IL MONDO CAPOVOLTO

IL MONDO CAPOVOLTO

Nella sua aberrazione c’era un equilibrio perfetto nei “giochi” del grande Impero Romano, civiltà che ha regalato sapienza e conoscenza al mondo intero. Allora nei vari “circhi” ventidue poveracci lottavano per la vita sotto gli occhi attenti e morbosi di cinquantamila patrizi. Oggi ventidue miliardari straviziati e strapagati competono per raggiungere ancora più fama e denaro osannati da cinquantamila e più poveracci che, per pagarsi il biglietto, rinunciano finanche ad esigenze primarie. Per questo alla fine se ne tornano a casa comunque incazzati, non ne comprendono il motivo ma il loro subconscio li lacera.
Il mondo capovolto.

Mauro Giovanelli – Genova
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VATE

VATE

Giunse un certo tempo.
Avvertii improvviso dolore
mai provato. Quel momento
prese l’anima, la mente, il cuore.

Mi sentii a tal punto diverso
che il cielo, seppur azzurro, limpido,
lo percepii avverso,
il mare amico infido.

Scesi la scalinata,
necessità di solitudine, pensare,
abbandonare l’affollata passeggiata,
sedermi fra le barche, meditare.

Stavo osservando l’orizzonte
che il sole cominciava a lambire.
Nel rosso infuocato tramonto
ebbi coscienza di un nuovo divenire.

Del tizio sopraggiunto
non mi ero accorto,
gambe raccolte, avambracci sulle ginocchia,
anche lui solo, malinconico, assorto.

“Devo cominciare ad usare il cervello,
reti, palamiti, nottate al freddo lunare
non bastano più. Un’ultima grande pescata
e mi ritirerò nel mio casolare.”

Così sentii dire all’aria
che si stava oscurando.
La coda dell’occhio vide
un viso cotto dal vento,

salino, rughe profonde come solchi,
mani penzoloni, potenti, usate,
amiche dei sognatori,
capelli argento, sguardo del vate.

Intervallo infinito. Intorno buio profondo,
non solo il brivido mi fece cambiare posa,
poggiai la mano sull’umido arenile,
dubitai fosse ancora lì nel ruotare il capo di un quarto:

“Per fare cosa?”

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza: Giovannino Montanari, 2013 – Tecnica mista acrilico su tela – “Eufemia Imperatrice” – Dimensioni cm. 100×100

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Arthur Schopenhauer – Aforisma dei porcospini

“In una fredda giornata d’inverno alcuni porcospini si strinsero vicini vicini e col reciproco calore proteggersi dal rimanere assiderati. Però ben presto avvertirono le vicendevoli spine; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dagli altri. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali. finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca che rappresentava per loro la migliore posizione. Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l’uno verso l’altro; tuttavia le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili li respingono di nuovo l’uno lontano dagli altri. La distanza media che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza si trova nella cortesia e nelle buone maniere.”

Arthur Schopenhauer

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza ricavata dal web: Arthur Schopenhauer

ASSETTO POLITICO

ASSETTO POLITICO

Lo ritengo “geometricamente” inclassificabile per quanto concerne la forma fisica che solo in apparenza potrebbe sembrare normale mentre ad un attento osservatore non sfuggirebbero alcuni particolari fuori assetto… fattore che potrebbe pure incidere sulla stabilità dell’umore. Un esempio per tutti: Non vi pare che le orecchie premino eccessivamente i lobi temporali? Al punto che si potrebbe pensare che i padiglioni auricolari siano intagliati alla base del cranio? Fra la “testa del condilo temporomandibolare” e il “meato acustico esterno”?
Saranno mica queste le famose “orecchie da mercante”?

Mauro Giovanelli – Genova
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I MONOLITI DI FULVIO LEONCINI (cose da folli…)

I MONOLITI DI FULVIO LEONCINI
(cose da folli…)

La prima parte del capolavoro di uno dei più grandi direttori della cinematografia mondiale(1) immerge lo spettatore nel continente nero di oltre quattro milioni di anni fa dove si assiste alla lotta per la sopravvivenza di un gruppo di pitecantropi. All’alba di un “certo” giorno, ancora più imprecisato il tempo siderale, gli ominidi vengono svegliati dal suono, non di questo mondo, che li attrae verso un gigantesco monolito nero, verticale, potente, irresistibile, misteriosamente materializzatosi in vicinanza della grotta che li ospita. Spaventati, incuriositi, diffidenti, increduli, circospetti essi osservano l’autorevole perfezione della sua forma avvertendo attrazione e timore insieme soggiogati dalla sua altezza, verticalità e stabilità che conferiscono al parallelepipedo indubbia supremazia. Vi si aggirano intorno, allontanandosene d’improvviso per riavvicinarsi sempre più, con cautela, emettendo suoni gutturali spaventevoli per darsi coraggio anziché nel vacuo intento di intimorire questa “creatura”, una specie di danza tribale, rito propiziatorio, fintantoché il più temerario viene sopraffatto dall’irresistibile impulso di toccare con mano poggiando l’intero palmo sopra la superficie, liscia al punto di non poter esistere, del prisma cosmico. Egli, primigenio “Ulisse” joyciano, sarà archetipo dell’omerico “Odisseo” quando alla prima aggressione da parte di competitori annetterà intelligenza alla lunghezza del braccio, precisamente raccogliendo un femore da terra al fine di usarlo come arma per eliminare i nemici.
È nato l’uomo! La gioia di osservare la tribù ostile fuggire dinanzi alla sua superiorità ma ancor più aver preso coscienza della propria natura lo inducono a spostarsi sulla collina dove, battendosi i pugni sul petto in segno di vittoria, urlando al cielo il trionfo dell’evoluzione lancia verso l’alto l’arma impropria che seguiremo nelle sue rotazioni in aria vedendola trasformarsi con eccellente sfumato nell’enorme astronave che sta trasportando il dottor Heywood Floyd su una base lunare dove è stato rinvenuto un grande monolito nero sotterrato da tempi remoti.
In pochi fotogrammi Stanley Kubrik raffigura un salto di oltre quattro milioni di anni così come l’amico e artista Fulvio Leoncini riesce ad imprimere su superfici limitate l’abisso della natura umana forse più profondo ed imperscrutabile del Cosmo. Unico Autore ad avermi dato attraverso le sue opere emozioni tali da raggiungere la commozione e, sotto certi aspetti, attraente angoscia per l’indotta consapevolezza di vedere in ogni suo dipinto le diverse sfaccettature dei tanti che veramente sono, dovrei essere o sarò. Ma non ho finito.
“Ora prendete il telescopio e misurate le distanze e guardate fra me e voi chi è il più pericoloso”.
Vi invito a farlo, munitevi di opportuno strumento come viene suggerito nell’opera posta in evidenza (“Elettroshock” 2010/2012 – Tecnica mista su legno – Dimensioni cm. 100×140) ed avvicinatevi ad essa, o qualunque altra generata da Fulvio, non limitatevi ad osservarla, sicuramente alla vista già avvertirete misterioso fascino, disagio senza conoscerne il motivo, anche paura, attrazione e le domande che vi porrete saranno così tante da impedirvi di formulare la più stupida di esse ossia puntare l’indice su uno dei tanti particolari chiedendo “Cosa è questo?”. Impossibile accada ciò, è testimoniato dalle mie nipotine facendo loro osservare un secondo lavoro scelto per aiutarmi in questo tentativo di descrivere qualcosa di inspiegabilmente arduo ossia “ROTAR – L’amor che move il sole e l’altre stelle” (2) “lavoro” che ho il privilegio di possedere, costituito da venticinque formelle cm. 30×30 ciascuna, incredibile itinerario dell’artista nel conscio, inconscio e in altra parte… Alle mie domande “Vi piace?”, “Cosa ne pensate?” dalle piccole non ho ricevuto alcuna risposta dopo che hanno sostato a lungo, in raccolto silenzio, dinanzi al “quadro”. Non sarà necessario aspettare che un giorno mi possano dare soddisfazione, l’ho già avuta.
Fulvio… beh! Fulvio è innanzi tutto una di quelle rarissime (uniche? Dante e Giordano bruno lo sono state) persone cui non si può evitare di volergli bene non solo ma, da uomo, maschio quale sono, fui e sarò, ho avvertito l’impulso di doverglielo dire, scrivere, pur sapendo della sua consapevolezza nel provare lo stesso virile sentimento nei miei riguardi. Ci siamo conosciuti due anni fa eppure da subito, in quel preciso primo contatto, abbiamo reciprocamente avvertito la netta sensazione di essere da sempre fratelli.
Fulvio è poeta ma ciò dovrebbe risultarvi evidente. Come potrebbe essere diversamente? Ma non rimatore, verseggiatore o quant’altro, egli è Poeta con la “P” maiuscola, il suo modo di essere, porsi, rapportarsi con gli umani, la sua personalità, bellezza, il tono della voce, il vissuto che straripa da ogni poro dell’involucro che a stento lo contiene, la sua calma e umiltà con le quali ti parla, quasi timore di esprimere il suo sapere essendo intellettualmente esagerato, oltre la angusta misura nel colloquiare e il “troppo pieno” del suo riflettere che lo portano a straripare pensieri. “Le abbiamo inventate tutte/ i calendari e le ventiquattrore/ le date sante/ la mano pesante/ i debiti e i crediti/ i migliori e i peggiori/ le spade affilate/ le teste rasate/ i padroni ed i padrini/ le famiglie affiliate/ le connessioni illimitate/ gli eventi mondani per troie e nani/ le arti maggiori e quelle minori/ piramidi e torri./ Corri ragazzo corri/ il cinema muto e quello sordo/ l’amore eterno e quello fuggente/ in quest’attimo/ le abbiamo inventate di tutte./ Assolutamente si/ assolutamente no./ Basterebbe si o no./ E poi gli attimini/ e i signori della Corte/ i venerdì tredici/ e già che ci siamo/ i martedì diciassette/ il morire sani e in forma smagliante/ già che ci siamo/ anche un armadio a due ante./ Dimenticavo il grillo parlante./ Buonanotte./ Dimenticavo comunque vada/ Panta rei/ le ossessioni e le possessioni/ io sopra te./ Io, Io, Io./ L’indifferenza e l’elemosina/ i don Chisciotte e i mulini a vento/ i funerali di stato/ e le fosse comuni./ Tutto tutto tutto./ Abbiamo inventato/ gli archi star e le super star/ i super chef e la nausea/ i creativi e i sensitivi./ Siamo vivi./ Siamo morti./ Siamo ombre./ Per fortuna/ c’è ancora un colle/ e un meriggiare pallido e assorto./ Per fortuna/ per sfortuna/ per caso/ per caos./ E un dio dai mille nomi/ per la forza e per la ragione/ ed io son qui/ povero coglione./ Guardo il soffitto/ e sfioro la corda/ Aspetto in silenzio/ che venga il buio/ gli occhi sono stanchi/ e la gamba fa male./ Quel che è stato non è stato/ niente è accaduto/ non sono mai stato qui./ Un battito di ciglia/ e attraverserò il muro.”(F. L.)
Fulvio vi lancia segnali, sempre, in ogni sua creazione, invenzione, emozione, sotto ogni forma e aspetto, coglieteli per cortesia, potrebbero essere la vostra salvezza, la mia, di tutti noi, la sola arma per uscire da questo immondezzaio in cui ci siamo cacciati, pensate ai figli vostri, nipoti, al domani che ci è stato rubato da una sempre più numerosa banda di cialtroni. “Fra le nuvole/ con le mie favole/ ti porterei.”(F. L.) Lasciatevi catturare, allentate ogni freno inibitore, abbandonatevi, dimenticate e risorgete “Sole estivo d’aprile/ olivi d’argento./ Al di la dell’ argine/ immagino il mare/ chiudo gli occhi/ il cuore batte lento/ volo sempre più in alto/ aquila sola/ senza posa/ ormai indifferente/ il dolore dalla gioia/ un limbo placido/ niente può farmi più male/ che ne sarà di loro/ laggiù in quelle stanze umide/ che fine faranno/ in quale camino troveranno pace/ non importa/ ho vissuto per loro/ ho dato l’anima per loro/ ed ora non hanno più alcuna importanza/ mi alzo ancora/ punto dritto al sole/ con ali d’argento/ come foglie d’olivo.”(F. L.) Non ho idea di quanto abbia visto Fulvio del Pianeta che ci ospita ma certamente ne ha percepito ed assimilato l’essenza al punto da avvertire l’inarrestabile ed incessante necessità di andare oltre.
Avendo ricevuto tutte le scomuniche, dai cattolici, calvinisti e luterani, Filippo Bruno, al secolo Giordano, aveva girato l’Europa sempre nascondendosi presso illuminati protettori fino a che l’inquisizione della Chiesa Romana riuscì a fermarlo per rinchiuderlo in una putrida cella e bruciarlo vivo il 17 febbraio 1600. Tuttavia non gli impedirono di scrivere “…quindi l’ali sicure all’aria porgo; Né temo intoppo di cristallo o vetro, Ma fendo i cieli e a l’infinito m’ergo. E mentre dal mio globo a gli altri sorgo, E per l’eterio campo oltre penetro: Quel ch’altri lungi vede, lascio al tergo… Così, io sorgo impavido a solcare coll’ali l’immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia arrestare contro le sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente dedotta da un falso principio, affinché fossimo come rinchiusi in un fittizio carcere e il tutto fosse costretto entro adamantine muraglie. Ma per me migliore è quella mente che ha disperso ovunque quelle nubi e ha distrutto l’Olimpo che accomuna gli altri in un’unica prigione dal momento che ne ha dissolto l’immagine, per cui da ogni parte liberamente si espande il sottile aere. Mentre m’incammino sicuro, felicemente innalzato da uno studio appassionato, divengo Guida, Legge, Luce, Vate, Padre, Autore e Via. Mentre mi sollevo da questo mondo verso altri mondi lucenti e percorro da ogni parte l’etereo spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli attoniti…”(3) È la prima volta che faccio un accostamento che potrebbe sembrare irriverente verso uno, se non il più grande filosofo di ogni epoca, inviso in patria (ti pareva) ma celebrato ovunque. Bene… allora vi dico che il domenicano entrato in tale confraternita al fine di poter accedere alla conoscenza, i libri allora detenuti dalla Santa Romana Chiesa, sarebbe strafelice del paragone, desidero che Fulvio lo sappia poiché non sono del tutto convinto, unico dubbio su di lui, che sia persuaso della sua grandezza. Se mai il Bruno avrebbe da lamentarsi non poco del fatto che ad un centinaio di metri dal suo monumento in Campo de’ Fiori a Roma ci sia l’urna, terza cappella di destra della chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, con la mummia del gesuita Roberto Bellarmino, santo e dottore della Chiesa tre volte seppure sia stato suo aguzzino e colui che fece abiurare Galileo Galilei tre lustri dopo (1616). Per la venerazione dei fedeli ovviamente.
A proposito di Galileo Galilei “Ora prendete il telescopio e…” osservate il femore che il nostro ominide aveva lanciato verso il Cielo, stimatene le evoluzioni, mettete ancora più a fuoco l’immagine mentre sta trasformandosi nell’astronave che porta il dottor Heywood Floyd sulla base lunare dove è stato rinvenuto un grande monolito nero sotterrato da tempi remoti, considerate il comportamento degli uomini evoluti che si muovono intorno a questa “creatura” ponendosi analoghe domande dei pitecantropi e nutrendo gli stessi timori circa l’inquietante presenza fintantoché nel buio della quindicinale notte del nostro satellite, mentre gli astronauti posano davanti al “manufatto” per scattare alcune fotografie, esso viene colpito dai primi raggi di sole dell’alba lunare e inizia ad emettere un forte segnale radio nel cosmo, direzione Giove.
Adesso preparatevi ad un viaggio, ancor meglio lo definirei pellegrinaggio, non limitatevi ad analizzare le fotografie dei “lavori” di Fulvio, esse rappresentano neppure un centomillesimo di ciò che realmente sono e di quanto possano darvi, andate ad ammirarle dal “vivo”, toccatele, accarezzatele con il dorso della mano e vi accorgerete di cosa realmente stiamo parlando, avvertirete richiami positivi così come il segnale radio emesso dal monolito ha indotto conoscenza ai preominidi e successivamente spinto gli occupanti la base lunare di compiere una missione direzione Giove non come semplice esplorazione scientifica bensì all’indagine di fenomeni extraterrestri. Perché le opere di Fulvio non sono semplici “quadri”, “dipinti”, “disegni” che vi inducono a riflettere, stimolare uno massimo due dei cinque sensi, i “lavori” di Fulvio pungolano le vostre sinapsi, di conseguenza accrescono gli stimoli elettrici nei neuroni, il vostro pensare aumenterà di intensità emotiva, perfino i battiti cardiaci varieranno la frequenza e qualcosa di estremamente piacevole afferrerà lo stomaco, la pancia… sentirete di non essere come prima ma migliori, più curiosi, razionalmente predisposti verso l’umanità, coloro che vi circondano li avvertirete come parenti, fratelli, amici da curare se ne abbisognano, comprendere, aiutare. Avvertirete ciò che il grande navigatore genovese provò prima di spingersi verso l’ignoto per scoprire un altro continente, allo stesso modo inseguirete il vostro ego, cercherete in tutti i modi soddisfazione nella vera natura di cui siete composti. “E il mare concederà a ogni uomo nuove speranze, come il sonno porta i sogni” sosteneva Cristoforo colombo ed io dico che Fulvio è un mare di emozioni, le immagini vive delle sue creazioni regalano apprensione, trepidazione, desiderio di superarsi, cambiare, giungere oltre.
In prossimità di Giove unici superstiti dell’equipaggio predisposto dal dottor Heywood Floyd, composto inizialmente da cinque astronauti di cui tre in stato di ibernazione, saranno il comandante David Bowman e, a questo punto, possiamo dire anche il sofisticatissimo computer di bordo HAL 9000 della nave spaziale Discovery One che li trasporta. HAL, dotato di intelligenza artificiale in grado di interloquire e riprodurre ogni attività della mente commette un imperdonabile errore in prossimità dell’orbita del pianeta gigante dove viene avvistato il gigantesco monolito nero. È per questo che, accorgendosi dell’intenzione da parte di David di venire disattivato, “egli” non trova altra soluzione se non l’eliminazione dell’equipaggio facendo in modo che Frank perisca durante un’escursione extraveicolare e interrompendo i sistemi che mantengono attive le funzioni vitali dei tre compagni ibernati. Avete inteso? Il monolito infonde la scintilla dell’ingegno al pitecantropo, indica ai tecnici la base spaziale lunare la via della conoscenza identificata , infonde vita “umana” ad un elaboratore.
Le opere di Fulvio sono il “monolito” di Kubrik, le “cinque vie” di Tommaso d’Aquino attraverso le quali intende individuare Dio come primo motore immobile, prima causa incausata, essere necessario e sapientissimo ordinatore e allo stesso tempo le confutazioni di Gaunilone e le rielaborazioni di Cartesio, Leibniz “se Dio è possibile, necessariamente esiste” o “nulla va considerato come un male assoluto altrimenti Dio non sarebbe sommamente sapiente per afferrarlo con la mente, oppure non sarebbe sommamente potente per eliminarlo”. Oppure, nella sua multiforme ingegnosità Fulvio potrebbe ipotizzare, credo fosse Platone o Aristotele, “…Il primo motore a rappresentare la causa ultima del divenire dell’Universo” se non lo sbalorditivo sillogismo di John Locke con il suo “In ogni effetto non può essere contenuto nulla più di quanto sia implicito nella causa. Al mondo esistono persone dotate di intelligenza, quindi l’origine del mondo deve essere intelligente” e ce ne sarebbe… solo da come imballa i suoi lavori, il nero che lui stesso compone per la cornice, la cura del particolare ti rendi conto che viene “consegnato” un frammento del muro del pianto all’ebreo, l’ostensorio al cristiano, un pugno di polvere dell’antichissima città di Medina al mussulmano.
Concludo: “Ora usate ciò di cui vi ha dotato la Natura, gli occhi, fissate quelli di Fulvio e misurate le distanze e guardate fra lui e voi chi è il più indifeso”.
Credete sia folle? “Giro giro tondo casca il mondo, casca la Terra, tutti giù…” Questa la filastrocca cantata da HAL mentre David disinserisce una ad una le sue unità di memoria, dapprima implorando clemenza per poi iniziare a regredire allo stadio infantile cantilenando con voce sempre più fioca il motivo insegnatogli dal suo primo istruttore. L’agonia ed infine la morte.
Bowman, esploratore superstite, si trova dinanzi al sistema gioviano con i satelliti allineati e, dopo essersi imbarcato su una capsula d’emergenza, viene assorbito con accelerazione sconosciuta da una scia luminosa multicolore che annulla lo spazio. Percorre tracciati metafisici fra stelle, nebulose, ignoti panorami cosmici fino al materializzarsi della navicella in una stanza chiusa, arredata in stile Impero. Qui egli si trova ad esistere contemporaneamente in punti differenti ed a diverse età, vedendo sé stesso invecchiare e seguendo da molteplici punti di vista i disparati stadi della propria vita per rinascere in forma di enorme feto cosmico che scruta la Terra dallo spazio essendosi evoluto in una forma di vita superiore. Il cerchio si chiude.
Cosa ti aspettavi grande Leoncini? Che scrivessi circa i significati di ciò che generi? Dei tuoi tormentati percorsi? “Elettroshock”, “Le spose violate”, “Eroso/Eros”, “Avete lo stomaco al posto del cuore” e quant’altro? Dei “Libri d’Autore” che neppure avrei immaginato esistessero? “Di sole ombre” sarebbe meritevole, da solo, di un poema. O pensavi affrontassi temi sulla stesura del colore, la mano virtuosa, la tecnica mista (come minimo mistica)? Potrei aggiungere che il tuo “Forse è un paesaggio” è mio compagno, mutevole nei suoi innumerevoli toni di grigio, non esiste giorno che non mi ci soffermi perché è infinito, straripa dai confini della cornice, mi fa andare al di là di… Forse ci arriverò.
Un abbraccio amico fraterno e ricorda che mi sono informato su “Il seminatore, con il carro, tiene con cura le ruote”.
Mauro.

(1) 2001: Odissea nello spazio è un film di fantascienza di Stanley Kubrick del 1968, basato su un soggetto di Arthur C. Clarke il quale ha poi tratto dalla sceneggiatura l’omonimo romanzo.

(2) Paradiso XXXIII, 145 – ultimo verso della Divina Commedia di Dante Alighieri

(3) Così si esprime Giordano Bruno in uno dei tre sonetti premessi al dialogo italiano “De infinito, universo e mondi” del 1584. E con parole simili si esprimerà all’inizio del poema latino “De immenso”, pubblicato sette anni dopo

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagini in evidenza: FULVIO LEONCINI – A sinistra “Elettroshock” 2010/2012 – Tecnica mista su legno – Dimensioni cm. 100×140 – A destra “ROTAS – L’amor che move il sole e l’altre stelle” 2013 – Dimensioni cm. 150×150 (nr. 25 formelle cm 30×30 cad.) – Tecnica mista su legno

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Allen Ginsberg – URLO

Dedicata a questa generazione, i giovani massacrati da una classe politica infame e ignorante, affinché ritrovino lo spirito e la forza di indignarsi e reagire come fecero i grandi intellettuali che li hanno preceduti. M.G.

URLO
A Carl Solomon

I

Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla
follia, affamate isteriche nude,
trascinarsi nei quartieri negri all’alba
in cerca di un sollievo astioso,
alternativi dalle teste d’angelo in fiamme per l’antica celeste
connessione con la dinamo stellata nel meccanismo
della notte,
che in povertà e stracci e occhi vuoti e fatti sedevano
fumando nell’oscurità soprannaturale di
appartamenti con acqua fredda galleggianti tra le cime delle città
contemplando il jazz,
che esponevano il cervello spogliavano al Cielo sotto l’Elevata
e vedevano angeli maomettani barcollare illuminati su tetti
condominiali,
che attraversavano università con freddi occhi splendenti
allucinando l’Arkansas e la tragedia della Blake-light
fra gli studiosi della guerra,
che venivano espulsi dalle accademie per estremismo &
pubblicazione di odi oscene sulle finestre del
cranio,
che si annidavano in stanze non sbarbate in mutande, bruciando
i loro soldi in cestini dei rifiuti e ascoltando
il Terrore attraverso il muro,
che venivano perquisiti nelle barbe pubiche tornando via
Laredo con una cintura di marijuana per New York,
che mangiavano fuoco in alberghi riverniciati o bevevano trementina a
Parco Paradiso, morte, o purgatoriavano i propri
busti notte dopo notte
con sogni, con droghe, con incubi a occhi aperti,
alcol e cazzo e palle infinite,
incomparabili vicoli ciechi di nuvola vibrante e
fulmine nella mente scagliata verso i poli di
Canada & Paterson, che illumina tutto l’im-
moto mondo del Tempo in mezzo,
solidità di Peyote di saloni, albe di cimitero dell’albero verde del
cortile, ubriachezza di vino sui tetti,
borghi commerciali di giretto da fumati semaforo lampeggiante
al neon, vibrazioni di sole e luna
e albero nelle ruggenti foschie invernali di Brooklin,
proclami Ashcan e luce mentale di re gentile,
che si incatenavano a metropolitane per l’interminabile
corsa da Battery al benedetto Bronx sotto benzedrina
finché il rumore di ruote e bambini li faceva scendere
tremanti con la bocca convulsa e abbattuti il cervello inaridito
tutti drenati di splendore nella sconfortante luce di Zoo,
che si immergevano tutta la notte in luce sottomarina di Blickford’s
emergevano e sedevano a smaltire la birra svaporata dopo
mezzogiorno in un desolato Fugazzi’s, ascoltando il frastuono
d’inferno dal jukebox a idrogeno,
che parlavano senza interruzione settanta ore da parco a
casa a bar a Bellevue a museo al Ponte
di Brooklin,
battaglione disperso di conversazionalisti platonici che saltavano
fuori da scalinate da uscite di sicurezza da davanzali
dall’Empire State dalla luna,
chiacchiericciando strillando vomitando sussurrando fatti
e ricordi e aneddoti e pugni nell’occhio
e traumi di ospedali e carceri e guerre,
interi intelletti degurgitati in flusso di coscienza per sette giorni
e notti con occhi brillanti, carne per la
Sinagoga gettata sul pavimento,
che svanivano nel nulla Zen New Jersey lasciando una
pista di ambigue cartoline illustrate dell’Atlantic
City Hall,
soffrendo calure orientali e artriti Tangerine
e emicranie della Cina durante astinenze da roba
in una camera squallidamente arredata di Newark,
che giravano e giravano a mezzanotte nello
spiazzo della ferrovia domandandosi dove andare, e andavano,
senza spezzare nessun cuore,
che accendevano sigarette a camionate camionate camionate arrancando
nella neve verso fattorie solitarie nella notte
del nonno,
che studiavano Plotino Poe San Giovanni della Croce telepatia
e bebop cabbala perche il cosmo vibrò
istintivamente ai loro piedi in Kansas,
che si aggiravano solitari per le strade dell’Idaho cercando
angeli indiani visionari che fossero angeli indiani
visionari,
che pensavano di essere solo pazzi quando Baltimora
risplendette in estasi soprannaturale,
che saltavano in limousine con il Cinese dell’Oklahoma
ispirati dalla pioggia invernale di semaforo di paesino
a mezzanotte,
che si aggiravano affamati e soli per Houston
cercando jazz o sesso o zuppa, e seguirono lo
spagnolo brillante per conversare sull’America
e l’Eternità, un’impresa disperata, e così si
imbarcarono per l’Africa,
che sparivano nei vulcani del Messico lasciando
dietro di sè nient’altro che l’ombra dei jeans
e la lampada lava e cenere di poesia sparpagliata nel
camino Chicago,
che riapparivano nel West investigando
sull’FBI in barbe e pantaloncini e grandi occhi
pacifisti sexy con la loro pelle abbronzata mentre
distribuivano incomprensibili volantini,
che si procuravano bruciature di sigarette sulle braccia per protesta
contro foschia narcotica di tabacco del Capitalismo,
che distribuivano pamphlet Supercomunisti a Union
Square piangendo e spogliandosi mentre le sirene
di Los Alamos li lamentavano via, e lamentavano
via Wall, e il traghetto di Staten Island pure
si lamentava,
che scoppiavano in lacrime nella palestra bianca nudi e
tremanti di fronte al meccanismo di altri
scheletri,
che mordevano ispettori sul collo e strillavano con gioia
in macchine della polizia per non aver commesso alcun crimine salvo
la propria pederastia in selvaggia ebollizione e intossicazione,
che ululavano in ginocchio nella metropolitana e venivano
trascinati via dal tetto agitando genitali e
manoscritti,
che si lasciavano fottere in culo da motociclisti
santi, e urlavano di gioia,
che pompavano e venivano pompati da quei serafini umani,
i marinai, carezze dell’Atlantico e amore
Caraibico,
che scopavano la mattina la sera in giardini
di rose ed erba di parchi pubblici e
cimiteri spargendo il loro seme liberamente per
chiunque volesse venire,
che singhiozzarono all’infinito provando a ridacchiare ma se la cavarono
con un gemito dietro un separé di un bagno turco
quando il biondo & nudo angelo venne a infilzarli
on la spada,
che perdevano i ragazzi per le tre vecchie maledizioni del destino
la maledizione con un occhio solo del dollaro eterosessuale
la maledizione con un occhio solo che ammicca dall’utero
la maledizione con un occhio solo che non fa nient’altro che
star seduta tutto il giorno a tagliare i fili d’oro
intellettuali del telaio dell’artigiano,
che copulavano estatici e insaziabili con una bottiglia di
birra un fidanzatino un pacchetto di sigarette una
candela e cadevano giù dal letto, e continuavano sul
pavimento e nel soggiorno e finivano collassati
sul muro con una visione di troiaggine perfetta e orgasmo
che eludeva l’ultimo sprazzo di coscienza,
che addolcivano le fiche di un milione di ragazze tremanti
al tramonto, e avevano gli occhi rossi la mattina
ma erano preparati ad addolcire la fica del sole
nascente, chiappe balenanti nei fienili e nude
al lago,
che andavano a puttane per il Colorado in una miriade
di auto civette rubate, N.C., eroe segreto di questi
versi, amatore e Adone di gioia di Denver
alla memoria delle sue innumerevoli trombate di ragazze
in parcheggi vuoti e retri di tavole calde, sedili traballanti
di cinema, su cime di montagne in grotte o con
cameriere ossute in sollevamenti di sottane solitarie
ai bordi di strade familiari & specialmente solipsismi segreti
di gabinetti di stazioni di servizio & pure parchi di paese natio,
che sfumavano via in vasti film sordidi, erano sostituiti
nei sogni, si svegliavano a un inatteso manhattan, e
si tiravano fuori da sottoscala intossicati
di tocai senza cuore e orrori di sogni di ferro
da Terza Strada & vagavano verso uffici di
disoccupazione,
che camminavano tutta la notte con le scarpe piene di sangue sulle
banchine di neve aspettando che una porta dell’East
River si aprisse su una stanza piena di vapore
e oppio,
che creavano grandi drammi suicidi sui cornicioni
d’appartamento dell’Hudson sotto il riflettore blu
da coprifuoco della luna & le loro teste saranno
incoronate con l’alloro nell’oblio,
che mangiavano lo stufato d’agnello dell’immaginazione o digerivano
il granchio sul fondo fangoso dei fiumi di
Bowery,
che piangevano per la dolcezza delle strade spingendo carrelli
pieni di cipolle e cattiva musica,
che sedevano in scatole respirando nell’oscurità sotto il
ponte, e si alzavano per costruire clavicembali nelle
loro stanze,
che tossivano al sesto piano di Harlem coronata di fiamme
sotto il cielo tubercoloso circondati
da casse arancioni di teologia,
che scribacchiavano tutta la notte completamente esaltati per sublimi
incantesimi che nel giallo mattino erano
strofe di spazzatura,
che cucinavano animali fradici polmoni cuore zampe coda borsht
& tortillas sognando il puro regno
vegetale,
che si infilavano sotto camion della carne in cerca di
un uovo,
che lanciavano gli orologi giù dal tetto per esprimere il proprio voto
per un Eternità al di fuori del Tempo, & delle sveglie
gli caddero sulla testa ogni giorno per il decennio successivo,
che si tagliarono i polsi per tre volte in successione senza
successo, ci rinunciarono e furono costretti ad aprire negozi
di antichità dove crederono di stare
invecchiando e piangevano,
che furono bruciati vivi nei loro innocenti completi di flanella
su Madison Avenue fra esplosioni di versi plumbei
& il clangore corazzato dei reggimenti
della moda & gli squittii alla nitroglicerina delle
fatine della pubblicità & il gas tossico di sinistri
editori intelligenti, o furono investiti dai
tassisti ubriachi della Realtà Assoluta,
che saltarono giù dal Ponte di Brooklin questo è successo
veramente e se ne andarono via ignoti e dimenticati
nel labirinto spettrale della zuppa di vicoli di
Chinatown & camion dei pompieri, nemmeno una birra gratis,
che cantavano dalle finestre disperati, cadevano dal
finestrino della metropolitana, saltavano sul lurido Passaic,
scavalcavano negri, gridavano per tutta la strada,
danzavano su bicchieri di vino rotti a piedi scalzi frantumavano
dischi fonografici di jazz tedesco dei nostalgici
anni ’30 europei finivano il whisky e
vomitavano rumorosamente nella maledetta tazza del cesso, gemiti
nelle orecchie e l’esplosione di colossali fischi di
vapore,
che sfrecciavano sulle autostrade del passato viaggiando
verso la fuoriserie Golgota dell’altro veglia in solitudine di
prigione o incarnazione jazz di Birmingham,
che guidavano per i campi settantadue ore per scoprire
se io ho avuto una visione o tu hai avuto una visione o lui ha
avuto una visione per scoprire l’Eternità,
che visitarono Denver, che morirono a Denver, che
tornarono da Denver & aspettarono invano, che
si occuparono di Denver & incubarono & furono soli a
Denver e infine se ne andarono per scoprire il
Tempo, & ora a Denver mancano molto i suoi eroi,
che caddero in ginocchio in cattedrali irrecuperabili pregando
per la salvezza dell’altro e luce e tette,
finché l’anima si illuminava il pelo per un secondo,
che si spaccavano la testa in prigione aspettando
criminali impossibili con teste d’oro e il
fascino della realtà nei cuori che cantassero
dolci blues di Alcatraz,
che si ritirarono in Messico per coltivare un vizio, o sulle Montagne
Rocciose per intenerire Budda o a Tangeri per i ragazzi
o nel Sud del Pacifico per la locomotiva nera o
a Harvard per Narciso a Woodlawn alla
collana di margherite o alla tomba,
che esigevano test sanitari accusando la radio di
ipnotismo & restavano con la loro demenza & le loro
mani & la corte divisa,
che lanciavano insalata di patate ai relatori del CCNY sul Dadaismo
e successivamente si presentavano sui
gradini di granito del manicomio con teste rasate
e discorsi carnevaleschi di suicidio, richiedendo
lobotomia immediata,
e che ricevevano invece il vuoto solido dell’insulina
Metrazolo elettricità idroterapia psicoterapia
terapia occupazionale pingpong &
amnesia,
che per seria protesta capovolsero simbolicamente un unico
tavolo da pingpong, riposando brevemente in catatonia,
ritornando anni dopo veramente calvi a parte una parrucca di
sangue, e lacrime e dita, al destino visibile di pazzo delle guardie
delle città manicomio dell’Est,
le fetide sale del Pilgrim State, di Rockland e di Greystone,
bisticciandosi con gli echi dell’anima,
scatenandosi nella solitudine panca dolmen impero
dell’amore a mezzanotte, sogno di vita un incubo,
corpi mutati in pietra pesanti come la
luna,
con la mamma che alla fine ******* , e l’ultimo fantastico libro
lanciato fuori dalla finestra del locale, e l’ultima
porta chiusa alle 4 AM e l’ultimo telefono
sbattuto contro il muro per risposta e l’ultima stanza
arredata svuotata fino all’ultimo
mobile mentale, una rosa gialla di carta arrotolata
su una gruccia di fil di ferro nell’armadio, e persino
quella immaginaria, niente altro che uno speranzoso pezzettino
di allucinazione
ah, Carl, finché non sei al sicuro neanche io sono al sicuro, e
ora sei proprio nel completo brodo animale del
tempo
e chi dunque corse per le strade ghiacciate ossessionato
da un improvviso balenio dell’alchimia dell’uso
dell’ellissi il catalogo il metro & il piano
vibrante,
che sognò e realizzò brecce umanizzate in Tempo & Spazio
grazie a immagini giustapposte, e intrappolò
l’arcangelo dell’anima tra due immagini visive
e unificò i verbi elementari e conciliò il nome
e l’insorgere della coscienza saltando
con la sensazione di Pater Omnipotens Aeterna
Deus
per ricreare la sintassi e la misura della povera prosa
umana e apparire davanti a te muto e intelligente e
tremante di vergogna, respinto eppure
confessandosi l’anima per conformarla ai ritmi
del pensiero nella sua nuda testa infinita,
il barbone matto e battito d’angelo nel Tempo, sconosciuto,
eppure mettendo giù qui quanto potrebbe rimanere da dire
nel tempo dopo la morte,
e sorse reincarnato nei panni spettrali del jazz nell’ombra
di corno dorato della banda e soffiò le
sofferenze d’amore della nuda mente dell’America in
un eli eli lamma lamma sabachtani grido di sassofono che
fece rabbrividire le città fino all’ultima radio
con il cuore assoluto del poema della vita macellato
dai loro stessi corpi buono da mangiare per mille
anni.

II

Che sfinge di cemento e alluminio gli ha spaccato il cranio e ha mangiato
i loro cervelli e la loro immaginazione?
Moloch! Solitudine! Sporco! Bruttezza! Ashcan e dollari irraggiungibili!
Bambini urlanti sotto trombe delle scale! Ragazzi che gemono negli eserciti!
Vecchi che piangono nei parchi!
Moloch! Moloch! Incubo di Moloch! Moloch il senza amore! Moloch
Mentale! Moloch il grande giudicatore di uomini!
Moloch il carcere incomprensibile! Moloch prigione senz’anima ossa in croce
e Congresso di dolori! Moloch i cui edifici sono sentenze!
Moloch la vasta pietra della guerra! Moloch i governi
stupefatti!
Moloch la cui mente è puro meccanismo! Moloch il cui sangue è denaro
che corre! Moloch le cui dita sono dieci eserciti! Moloch il cui petto
è una dinamo cannibale! Moloch il cui orecchio è una tomba fumante!
Moloch i cui occhi sono mille finestre schermate! Moloch i cui grattacieli
si ergono nelle lunghe strade come innumerevoli Geova! Moloch le cui
fabbriche sognano e stridono nella nebbia! Moloch i cui fumaioli e
antenne coronano le città!
Moloch il cui amore è infinito olio e pietra! Moloch la cui anima è elettricità
e banche! Moloch la cui povertà è lo spettro del genio! Moloch
il cui destino è una nuvola di idrogeno asessuato! Moloch il cui nome è la
Mente!
Moloch nel quale siedo solitario! Moloch nel quale sogno Angeli! Pazzia nel
Moloch! Bocchinaro nel Moloch! Senzamore e senzauomo nel Moloch!
Moloch che è penetrato presto nella mia anima! Moloch nel quale sono coscienza
senza corpo! Moloch che mi ha terrorizzato via dalla mia estasi
naturale! Moloch che io abbandono! Svegliati Moloch! Luce che urla dal
cielo!
Moloch! Moloch! Appartamenti robot! sobborghi invisibili! tesori di sheletri!
capitali cieche! manifatture diaboliche! nazioni spettrali! manicomi
invincibili! cazzi di granito! bombe mostruose!
Si sono rotti la schiena per sollevare Moloch al Cielo! Pavimenti, alberi, radio,
tonnellate! sollevando la città al Cielo che esiste ed è dappertutto attorno
a noi!
Visioni! presagi! allucinazioni! miracoli! estasi! portati via dal fiume
americano!
Sogni! adorazioni! illuminazioni! religioni! l’intero bastimento di stronzate
emotive!
Cambiamenti radicali! al fiume! capriole e crocifissioni! via con la corrente!
Esaltazioni! Epifanie! Disperazioni! Suicidi e grida di animali di dieci
anni! Menti! Nuovi amori! Generazione ribelle! giù sugli scogli del
Tempo!
La benedetta risata autentica nel fiume! L’hanno vista tutti! gli occhi selvatici! le benedette grida!
Hanno dato l’addio! Sono saltati dal tetto! nella solitudine! facendo ciao!
portando fiori! Giù nel fiume! nella strada!

III

Carl Solomon! Sono con te a Rockland
dove sei più pazzo di me
Sono con te a Rockland
dove dovrai sentirti ben strano
Sono con te a Rockland
dove imiti l’ombra di mia madre
Sono con te a Rockland
dove hai assassinato le tue dodici segretarie
Sono con te a Rockland
dove ridi per questo umorismo invisibile
Sono con te a Rockland
dove siamo grandi scrittori sulla stessa orribile macchina da scrivere
Sono con te a Rockland
dove la tua condizione è diventata seria e lo riporta la radio
Sono con te a Rockland
dove le facoltà del cranio non tollerano più i vermi dei
sensi
Sono con te a Rockland
dove bevi il tè dal seno delle zitelle di Utica
Sono con te a Rockland
dove fai battute sul fisico delle tue infermiere le arpie del Bronx
Sono con te a Rockland
dove gridi in camicia di forza che stai perdendo la partita
dell’autentico pingpong degli abissi
Sono con te a Rockland
dove pesti sul pianoforte catatonico l’anima è innocente e
immortale non dovrebbe morire mai empiamente in un manicomio armato
Sono con te a Rockland
dove cinquanta altri shock non restituiranno mai più la tua anima al corpo
dal suo pellegrinaggio verso una croce nel nulla
Sono con te a Rockland
dove accusi i dottori di demenza e trami la rivoluzione
ebrea socialista contro il Golgota nazionale fascista
Sono con te a Rockland
dove separerai i cieli di Long Island e farai risorgere il tuo
vivente Gesù umano dalla tomba sovrumana
Sono con te a Rockland
dove ci sono venticinquemila compagni rabbiosi che cantano tutti assieme
le strofe finali dell’Internazionale
Sono con te a Rockland
dove abbracciamo e baciamo gli Stati Uniti sotto le lenzuola gli
Stati Uniti che tossisce tutta la notte e non ci lascia dormire
Sono con te a Rockland
dove ci svegliamo elettrificati dal coma per gli aeroplani delle
nostre anime che rombano sul tetto sono venuti a sganciare bombe angeliche
l’ospedale si illumina mura immaginarie franano O smunte legioni
correte fuori O scossa di grazia a stelle e strisce la guerra
eterna è giunta O vittoria lascia perdere le mutande siamo liberi
Sono con te a Rockland
nei miei sogni cammini gocciolando da un viaggio di mare sull’autostrada
attraverso l’America in lacrime verso la porta della mia villetta nella notte
dell’Ovest.

Allen Ginsberg (Newark, 3 giugno 1926 – New York, 5 aprile 1997)

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Jalāl al-Dīn Rūmī

Al di là delle idee
di giusto e sbagliato,
vi è un vasto campo.
Come vorrei incontrarvi là!
Quando colui che cerca
raggiunge quel campo,
si stende e si rilassa.
Là non esiste credere
o non credere…

Jalāl al-Dīn Rūmī
(Balkh, settembre 1207 – Konya, 17 dicembre 1273)

Anche conosciuto come Jalāl ad-Dīn Muḥammad Rūmī, Mevlānā in Turchia e Mawlānā nell’Iran e in Afghanistan. Ulema, teologo musulmano sunnita e poeta mistico di origine persiana. Fondatore della confraternita sufi dei “dervisci rotanti” (Mevlevi), è considerato il massimo poeta mistico della letteratura persiana.

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Immagini in evidenza: A sinistra rappresentazione Jalāl al-Dīn Rūmī – A destra dervisci rotanti dell’omonima confraternita “sufi”

FOSSI FOGLIA…

FOSSI FOGLIA…

Fossi foglia deciderei non esser più vegetale,
mi staccherei dal ramo
e lasciandomi trasportare dalla brezza primaverile
andrei a cercare nutrimento umano
fra i capelli del suo delizioso volto femminile,
mi insinuerei sfiorando il collo
nella speranza di sentirla rabbrividire,
percorrerei con cura i lineamenti, nessuno escluso,
infine negli occhi troverei riposo
in attesa si spalanchino
per donarmi un sorriso dolce, affettuoso.

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SIGNIFICANTE NONSENSO

SIGNIFICANTE NONSENSO

Per ogni sbilenca rotazione su se stessa durante l’ellittico percorso intorno al sole nella traslazione dei corpi celesti verso chissà dove, su questa Terra c’è un momento in cui il confine fra luce ed ombra è netto, deciso, implacabile come affilatissima lama di scimitarra, privo della pur minima, impercettibile sfumatura, al punto che percorrendo e superando nel silenzio assoluto ogni ostacolo taglia in due parti nette strade, facciate di palazzi, lastricati, giardini, piazze, panorami urbani, periferie, monumenti. Tutto. È il passaggio della membrana nulla che ruota all’interno dell’universo al fine di tenerlo in equilibrio cosmico nell’infinito. Alcuni lo percepiscono, non molti. In quell’attimo inafferrabile mi assale irresistibile malinconia ed ogni cosa diventa possibile.
Chiedetelo a De Chirico, lui lo sapeva.

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Immagine in evidenza: Fronte retro dell’inquietante Monumento alla duchessa di Galliera posto nei giardini a lato dell’omonimo ospedale in Genova.

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ODIO I POVERI, GLI OPPRESSI, I DISEREDATI…

ODIO I POVERI, GLI OPPRESSI, I DISEREDATI, TUTTI NESSUNO ESCLUSO, PERCHÉ MI COSTRINGONO AD ESSERE COMUNISTA.

L’immagine in evidenza l’ho scattata personalmente, una delle tante. E’ “monolocale” dei molti che stanno proliferando a Genova nella “zona residenziale” in cui ho il privilegio di abitare, a ridosso di Corso Italia la più prestigiosa passeggiata a mare della città. Naturalmente trattasi di ottimo rifugio essendo sottopasso per accedere ai boxes e posti auto dei residenti “per bene” schifati di questa ignobile ed inaudita situazione che “deturpa l’immagine del quartiere”. Dicono: “Mica siamo in periferia!” o “Sampierdarena”. Ah! Dimenticavo. Questi devoti cittadini vanno a ricevere l’eucaristia ad ogni festa “comandata” nella chiesa posta a sinistra del piazzale retrostante. Nel sottopasso che si vede sullo sfondo ci sono altri due “alloggi” di questo tipo e, ovviamente, un altro sul marciapiede opposto a questo. “L’Italia che verrà” è lo slogan di qualcuno dei nostri politici. Un’ultima cosa: Sono bianchi, etnia “ramo degli europoidi”. Incredibile ma vero. Con amore.

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