultimi istanti della vita di quell’uomo “perché in quel momento viene fuori la verità” dicesti. Che cosa accadde nelle ore di un supplizio che sono impresse nell’eterno divenire?» […]

E se fosse proprio questo uno degli elementi che manca a
Yuzaf? La capacità di scegliere e discernere? Come già accadde sulla croce per la salvezza sua e dei suoi compagni di sventura? Abbandonando l’impossibile tentativo di far coesistere, fede e ragione? E se fosse angoscia la sordità di fronte all’evidenza di voler andare dritti per una strada che probabilmente non porterà a nulla ma che sembrerebbe l’unica? Egli pare fin troppo trasfigurato nel vivere questa sua “rinascita” (ed è lecito obiettare: Come potrebbe non essere altrimenti? Passare dalla condanna certa, anzi due, a una vita che però in nulla può correlarsi alle sue origini), ossia rimanere sempre distaccato, mancante di quella compenetrazione tra elementi che è fondamentale.

[…] «Il fatto è che io adesso ho assunto una diversa configurazione ai tuoi occhi. Così, di punto in bianco, improvvisamente sono un approdo, e tutto il resto per te è come si fosse pietrificato, ci siamo solo noi, vivi o chissà che altro, di fronte alle possibili risposte che cerchi» […]

Avvertiamo un crescendo nello scritto, un palesarsi ostile di una ricerca per ragione che ci appare di ostacolo, fuorviante, quasi un peso che siamo costretti a trascinare, una croce portata su spalle ferite. Percepiamo opposte energie, vissute in maniera ossimorica, che bruciano in quella che è nascita di consapevolezza, destabilizzando fortemente il lettore come il protagonista, che tuttavia non può e non deve fermarsi, per quanto sia impervia la salita.
Sembra chiara la necessità di rileggere tutto scegliendo un punto saldo, ma contestualizzandolo nell’insieme, poiché lasciarsi sopraffare dal pensiero unico ci porterà ancor più alla deriva. È così che il topo si rivolge a Yuzaf, parole che sgorgano dai neri riflessi di quegli occhi intelligenti, vivi, antichi, dove iride e pupilla sono rese indistinguibili:

[…] «Il sapere deve e può essere dominato, a lui la missione definitiva, conclusiva, la “quadratura del cerchio” […]

Allo stesso modo Ramanujan:

[…] «Ripeto, cosa faceva Dio avanti la venuta del profeta? Dov’era? Perché questo confine, in quel preciso giorno, ora, attimo in cui decise di occuparsi del mondo? Nulla di così terribile e raccapricciante era accaduto prima quanto gli avvenimenti verificatisi dopo il Suo intervento» […]

A Yuzaf la sola eterna domanda cui, in certo qual modo, alla fine darà una risposta nell’estremo tentativo di trasmetterne la chiave di lettura al più umile, quindi il più “vergine” degli attori che lo circondano, l’Oste, ed è proprio da qui che tutto potrà rinascere:

[…] «Mi comprendi? Hai sentito ciò che ho detto? Tu saprai
“qual è la verità”. Sono stato chiaro? Non “cos’è la verità”.
Rispondi, dimmi che hai afferrato la differenza»
[…]

Perché i dubbi che ci insinua Mauro Giovanelli alimentano il senso di vacuo, non semplicemente di vuoto, infatti, se ragioniamo, se meditiamo, pensando di poter credere l’opposto, non tenendo conto che il momento stesso in cui si realizza un concetto ne nasce il suo doppelgänger, abbiamo posto la base che porta in perdita, poiché non è a queste dimensioni che appartiene il senso, tanto meno le risposte. Ce lo dice chiaramente nel momento in cui afferma (nota 1 Capitolo = –1/12):

[…] «Quando si designa un “più” necessariamente s’indica e si fa nascere un “meno”. Questo è il nostro peccato originale, il voler conoscere il Bene e il Male… quando si “definisce” il “bene” automaticamente ciò che ne è fuori individua, per differenza, il “male” creato dalla mente poiché prima non esisteva. Superare questo modo di vedere le cose porta al Regno, alla libertà dello spirito.» […]

L’interpretazione, infatti, che raggiungiamo alla fine è proprio l’evidenza del fallimento della scissione, soprattutto del dualismo, e di come solo una concezione agglomerante possa dare la giusta chiave di lettura e svelare quel mistero che in fondo mistero non è mai stato. Ed ecco che tutti i personaggi mutano, disvelano la loro intima natura, come se da chimere avessero abbandonato
le sembianze imposte per l’essenza “vera” (ed ecco che nuovamente utilizziamo questo termine di fuoco). Perciò, a ciascuno degli “interpreti”, l’Autore fa rivivere, da spettatori, il proprio destino, fino ad arrivare alla nemesi (e qui torniamo al concetto espresso in precedenza, ossia oltrepassato quel limite, c’è solo da sperare che in un certo senso si possa ripartire solo dalle ceneri perché ormai nulla del prima è degno di essere salvato).
Allora eccoci giunti all’ecatombe finale, Yuzaf e i suoi compagni non permetteranno che la “crocifissione” si ripeta, a nulla è servita prima, ancor meno adesso, quindi “muoia Sansone e tutti i filistei”. Il progetto iniziale era sbagliato dalle fondamenta perciò tabula rasa, anche se quella sordida mano a quattro dita, comparsa dal nulla fin dall’inizio, si materializza ancora al solo fine di sottrarre agli uomini la chiave di lettura idonea al conseguimento della piena gratificazione, vivere la vita nel suo splendore.
Sconvolge, tuttavia, il dubbio che forse tutto non sia altro che il frutto della volontà di qualcuno o qualcosa, peggio ancora un delirio della sola materia:

[…] «Sei certo non ti abbia immaginato qualcuno? Chi ci assicura che noi, qui e ora, non siamo il parto di una entità che ci sta manovrando, osserva, determina il nostro parlare? Magari ciò che sto dicendo, sono parole sue pronunciate attraverso me. Hai mai valutato la possibilità che tutti si possa essere strumenti di un’allucinazione? Pensaci.» […]

Allora cosa fare? Che prove sono state raccolte? E qual è l’origine delle Scritture? Divina non sembrerebbe proprio:

[…] «E cosa vuoi che facessero i carovanieri nei rari momenti di riposo? Nelle “pause” pranzo? Quando si trovavano riuniti intorno a un fuoco o in solitudine consideravano la loro meschina presenza sulla Terra? Parlavano. Di grandi gesta, miti, leggende, imprese più o meno inventate o ingigantite, superstizioni, paure, elaboravano improbabili risposte, concepivano entità superiori a giustificazione dell’avvicendarsi degli eventi che li travolgevano. Non c’era mica la taverna sotto casa, gratificarsi era prendere la propria donna quando la carne gli ricordava di essere animali. Per il resto… parlare, fantasticare, sognare altri mondi tanto gli era greve il loro, idealizzare un salvatore, la guida, e alla fine pure crederci. Non è forse vero che in quella lunga storia ci sono solo disperazione e angoscia?».[…]

Quali possibilità restano?

[…] «Se siamo strumenti inconsapevoli di tutto quanto succede è inutile cercare un senso delle cose perché già lo abbiamo sotto gli occhi, in ogni momento della nostra esistenza, ed è nel semplice fatto di aver vissuto, interagito con ciò che ci circonda, compiuto azioni, aver influenzato il
corso del destino, anzi averne fatto parte»
. […]

Il due che si fa uno, proprio sul finale, quando smette di interrogarsi e si abbandona al tutto, al destino, al fluire come suo lascito, quel lascito che la sua donna gli aveva chiesto, ma lui non ha mai compreso nella sua immensità. Ed è proprio da quell’ultimo bacio, riproposto in una veste speculare dall’amata rispetto a quello che gli aveva valso la grazia, che il nostro eroe trae origine, è una leggiadrìa attuale, un senso che si disvela e diventa comprensibile solo dopo aver attraversato il tutto ed essersi confrontato con la parte più profonda di se stessi, della propria natura più intima, che non ha il sapore beffardo della rinuncia alla propria identità ma quello della sua completa realizzazione.
Già! La propria natura, infatti è con un potente racconto-metafora che chiude il testo, quello dello scorpione e della rana, che per altro Mauro Giovanelli approfondisce con grande interesse nelle note.
Che vuol dire “la propria natura”? Che cos’è realmente? Ci sembra quasi negazione del libero arbitrio poiché ad essa incatenati, allora, in una circolarità senza fine si torna al dubbio di essere figli del delirio per uscirne l’istante dopo.
La risposta è personale, dipende dallo sguardo lanciato oltre, e anche quando tutto sembra racchiudersi (e non rinchiudersi) in un ritrovato equilibrio, interviene la variante personale che non può esser trascurata, diventando piuttosto quell’assoluto, la costante statica, immobile, la sola realtà cui tutto confluisce e da cui tutto riparte.

Pamela Michelis

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI:

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI:

Dario Rossi Speranza, 16 luglio 2018,
elogio inserito quale presentazione a
“PULSIONALE POESIA III MILLENNIO”
“2a Edizione – Vertigo Edizioni srl – Roma

Mauro, sei proprio una cara persona, ricca di risorse e sorprese, come non volerti bene, il tuo magma intellettuale si auto produce senza pause in gran profusione e così accade che la tua copiosa messe venga giù come un fiume carsico che filtra in ogni dove e non conosce ostacoli. In questo tuo precipuo tratto ti vedo, se me lo concedi, molto somigliante nell’impeto, nel volume, nel massivo impatto e nella “follia” al geniale padre di Zarathustra, novello Nietzsche postmoderno, anche alquanto nichilista ed esistenziale, con il quale condividi la gran Virtù di scrivere argomentare e produrre Senso anche “senza pensare” come confessava alla sua rigorosa Coscienza il gran pensatore di Röcken. Ma non sarò certo io a censurarti nella tua iperattività caro amico mio, perché noi siamo involontari complici nell’aggressione totale ai Saperi ed alla Conoscenza. Siamo troppo simili per non sostenerci a vicenda sino all’ultima strenua parola immagine o pensiero! Anche se il Filosofo asseriva che “nessuno è perfezione”, noi tendiamo sovente a quella, la lambiamo pericolosamente e siamo costantemente molestati dal suo pensiero. Ma non per nutrire scioccamente i nostri rispettivi Ego, giammai potremmo essere vanagloriosi o peggio narcisi, ma solo per rendere più fruibile ed allettante la nostra produzione e per sopravvivere a noi stessi provando a vincere la Caducità dell’Essere, dell’Esistere e delle Cose tutte attraverso la Ricerca senza tregua nella Bellezza, Verità e Conoscenza Universale, che da Forma incolore senza consistenza quale oggi noi siamo si traduca in Essenza primigenia di ogni inizio, a dispetto di quel Dio troppo assente nella drammatica Vicenda Umana…

Dario Rossi Speranza, New York/Milano for Mauro Giovanelli.

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI:

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI:

Carla Infante, 20 gennaio 2019, pensiero critico
“PULSIONALE POESIA III MILLENNIO”
1a Edizione – Vertigo Edizioni srl – Roma

Vorrei rendere omaggio (avrei dovuto farlo prima) a uno degli Editor della pagina “Setteversi”, Mauro Giovanelli, che ritengo profondo conoscitore della letteratura e dell’arte italiana e internazionale. Singolare nella sua poliedricità, personalità non facile, direi rude e inavvicinabile per certi aspetti, ma sicuramente una delle più grandi penne in circolazione! Devo confessare, dopo aver letto il suo ultimo libro “Pulsionale – Poesia III millennio”, di essermi trovata di fronte a un capolavoro! Opera che contiene un ritratto della vita senza filtri, pagine in cui prosa e poesia si mescolano per raccontare l’amore o il dolore con la stessa intensità… nella sua lirica che segue, è esaltata l’importanza di avere un “grembo” in cui rifugiarsi la sera quando al ritorno a casa si ha bisogno di qualcuno cui svelarsi senza finzioni e trovare ristoro! A presto Mauro… grazie.
Carla Infante – Teacher presso Ministero Pubblica Istruzione

[…] Se non hai “quel” grembo
entro cui riversare ogni lacrima
delle tue ferite,
verso sera si va incontro a se stessi,
il pensare è compresso all’essenziale,
senza fronzoli né finzioni,
così che tutto
possa stare dentro l’abito mentale
predisposto all’ultimo,
eventuale fottuto viaggio,
e lo riporrai a ogni fottuta alba
fino a quando il sorgere del sole
ti dovesse comunicare
che un altro crudele,
fottuto giorno, sta per cominciare.
[…]
(Il mio grembo)

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: ANGELA PULPITO “TRACCE NEL DESERTO” – 20 GIUGNO 2016 – IN PREPARAZIONE 2a EDIZIONE 2023/2024

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI:

Angelo Pulpito, 20 giugno 2016, pensiero critico
“TRACCE NEL DESERTO” di Mauro Giovanelli
1a Edizione – Pubblicazioni

Libro variegato, molteplice, che tiene desta l’attenzione del lettore poiché la vita che scorre è fermata in attimi poetici, in prosa, in riflessioni. L’attenzione è sempre presente pagina dopo pagina “Tu… eri ancora un sogno errante tra i miei pensieri….”, “Mi sono fermato un istante a pensare…”, mentre l’esistenza dell’autore si dispiega in rivoli molteplici in cui il fiume della vita scorre e diviene. Venature filosofiche si spargono nei versi, ricordi, malinconie, amori ammantati di un mondo reale e surreale nel frattempo. Ma, forse, una recensione limita enormemente la creatività dell’autore di quest’affascinante libro per cui preferiamo che siano gli stessi lettori ad apprezzare il contenuto artistico e la capacità espressiva. Sicuramente da leggere tutto.

Angelo Pulpito per “Tracce nel deserto” di Mauro Giovanelli

L’articolo è stato pubblicato il 20 giugno 2016 da “MEMORIA CONDIVISA” sito www.memoriacondivisa.it

Sospesa la vendita, in preparazione 2a edizione 2023/2024

ESTRATTO DA “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” di MAURO GIOVANELLI

LUCY

… «Ok, va bene, però adesso dimmi a che intendevi riferirti».
«Nulla. Stavo considerando l’esatto momento in cui nacque quell’uomo, analizzare il prima e il dopo, ci deve essere un punto determinato, una faglia da cui far partire l’analisi. Ricordo i miei vecchi quando controllavano il guscio delle uova esaminandole traverso la lanterna. Se osservi con impegno, molta concentrazione, trovi sempre una piccola fessura che ti consenta di fare la tua scelta, decidere».
«Cioè?».
«Gli esseri umani che l’hanno preceduto, le grandi civiltà sorte e scomparse, le loro leggi, gli Dei che hanno adorato e venerato, e questi duemila anni».
«Quindi?».
«Che cosa faceva il tuo Dio a quel tempo?».
«Ascolta. Sono io che ho necessità di risposte, non tu. E la tua Dea Namagiri?».
Srinivasa rimane sorpreso da tale bestemmia.
«Lei è in equilibrio perfetto con tutto quanto detto, e ciò che sto per narrarti, lei non è un dogma, comunque non ti permetto di nominarla».
«Alla faccia. Allora che aspetti? Sputa il rospo».
«Te la senti?».
«Avanti. Che avrei da perdere?».
«Questo devi saperlo tu. La preistoria. Secondo una visione sufficientemente condivisa la preistoria ebbe inizio due milioni e mezzo di anni fa per arrivare al suo secondo periodo, la protostoria(9), diciamo intorno al diecimila a.C. Allora mi sorgono alcune domande. La prima è: quando fu l’uomo? Intendo dire l’essere la cui condizione nei confronti degli Dei, ammettendo esistano, oscilli tra la constatazione della sua mortalità e l’idea che possegga un elemento d’eccellenza che lo raffiguri a loro simile per la sua razionalità e la presenza di un elemento incorporeo, mente, anima, spirito che lo definiscano capace di elaborare concetti, scegliere, indagare l’ignoto. Così, a
spanne, possiamo dichiarare due milioni di anni fa? Un milione? Centomila? Diecimila prima di Cristo? La venuta di quell’uomo è ormai riferimento della storia».
«Diciamo diecimila».
«Mi sembrano pochi, come vedremo. Considera che il modello più accreditato dell’evoluzione umana, dopo i cinque, forse sei milioni di anni in cui ci siamo separati dagli scimpanzé…»
«Ecco ciò che m’interessa» – interviene Yuzaf – Quel preciso momento. Tu sai quale?».
«Ci arriveremo, forse. Mi stavo riferendo agli ardipithecus, Kadabba, Ramidus, quel che vuoi, e gli australopithecus, anamemsis, afarensis, africanus, bosei. Lucy!».
«Chi era?».
«Lucy?».
«Certo, chi altri se no?».
«Il suo nome in aramaico significa “tu sei meravigliosa”, chissà se ha amato, sofferto, pregato, sarebbe interessante
saperlo, allora i tuoi diecimila anni diventerebbero tre milioni e mezzo circa. E non dobbiamo dimenticare i generi paranthropus, aethiopicus, robustus…».
«Parlami di lei, Lucy».
«Non c’è molto da dire, non distrarti».
«Mi stavo domandando se fosse una “persona”».
«È proprio questo il punto, vedo che cominci a capire, cerca di seguirmi. In particolare a partire da circa due milioni e mezzo di anni fa, un milione dopo la tua Lucy, hanno convissuto quasi contemporaneamente cinque “specie” di nostri antenati del genere “homo”».
«Ecce Homo»…

«Che significa?».
«Mi è venuta d’istinto, “ecco l’uomo” nel senso che così dovrebbe essere, come descritto dal tuo Trockij, pregni di umanità appunto, e desiderio di conoscenza, invece fra tutti gli esseri viventi siamo i soli organismi a presentarci come animali e bestie allo stesso tempo» – e chinando la testa come se inseguisse un lontano pensiero, Yuzaf tristemente conclude – «anche se tale locuzione latina fu coniata per altri fini».

ESTRATTO DA “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” di Mauro Giovanelli

ESTRATTO DA “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” di Mauro Giovanelli

Santa meretrice

… la donna si passa un batuffolo di cotone lungo le spalle, sul petto, nella parte lasciata scoperta dalla camicetta leggera appena sostenuta dai seni perfetti, giovani. Una spallina è abbandonata lascivamente lungo il braccio a dichiarare l’appartenenza all’uomo. La carnagione creola è liscia, profumata, il viso è l’icona di una madonna tanto la dolcezza ha aderito a quell’ovale perfetto. Gli occhi grandi, neri e profondi esprimono soddisfazione femminile per aver dato godimento all’uomo, essere piaciuta e desiderata, compagna e consolatrice. Osserva con languore l’amante che si sta rivestendo nella speranza di attirare ancora la sua attenzione e cogliere in lui l’appagamento dei sensi. Bella, bellissima, fronte proporzionata, liscia, naso meticcio, regolare, muliebre, le orecchie precise, i capelli nerissimi, lucidi, con riflessi della notte, anche per la leggera e luccicante patina del sudore di un rapporto appena consumato. È seduta accanto a un robusto tavolo in noce e mentre con calma e serenità immerge il tampone nella piccola coppa per raccogliere altra essenza profumata, non stacca lo sguardo dal viso del compagno, e quello sguardo è ammiccante, generoso, dice che è ancora pronta a offrirsi, non fosse bastato.
Yuzaf la osserva malinconico, studiandola come se fosse l’ultima volta a vivere questa situazione e volesse imprimere l’immagine nella sua mente. Fatica a infilarsi il secondo stivale poi, con uno strattone, ecco fatto. Si alza, è pensieroso, abbottona distrattamente la bianca camicia, pure i polsini, continua a guardare la femmina, un’opera
d’arte definitiva, creatura perfetta. C’è calore in quell’istante, più profondo e intenso che qualunque altro vissuto, e rimpianto. Come un fulmine, il ricordo della donna amata rischiara i suoi occhi. Dopo aver allacciato i pantaloni, controlla il revolver traguardando il tamburo, i colpi ci sono tutti, con determinazione ripone l’arma nel fodero. Raccoglie l’automatica, fa scorrere il carrello per mettere la pallottola in canna, poi dedica molta cura nel riporla dietro la schiena, sotto la cintura. Nell’istante in cui s’infila il gilè, è interrotto da un vagito, scosta il lenzuolo steso su una fune lungo tutta la larghezza della stanza a fare da divisorio, un bimbo si agita nella culla, vuole la sua parte. Ora verifica ogni tasca, ritrova le sue cose, l’astuccio del tabacco, cartine, fiammiferi, e quello che sapeva doveva esserci, un sacchetto di pelle con monete d’oro. Ne raccoglie alcune, le conta facendole saltellare nella mano, ci ripensa, torna in sé e le depone tutte sul letto. I due si guardano e il loro discreto, impercettibile sorriso è la storia del mondo. Questa volta il rumore che si alza improvviso non proviene dalla culla, Yuzaf va alla finestra, solleva cautamente la tendina, e lungo il corso in direzione contraria a quella da lui presa non più tardi di due giorni fa, una folla immensa procede lentamente intonando laudi e preghiere. A guidare questo corteo, al centro, un’accozzaglia di pezzenti, alcuni in abito bianco, altri vestiti di sacco, a piedi nudi, in processione di penitenza, propiziano il Signore, volti coperti, corone di spine in capo, piedi nudi, flagelli in mano. In questa lunga sfilata ci sono nobili e plebei, vecchi e giovani, a due a due, preceduti da gonfaloni e cappellani con la croce, piangono mentre si
fustigano a sangue le spalle, il torace. Cento, mille, avanzano lenti, cadenzati invitando tutti a pentirsi dei loro peccati. A un segnale il corteo si ferma, i frati aspergono incenso a simboleggiare l’essenza divina del Cristo. Uno degli incappucciati indirizza la litania:
«O Dio, creatore e custode di ogni cosa, concedici di essere ministri della tua carità secondo lo spirito del TuoVerbo».
«Per questo ti preghiamo» risponde in coro la folla.
«O Padre, concedici di giungere alla perfezione della carità evangelica».
«Per questo ti preghiamo».
«O Padre, santifica con il tuo Santo Spirito i nostri corpi infetti».
«Per questo ti preghiamo».
«Signore, benedici le nostre carni martoriate».
«Per questo ti preghiamo».
I flagelli con cui si percuotono sono composti di una specie di bastone dal quale, sul davanti, pendono tre robuste corde con grossi nodi a loro volta attraversati da spine di ferro incrociate, molto appuntite, che li passano da parte a parte sporgendo dal nodo stesso per la lunghezza di un chicco di riso o anche più. Con questi strumenti i disgraziati si battono il busto nudo, così che si gonfia, assume una colorazione bluastra, si deforma, mentre il sangue scorre in ogni direzione imbrattando il selciato.
«Signore, donaci la forza di portare insieme ogni pena che incontriamo sul nostro cammino».
«Per questo ti preghiamo».
«Signore, accompagnaci nella missione della vita terrena per ritrovarci uniti per sempre nella gioia del tuo regno».
«Per questo ti preghiamo».
«Signore, nostro Padre e nostro Dio, per la rinuncia alle tentazioni di questa vita terrena accogli le nostre speranze per il mondo che verrà».
«Per questo ti preghiamo» fa eco quella congrega di fanatici.
Alcuni si configgono spine di ferro in profondità nella carne, nelle cosce, al punto che per toglierle, devono fare ripetuti tentativi, poi ricominciare. Le donne si tirano i capelli, a volte ne rimangono ciuffi nelle mani, stramazzano a terra e urlano, indemoniate, si strappano le vesti, tutto un contorno d’isteria collettiva.
«E aiutaci a preparare l’avvento del regno dello spirito, donaci la salvezza eterna».
«AMEN!» risponde all’unisono la moltitudine, ed è un segnale.
La processione riprende. Yuzaf osserva questa macabra rappresentazione, la mortificazione della carne, spettacolo osceno. La sua convinzione si fa sempre più forte. Ormai la risposta l’ha avuta, ora si tratta di apporre il sigillo.
«È per placare l’ira divina» – dice ingenuamente la donna – che lo richiama alla realtà, tanto per dire.
Yuzaf si volta di scatto, vede la purezza fatta persona, lei con un cenno del capo lo invita a restare, gli occhi languidi, profondi, incantevoli, lo reclamano. L’uomo getta un rapido sguardo al bambino, ritorna alla donna, abbassa la testa per vestire il cappellaccio nero, un vecchio Stetson a tesa larga e calotta schiacciata, apre la porta, la chiude dietro di sé e a tutto il resto.

ESTRATTO DA “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” DI MAURO GIOVANELLI: YUZAF E RAMÓN MERCADER

Da “Il leggìo a nove posizioni” di Mauro Giovanelli, edizione 2023 riveduta.

La grande abbuffata – Hitler, Stalin e compagnia cantando… il dialogo che segue si svolge fra due personaggi del romanzo. Precisamente Yuzaf (pseudonimo di Gesù scampato alla condanna del Santo Inquisitore de “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij) e Ramón Mercader, l’assassino di Lev Trockij. L’argomento trattato potrebbe fornire delucidazioni in merito agli accadimenti di questo nostro travagliato dopoguerra.

Estratto da “Il leggìo a nove posizioni”:

«… Aggiungo solo che poi, alla morte di Lenin, un certo Bucharin, rappresentante della destra del partito bolscevico, sostenne con Stalin la teoria del “socialismo in un solo Paese” schierandosi tra gli oppositori di Trockij di cui votò l’espulsione dal partito. Ma il nocciolo della questione è un altro, ossia l’evidenza che per installarsi al potere e mantenervisi sia la Rivoluzione d’Ottobre sia il nazionalsocialismo beneficiarono di enormi aiuti finanziari da parte del supercapitalismo internazionale».
«Spiegati meglio».
«Non è difficile, piuttosto c’è il rifiuto a crederlo, è sempre così amico mio. Ad esempio pochi sapevano e sanno che fin dalla vigilia della grande guerra la finanza mondiale deteneva vasti interessi economici nei cinque continenti, in parole povere già allora il fenomeno delle società multinazionali era tutt’altro che sconosciuto, immaginiamoci oggi. E i conflitti armati, questo dalla notte dei tempi, con la crescente necessità dei governi belligeranti di dover ricorrere a prestiti, e con la sempre maggiore importanza che di conseguenza gli apparati industriali acquisivano, concorsero ad aumentare l’influenza del sistema bancario sulla vita politica nazionale e internazionale. Siamo quindi arrivati a poter dire che questo porco mondo, sebbene a fasi alterne mostri grande coesione, ha i suoi centri decisionali nell’imperialismo degli Stati Uniti d’America i quali, naturalmente, alla “rivoluzione permanente” di Trockij prediligevano la teoria del “Socialismo in un solo Paese” di quel paranoico di Stalin».
«Il motivo? Perdonami ma ti seguo con fatica».
«Il motivo di che? Ce ne sono tanti di motivi».
«Intendo la ragione vera per cui questi “centri decisionali” fossero favorevoli alla politica di Stalin».
«Dovresti arrivarci da solo, i motivi sono tanti e in parte già li ho spiegati ma il più apprezzabile, se vogliamo anche il più banale, e questa è un’idea che mi sono fatto grazie ai miei trascorsi in certi ambienti, è di una semplicità sconfortante. A guerra finita i sovietici, sotto la dittatura di Stalin, sarebbero stati limitati, infatti si verificò, a condurre un tenore di vita “socialista”, ossia austero, e i “grandi” già sapevano che il rapido e rimunerativo (per i soliti noti) sviluppo occidentale avrebbe via via sempre più attratto quei popoli in quanto vedevano in esso il nuovo eden, il “paese dei balocchi”, invogliandoli quindi a rivoltarsi al potere costituito abbagliati dal più parabolico e lusinghiero specchietto per le allodole mai concepito. Perciò in nessun caso la teoria del “socialismo in un solo Paese” avrebbe potuto funzionare se non con una feroce dittatura».
«Quindi Trotskij aveva ragione».
«Certo che sì, con il termine “comunismo” Trotskij intendeva, del resto come da dottrina, la fase di passaggio rivoluzionaria terminata la quale l’umanità sarebbe pervenuta al “socialismo reale”, invece…».
«Invece?».
«Invece così facendo la parola “comunismo” divenne impronunciabile, sinonimo di oppressione, dittatura,
proprio ciò che “loro” volevano. Tutto studiato a tavolino, non sono mica stupidi quelli che reggono le sorti del
pianeta, neanche intelligenti intendiamoci, ma furbi sì, molto, e scaltri, e senza scrupoli, infatti sono loro a disporre le pedine, anche gli alfieri, e i re e le regine. Non è un caso che mentre le nazioni occidentali si scagliarono le une contro le altre in una sanguinosa guerra fratricida, la quale segnerà il tramonto dell’egemonia mondiale del Vecchio Continente, da Wall Street, che si può assumere come emblema dell’alta finanza internazionale, partirono operazioni che, passando al di sopra dei belligeranti, miravano non soltanto a tutelare gli investimenti operati ai quattro angoli del globo, ma anche a esercitare una regia, tanto discreta quanto efficace, sulla situazione generale. Adesso è più chiaro?».
«Sì, in parole povere c’è un centro decisionale che crea i presupposti per fare e disfare situazioni di conflitto fra nazioni molte volte intervenendo direttamente in modo pretestuoso.».
«Finalmente ci stai arrivando. Così, tornando al duo Hitler e Stalin, lungo tutto l’arco della guerra si assiste “all’imparziale” sostegno finanziario, attraverso la concessione di crediti e con la prosecuzione degli investimenti sia ai tedeschi, sia ai russi e agli “alleati”. Per quanto riguarda la Russia, i crediti e gli investimenti continuarono anche con il procedere della rivoluzione bolscevica e questo pone certamente quesiti. Ed è apparentemente ancora più inspiegabile che del denaro americano raggiungesse, in preparazione dell’abbattimento del regime imperiale, non solo i rivoluzionari liberali e socialdemocratici, ma anche i gruppi della sinistra comunista. In questo modo l’opposizione di sinistra, della
quale Trotskij faceva parte, fu smantellata dal gruppo stalinista, e lo stesso Trockij fu esiliato ad Alma Ata (oggi nel Kazakistan), poi espulso».
«Perché non fu ucciso? Ai miei tempi era tutto molto più sbrigativo in questo genere di cose».
A queste parole Ramón ebbe come un sussulto, riprese a grattarsi ferocemente la cicatrice ma Yuzaf lo fermò con delicatezza.
«Lo farà assassinare» – continuò Ramón con voce rotta – «ma non subito, costui aveva troppi proseliti in patria e Stalin doveva dimostrare magnanimità ecco perché al suo rivale riservò un lungo periodo di esilio e vagabondaggio in diversi paesi».
«Con il proposito di farlo fuori con tutta calma…» – intervenne Yuzaf.
«Certamente, e Trockij lo sapeva, eccome se lo sapeva, eppure mai gli venne a mancare l’ottimismo, infatti, continuò a fare propaganda in ogni luogo, auspicando una rinascita del “suo” comunismo. Senti questa: “Col comunismo, l’uomo diventerà incomparabilmente più forte, saggio, acuto. Il suo corpo diventerà più armonioso, i movimenti più ritmati, la voce più melodiosa. Le forme della sua esistenza acquisteranno un’eccezionale potenza drammatica. L’uomo medio raggiungerà la statura di Aristotele, Goethe, Marx. A quote ancora più alte si ergeranno nuove vette”».

……………………


«La sconfitta dei repubblicani nella guerra civile spagnola non ha certo incupito Stalin, sia per la sua idea di “socialismo in un solo Paese”, sia per la spartizione dell’Europa concordata prima con Hitler, poi con Roosevelt e Churchill, infine per sfruttarla come occasione al fine di attribuirne la responsabilità ai trotskisti e agli anarchici. Nel marzo del 1939 giunse dal Cremlino l’ordine definitivo di giustiziare l’odiato Trotskij avvalendosi di un veterano in operazioni di guerriglia nella penisola iberica. Secondo me era anche un fatto personale, una delle tante paranoie del dittatore, questo tipo di persone sono gente maleducata.

……………………

Testamento di Trotskij scritto di suo pugno pochi giorni prima di essere assassinato.

“Per quarantatré anni della mia vita cosciente sono rimasto un rivoluzionario e per quarantadue ho lottato sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi ricominciare tutto da capo, cercherei di evitare questo o quell’errore, ma le mie scelte resterebbero sostanzialmente immutate. Morirò da rivoluzionario proletario, marxista, materialista dialettico, quindi da ateo inconciliabile. La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente, anzi è ancora più salda, che nei giorni della mia giovinezza, se si produrrà l’esplosione sociale che spero e la rivoluzione socialista trionferà in diversi Paesi, quegli stessi lavoratori avranno la missione di aiutare i loro compagni sovietici a liberarsi dai gangster della burocrazia stalinista… vedo la verde striscia d’erba oltre la finestra e il cielo limpido azzurro di là dal muro, la luce del sole dappertutto. La vita è bella, i sensi celebrano la loro festa. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione, violenza e goderla in tutto il suo splendore».