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ETSEFAT SAUG

ETSEFAT SAUG

D’estate crescono più in fretta
ed essere costretti
a farsi tagliare i denti
almeno ogni due mesi,
finché non spunteranno
quelli da latte, definitivi,
è una bella incombenza!
E prendere la corda
del vecchio orologio?
Tutti i santi giorni,
sera e mattina,
al punto che ti verrebbe voglia
di appenderti per il collo
e scalciare la sedia…
Non è impegno da poco!
Curare le carie dei capelli,
anestesia e quant’altro,
una buona masticazione
richiede anche la pulizia.
Poi… Per gli uomini intendo,
quelli veri, smettere di pensare
alla donna ideale mentre
dinanzi allo specchio
ti allunghi la barba
ancora assonnato,
lametta arrugginita, residua,
le prime le cambi ad ogni
piè sospinto, al minimo segnale
di pelle sgranata
ma l’ultima dura finché ti ricordi
di restituirla al supermercato.
Il libro dove hai lasciato quell’appunto
non ti trova mai, allora rinuncia,
resti solo, disorientato, incazzato,
porti al piano terra l’ascensore
dopo esserne uscito, l’auto
ti assale per condurti al parcheggio,
aspettare la consueta osteria,
che ti accoglie, ingloba,
e lì contempli la giornata
che vedi morire con tutti gli amici,
riempire bottiglie, piangere,
stare in guardia,
spegnere mille sigarette,
rovesciare bicchieri,
guardarci ammutoliti!
Infine…
Fuggire lance in resta
quando tramonta la Terra.
Inizia la festa!

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

Immagine in evidenza: Michele Omiccioli artista, china e pennarello indelebile su carta, anno 2018, dimensioni cm. 33 x 48

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NEL SOGNO…

NEL SOGNO…

…nel sogno, quella foto tua,
non lo sai, nel sogno eri tu,
in una periferia, Città del Messico,
forse Coyoacan, niente asfalto,
sterrato, ti sporcavi i piedi,
da poco aveva piovuto,
ed io anche, per inseguirti,
premevo sotto il vestito corto
da adolescente, tu mi tastavi
con amore inaudito,
nella penombra dell’andito
di un rudere della iglesia
mi hai fatto venire subito,
ho voglia di te da morire,
ora, adesso, dovunque,
sul pavimento, nessun tappeto,
per strada, in cucina,
senza freni, limite alcuno,
nel delirio eri monella,
io discolo abituato al suburbio,
ne conoscevo ogni mistero,
ti facevi cercare, esultavi,
giocavamo liberi dalla realtà,
non vi erano vincoli…
Miracolo, mistero, autorità.

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

Immagine in evidenza ricavata dal Web

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DORMIAMO…

DORMIAMO…

Dove mi stanno portando?
E perché?
Di questo Universo
quanto è distante
il punto esatto, ineffabile,
il lampo preciso, puntuale,
in cui venni concepito?
E il differenziale
da quando sono nato?
Che distanze ho coperto
in anni luce e frazioni?
A quale velocità?
Come ricomporre
ogni casualità
di quel momento?
Riordinare il Cosmo,
galassie, pulviscolo, stelle,
buchi neri, comete,
asteroidi vaganti,
ammassi globulari,
corpi celesti di
qualsivoglia natura,
il tempo e lo spazio
sposati nelle curvature
generate in ogni
infinitesimale dell’amplesso
che determina percorsi
da seguire, tracciati,
risucchiati nelle onde
contrarie all’eterno divenire.
Gli orizzonti li contengo tutti.
Quale miglior esploratore
di me stesso se mi segui
ti ci porterò, saremo ovunque,
toccheremo il limite,
abbi fiducia, ho immense fantasie,
afferra la mia mano,
non temere, diverrai regina
del Mondo, io sovrano
solo… Lasciami controllare
la rotta, fa che io sia
ciò che sono stato,
sono e sempre sarò,
almeno fino a quando
arriveremo. Insieme.
Fidati ciecamente,
non domandare,
apri le gambe,
lasciati guardare,
devo fissare l’istante
e per questo itinerario sei tu,
amore, il mio solo sestante.
Anche se non vi è logica alcuna
cominciamo nel saltare
sul primo treno in corsa,
quello che insegue gli intervalli,
versiamo ogni lacrima poi
un balzo nel vuoto,
saremo trasportati dal vento
accasciamoci infine
sotto un vulcano spento.
Dormiamo.

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

Immagine in evidenza: Busto di Nefertiti – Museo archelogico – Berlino

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FORSE È POESIA

“FORSE È POESIA”

►CODICE ISBN: 9788892319806

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Presentazione

Prosa, lirica, brani e… chi se ne frega! Con tale incipit non è mia intenzione apparire anticonformista, tanto meno “stravagante” ma le prefazioni, postfazioni, biografie, ecc. incominciano a stancarmi in quanto alla fin fine, se non sono altri a comporle, diventano la parte più “pesante” del lavoro e si cade facilmente nella retorica. “Leggete…” non vuole essere imperativo, piuttosto l’esortazione affinché voi stessi verifichiate il valore di questo volume in cui ritengo siano compresi poesie, brani, critiche d’arte, commenti di rara bellezza e originalità. Sono certo di ciò, anzi direi unici, coinvolgenti, veri, alla faccia della metrica, strofe, assonanze, capoversi, regole che a tutto guardano eccetto il contenuto, la fantasia e lo stile.

VIII edizione “Sintonia Immaginifica” – Relazione conclusiva di Mauro Giovanelli – Genova

“Artepozzo Energie d’Arte Contemporanea”
VIII edizione “Sintonia Immaginifica”
Inaugurazione mostra d’arte 21 ottobre 2017
“Chiesa dei Confratelli di San Rocco” – La Morra (Cuneo)
Relazione dello scrittore e poeta prof. Mauro Giovanelli di Genova

— ° —

Per la loro disponibilità e presenza si ringraziano il sindaco del Comune di “La Morra” sig.ra Maria Luisa Aschieri, l’Assessore alla Cultura nonché il parroco don Massimo della “Chiesa dei Confratelli di San Rocco”
— ° —
A tutto il 5 novembre sarà aperta al pubblico l’ottava edizione di “Sintonia Immaginifica” a cura de “Associazione Artepozzo Energie d’Arte Contemporanea”. Nella seducente e storica ambientazione della chiesa dei “Confratelli di San Rocco” a La Morra (Cuneo) anche quest’anno sono quindi esposte opere di selezionati artisti contemporanei i quali arricchiscono le antiche e suggestive mura proponendo uno spaccato dell’estro italiano (pittura, fotografia nonché lettura e interpretazione di brani poetici).
Presidente di “Artepozzo” e promotrice dell’evento Angela Maioli Parodi a tal punto innamorata delle Langhe da considerare imprescindibile impegno rispettare il tradizionale appuntamento autunnale sia con l’Amministrazione, la Curia ed i cittadini dello storico e ridente Comune, sia verso i turisti che in questa stagione non rinunciano ad assaporare il clima, l’aroma ed il gusto del pregiatissimo vino ivi prodotto”.
— ° —
…e fu tra le mura barocche della chiesa di San Rocco, dopo aver superato il maestoso, pregevole settecentesco portone finemente intagliato che mi ritrovai dinanzi una distesa. Avrebbe potuto essere mare, savana, candido deserto, prateria, pianoro innevato, ma… neppure il turbinio di numeri e lettere di ogni alfabeto e idioma che innanzi a me emergevano e si inabissavano tra incongrui flutti e maestose colline di vigneti, vigneti e ancora vigneti avrebbe potuto darmi indicazioni utili quando finalmente realizzai che tale luogo di culto fu edificato intorno al 1716 come ex voto per volontà dei Confratelli Turchini o Blu in quanto La Morra, questo rammentai essere il nome del Comune, non fu toccato dalla peste del 1630, epidemia che nel periodo ‘629/‘633 colpì diverse zone dell’Italia settentrionale e grandiosamente descritta da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi” nonché nel saggio critico “Storia della colonna infame”. Sapevo essere costruzione terminata nel 1750, anno in cui furono compiute le sue eleganti linee barocche, a navata unica che si allunga nell’abside per accogliere la pala d’altare del “pittore di Mondovì” (1786), con la Vergine, S. Rocco e veduta della contrada. La volta a cupola, affrescata da Pietro Paolo Operti di Bra, illustra la Gloria del Santo. Cerco di raccapezzarmi fra equazioni, iperboli, asintoti, dex e sigma, in quel confortevole approdo (A Mora [a’mʊra] che significa “recinto per le pecore”). Da subito mi sfuggì il senso, la consapevolezza di essere stato trascinato in quel turbinio di colori, ipotesi, significati dunque, nel cercare di mettere ordine nella mia mente e come la situazione richiedeva, procedetti in rigoroso ordine alfabetico ad esaminare opere suggestive dalle quali venni circondato, elaborate da un gruppo di artisti i cui nomi suonavano inconsueta armonia: Carlo Piterà, Fausto Nazer, Giacomo Mozzi, Jessica Spagnolo, Loredana Marcarini, Lorenzo Bersini, Luca Capoccia, Marco Creatini, Mario Menardi, Paolo Viola, Roberto Villa, Silvia Rege Cambrin e, ospite d’onore, discosti dal cuore di marosi e frangenti dai quali venni investito, l’attenzione fu catturata da due dipinti del Maestro Carlo Rambaldi, tre volte premio Oscar per gli effetti speciali di altrettanti memorabili film. Un senso di quiete, direi coraggio e speranza mi assalì alla vista dei suoi due angeli, madonne con il Bambino in braccio, figure celestiali che infondono dolcezza, senso di protezione, aureole a forma di gusci fossili, conchiglie, ammoniti del lontano Triassico, pennellata decisa, senza titubanza, concreta e surrealistica. Magica.
Infatti tutto ciò che accadde, come capirete, fu incantesimo. Pur in questo ordinato caos di simboli e messaggi trasalii nel vedere Lui, “Ecce Homo” venirmi incontro con espressione più rassegnata che afflitta, dolore pacato, sorregge il corpo della propria madre quasi lo volesse mostrare ad un’umanità indegna, peccatori in blue Jeans, gli stessi che indossa oltre la corona di spine che pare neppure si accorga avere in capo. Più che il viso coperto da un sudario è il braccio di Lei, penzolante con inanimata gravezza, a tradire essere spirata. Lo accompagnano una rappresentazione dell’angoscia umana così acuta, istantanea quanto imprevista da rendere talmente rapido l’abbattimento del capo verso il tavolaccio dietro il quale l’ignoto avventore sta seduto da superare l’accelerazione di gravità, annullare le masse, lasciando per quell’istante il cappello sospeso in aria, disorientato come il bicchiere con alcool e ghiaccio neppure toccato e, poco distante sempre in primo piano, la disperazione rappresa in un involucro costretto da filo spinato. Il metafisico, trasognante e surrealistico scenario si completa nel parco di autodemolizione, proprietà dell’odierno raggiunto “progresso”, dove l’elmo gallico di un centurione romano fa giungere a noi, tramite levitazione, l’urlo lanciato nel lontano 476 per lo sdegno della caduta dell’Impero romano che ha portato a ciò che oggi siamo: Carlo Piterà.
Allontanandomi taciturno fui investito da pioggia scrosciante, a tratti trasversale, rabbiosa per il vento che la accompagnava, biancastra, nevischio adirato. Nel cercare rifugio da quei colpi di pennello graffianti, invadenti, indiscreti ma opportuni constatato che tre magnifiche ed elegantemente abbigliate figure femminili quasi non badano al preludio dello scatenarsi degli elementi, mi fermo ad osservarle. Immerse nel loro pensare riflesso in eccitanti riverberi delle pozzanghere, non più lacustri arcipelaghi ma superficie intera a ricoprire il selciato, costoro sopportano con disinvoltura ciò che la natura impone ai propri figli orientando gli ombrelli di cui sono munite verso l’intruso che finanche vorrebbe sollevare le vesti. Immobile, il paesaggio urbano neppure si accorge di loro: Fausto Nazer.
Immagini, immagini, lettere, numeri, colori, bianco e nero, istanti eterni scompigliarono l’intelletto mentre mi imbattei nelle quattro fotografie di un video maker il cui stile mi pareva aver già avuto modo di apprezzare, professionista abile nel fissare il momento dell’accadimento, ricordo l’adolescente che cerca di attirare l’attenzione, nel salutare desidera essere ammirato prima del tuffo, una delle tante prodezze che dovrà affrontare nella vita rappresentata dall’onda, come queste che mi stanno travolgendo, che sta accumulando energia per metterlo a dura prova. Bella persona Giacomo, esperto, schivo, umile, competente, sensibile eppur attento e di grande bravura. Ho ammirato il suo progetto “50 mm” dal titolo adeguato a quanto sto narrando “Una vita sempre in giro” di cui ho il privilegio di possedere, per sua generosità, la 1/50: Giacomo Mozzi.
Che strana la vita, pure le opere che sono proprio a fianco del rinvenuto amico mi sembrano famigliari. Acquisto coraggio, in solitudine non facile trovare la giusta direzione tra flutti di concetti. Riconosco la stessa mano di una sua opera che qualche mese fa, nel caldo agosto del nostro profondo sud, al solo osservarla mi fiondò fra le tende dei nomadi del deserto, il Sahara, precisamente la parte meridionale, l’Akakus, dove il mio “Finalmente albeggia” aveva una percezione diversa dalla forza espressiva incisa da Jessica nel suo dipinto. Dissimile il senso della luce del sole, io ne avvertivo il primo calore, ogni riverbero che preannunciava la sua totale comparsa, non il nostro astro, un altro si levava alto sull’orizzonte, più grande, implacabile, vitale. Meraviglia. Per quel gitano significava invece essere ancora vivo tra gli scempi che si stanno perpetrando nel mondo, per ora oltre i confini della nostra “civiltà”. Altre due opere che sto oggi osservando solo in apparenza potrebbero apparire simili invece lo stacco dell’immensa frazione di tempo che spadroneggia sul nostro essere determina universi. Si tratta di due primi piani della medesima figura femminile, ritratta di spalle, volto girato di un quarto verso l’osservatore come fosse stata colta di sorpresa, impaurita, sospetta, capelli appena lavati, pettinati, sopracigli perfetti come si fosse preparata per una festa ma nello sguardo timore che l’intruso possa ancora tentare una violenza appena scampata. Infatti in una tela la pupilla si accende e compare rosso, sangue, sia nella spalla rialzata a protezione del viso sia sulla parete dove la fanciulla sembrerebbe cercare riparo. Questo vedo nella colorata realtà pittorica ricca di luci, ombre, simboli di Jessica Spagnolo.
Improvviso il suono di un’arpa si erge alto, strumento che raccoglie dal Cielo luci bianche di energia al contrario dell’organo che sradica profondo suono dalle viscere della Terra. Il silenzio obbedisce al pizzico delle celestiali dita di Patrizia Borromeo, la abbraccio in segno di ringraziamento mentre estrae dal cordofono remoto strumento antiche note. Ne vengo letteralmente rapito ma non sono il solo poiché nel ritirarmi a lato compaiono figure che danzano fluttuando su melodia che supera la vertiginosa cupola. Ecco Gabriella Spadaro, Carolina Brasioli, Riccardo Riva che accompagnano l’amico di sempre Max Baroni con movenze e costumi tanto semplici quanto irripetibili, unici, coinvolgenti. Rigetto subito il pensiero, rapido come un ceffone, che mi coglie “solo un cretino integrale può non comprendere tale bellezza ed essere distratto dal suo nulla” ed è proprio la voce di Max che cattura l’anomala, fulminea riflessione: “Verso sera si comincia a vivere o morire, fare l’amore o la notte accanto al congiunto in coma, in attesa dell’alba che vedrà esecuzioni di sorelle e fratelli. Verso sera sai che il tuo pensare ti aspetta più agguerrito che mai, potresti trascinarlo fino al sorgere del sole, annuncio che hai superato l’ostacolo ed il fardello comincia a pesare sull’altra parte di mondo.”(1) Ascoltare questa mia poesia interpretata così… così… umanamente mi emoziona ma il sopraggiungere dei suoi entusiasmanti versi “Primo vagito di una storia che circola tra le pieghe del tempo, tra luce e ombre di un dialogo in trasformazione per un suono ancestrale che nel silenzio dell’anima ascolti, che nel silenzio dello sguardo dell’altro ritrovi, che nel silenzio di un sospiro innamorato conosci. Suono. Vita. Armonia.”(1) termina in un tripudio di applausi che ci rende tutti una sola cosa.
Interdetto da tale rappresentazione cerco un via d’uscita, necessito stare da solo per meditare su quanto accaduto quindi mi dirigo là dove spazio e materia interagiscono liberamente e le sole leggi da rispettare sono state dettate dal Principio, pensavo fosse una finestra aperta sul Cosmo il dipinto ai piedi dell’altare. Appropriato al sogno, al mio pensare, quindi percepisco massa, forze gravitazionali, attrazione, il superamento del V postulato di Euclide con la dimostrata indimostrabilità che ci ha condotto alla trascendenza, espanso il nostro limite, determinato quel meno 1/12° cioè [- 0,08(3)] ossia il benedetto tre periodico che ci ha spalancato altre porte inimmaginabili. Ed il tocco, il tratteggio, la pennellata, i colori, la luce dell’inesistente sfera celeste che migra nello spazio allontanandosi da chissà quale corpo celeste sono stati raffigurati prepotentemente: Loredana Marcarini.
E neppure intravedo un solo segno di pausa nell’incontrare la confortevole e faustiana sagoma di Lorenzo Bersini. Penso che ci siamo conosciuti in qualche altra vita e, tra il sigma, lo 0,99 nonché tutto quanto sta nel mezzo, i 36 numeri più lo zero, il logaritmo dell’eccedenza, la serie ed i vicini abbiamo pure approfondito la natura femminile che questo amico rappresenta in immagini dalle tonalità argentee, luminescenti, acquose, colori tanto più “inventati” quanto reali nell’armonia delle variegate composizioni alchemiche, immagini cui l’artista imprime forza vitale estrema, il senso del divenire nelle multiformi impercettibili soste esistenziali, amore, stupore, disorientamento, passione, bellezza e ammirazione della donna e tutto quanto in essa si celi. Vigore creativo, quasi rabbia nell’imprimere passione ai volti, estrarre da essi l’anima, il pensiero, ogni desiderio indicibile finanche a loro stesse. Nelle opere esposte si rinnova l’incantesimo, vedi il “respirare”, il “gesto”, la “delicatezza” del silenzio. È sorprendente, mi ripeto caro Lorenzo, che tutto ciò fuoriesca da supporti in carta artistica 30% cotone: Lorenzo Bersini.
Non era necessario richiedere una consulenza al CERN o il MIT per comprendere non ne sarei più uscito. Voltandomi incappo in due opere che a prima vista avrebbero potuto darmi quiete, Medusa e Perseo, ma nell’avvicinarmi queste si scomposero e ricomposero incessantemente in altre raffigurazioni catapultandomi nella mitologia greca. Pur conoscendo il potere di pietrificare chiunque incrociasse lo sguardo di una delle tre Gorgoni insistetti nell’analizzare tale innovativa creatività. Perseo, eroe della mitologia greca, figlio di Zeus e Danae (coincidenza astrale che intendessi declamare qualcosa di attinente alla figlia del re Acrisio) ricordato soprattutto proprio per l’uccisione di Medusa si trasformava anch’egli in altre figurazioni. Ottima realizzazione, idea da considerare, desiderio di sapere: Luca Capoccia.
Procedo, ormai il tempo non mi appartiene, la distesa che si estende innanzi ai miei occhi è sconfinata ma “…il naufragar m’è dolce in questo mare”. Mi imbatto in un’opera dallo stile inconfondibile, già apprezzato in altra circostanza anche se non ho il piacere di conoscere personalmente l’autore. Non ci si può sbagliare, metafisica, inconscio, superamento del limite, sogno, eternità… fuggevole eternità, ingannevole, mutevole, avvolgente e scoprente. Qui meno evidenti i richiami al “classico”, piuttosto direi al moderno e postmoderno con interrelazioni al surrealismo di Dalí anche se sullo sfondo si intravedono ruderi a ridosso di mare e cielo plumbei. Protagonista un uovo dalla forma incongrua per l’eccessiva stilizzazione voluta dalla posizione precisa e improbabile ai nostri sensi (Cristoforo Colombo l’avrebbe affondato in parte nella rena o pressato sulla roccia deformandone la base). l’Autore è sempre teso al tentativo di afferrare l’allucinazione per raggiungere spazi in cui fermarsi a contemplazione del Tutto: Marco Creatini.
Colori, colori e colori. Soprattutto sono utilizzati i due primari, rosso e blu, con poche mescolanze per le rappresentazioni che osservo. Malinconia tipica degli artisti nordici, Edvard Munch in particolare, ed il filosofare di Søren Kierkegaard “Il concetto dell’angoscia (1844)”, “La malattia mortale (1849)”. Proprio nell’opera “Il funerale” o “La morte nella stanza della malata” che il grande artista de “L’urlo” dedicò al fantasma della sorella Sophie e ad essere raffigurato è il dolore psicologico. Anche in queste opere avverto atmosfera mirata alla reazione dei singoli personaggi senza volto perciò distanziati dall’evento cui stanno partecipando, svuotati del sogno: Mario Menardi.
Ecco, dovrei fermarmi un istante, ed è nell’esaminare la panchina in ferro dove proprio al centro sta seduta una fanciulla, di spalle, compresa nell’ammirare il paesaggio, immobile, distaccata dal mondo, impegnata ma è l’esecuzione della “base” dell’opera che incide sulla prospettiva, dà profondità, i braccioli offrono tridimensionalità, così per il “filare” in cui mi immergo, colori tenui, pastello, confortevoli, accessibili. E percorrendo leggero il viale fra “il noccioleto primavera” il grande Max ha improvvisato, come solito fare, una poesia scritta e declamata all’istante. Quando mi perverrà il testo provvederò ad inserirlo nel presente articolo: Paolo Viola
È sufficiente il nome del grande fotografo Roberto Villa, le esposizioni in Italia e all’estero effettuate solo negli ultimi sette anni, l’esperienza maturata nel campo della cinematografia, la sua grande passione per l’arte, poesia ed ogni campo del sapere. Basti sapere che nel 1972 accettò l’invito dell’immenso Pier Paolo Pasolini che raggiunse l’anno successivo sul set de “Il fiore delle Mille e una notte”. Lavorando nello Yemen, Iran ed altri Paesi realizza un documentario su “Pilato” interpretato da Giorgio Albertazzi. Nel 1974 è sul set di Alberto Sordi in “Finché c’è guerra c’è speranza”. Collabora con Aiwa, Mitsubishi, Tandberg, Olympus, Philips, Canton… Come “Associazione Culturale Fondo Roberto Villa” è dal 1973 che espone importanti documenti fotografici d’Archivio, sia in Italia presso le Istituzioni, sia in tutto il Mondo in rappresentanza del nostro Paese per la Fotografia e Cultura Nazionali. Parlarvi delle splendide immagini esposte mi sembrerebbe superfluo. Ammiratele! Una vita per l’arte. Una storia: Roberto Villa
Natura morta! Solo per il verme che fa capolino dalla mela non la individuerei tale. Del resto alla definizione usata ed abusata eliminerei “morta” poiché la vita che sta nascosta in un oggetto è immensa per chiunque sia in grado di percepirla. Splendido il canestro. Dalí si cimentò a rappresentarlo. Lo stesso Michelangelo Merisi, noto come il Caravaggio, diede una lezione d’arte al suo maestro di bottega che, avendolo relegato nello sgabuzzino per il suo carattere “irrequieto”, questi ne uscì solo dopo aver dipinto la più stupefacente natura morta della storia che lì giaceva dentro un paniere. Ed i colori, lo sfondo, il gioco di luci ed ombre sommessamente accennato, il raspo ed i chicchi d’uva, il succo trattenuto dall’arancia dimezzata, la negligenza della seconda opera non certo attribuibile all’artista. Il libro antico che tanto sapere ha devoluto sembrerebbe essere stato preso da “Il Bibliotecario” di Giuseppe Arcimboldo. Gli iris poggiati con noncuranza pare che soffrano, anelano l’acqua della brocca vuota (o piena) a metà, ne avvertono la presenza, o la “vedono” nelle trasparenze riprodotte con maestria. Il tavolo è sicuramente in noce. Complimenti. Stavo per uscire quando, distaccata dalle prime due opere, mi imbatto in una terza della medesima autrice. Affascinante femmina, intrigante rappresentazione, simbolismo proveniente da chissà quale onirica invenzione, non è ritratto a figura intera, neppure paesaggio, potrebbe essere “avatar”, discesa e incarnazione di una divinità, il “bagnato” della pelle non è di questo mondo, neppure i capelli che avvinghiano la donna come tentacoli. Lo sguardo che non c’è ma vive, la posizione delle mani in adorazione di se stessa. È necessario amare molto per realizzare ciò: Silvia Rege Cambrin.

Mentre l’ultraterreno suono dell’arpa stava riprendendo, Max e la sua compagnia scalpitavano per la prevista e imprescindibile seconda performance che mai mi stancherei di ammirare, provai il desiderio di dedicare alle donne, tutte, moglie, madri, sorelle la poesia “Fémina – Danae”: “Voli alto! Nulla sfugge al tuo sguardo. Regina del Cielo possiedi anche Terra, Fuoco. Ogni tuo planare, incurante di corvi e avvoltoi, è maestosa carezza al Mondo. Deità degli occhi tuoi pretendono venerazione così, intimamente, nell’inconscio, chi ambisce la tua mente è frenato dalla convinzione dell’impossibile conquista. Delusione di storie sofferte negli stanchi riverberi delle pupille, non facile afferrare l’orizzonte che traguardi, impervio da concepire anche solo in parte e tu, assalita da stanchezza di realtà che ti circonda, arresa alla consapevolezza che dalla tua quota il resto è mediocrità, scivoli fino a lambire il suolo, ti adegui per soddisfare sani appetiti, risalire infine appesantita del carico di ricordi e un leggero germoglio di vita. Compiacimento della carne non è sufficiente a placare il tuo essere. Spirito, inquietudine del pensiero anelano completezza con i moti di anima e corpo. Nel tendere alla perfezione irrinunciabile l’assoluta libertà di spaziare nel tuo Universo.”(2)
L’armonia rimbalza fra le volute della chiesa, la voce ed il recitare inimitabili di Max Baroni si innestano ora agli arpeggi, l’attenzione è per la sua interpretazione, gestualità, passione. Gabriella, Carolina e Riccardo indispensabili compagni: “Importante catturare la lucertola, mica per farle male, doveva spiegarmi qualcosa, alla fine l’ho presa perché era stanca, non riusciva a correre bene su quella campana di cemento liscio posata a terra. Mia madre e mia sorella non hanno sentito, le ho chiamate a lungo mentre si allontanavano. Gente rarefatta in piazza De Ferrari, le auto vecchio tipo colore dei taxi anni ‘50, nere, c’era anche del grigio, posteggiate male, al centro, di traverso. Era sera, il chiaro del giorno insopportabile, rumore muto della gente, capivo ciò che l’uomo in divisa stava dicendo a un gruppetto di persone senza volto. Le ho raggiunte che già erano arrivate a casa, ho chiesto come mai non mi avessero sentito, le avrei accompagnate. Io alla lucertola ho parlato e… il Natale non sarà mai più come prima.”(3)
“Spensieratezza. L’ultima campanella.Una corsa tra spintoni e sorrisi. Cartelle che volano. Estate alle porte. Spensieratezza. Immersione tra magiche parole incise sulle pagine dei libri come chiavi di ricerca. Calci a un pallone. Due sassi una porta. Dormire e poi il primo battito di cuore e quel bacio di eterno profumo.”(3)

In molti ci ritrovammo intorno ad un tavolo, così si concluse la mia avventura, la distesa erano adesso colline delle Langhe descritte meravigliosamente dai grandi Cesare Pavese (Stefano Belbo), Beppe Fenoglio (Alba), e la Resistenza da loro descritta come mai da nessun altro. E tanti, tanti altri. Italo Calvino, autore dell’impareggiabile “Il sentiero dei nidi di ragno” consegnò lo scettro a “Una questione privata” proprio al più solitario di tutti: Beppe. Cesare era troppo occupato a sgrovigliare “Il mestiere di vivere”. Ritorneranno?
Intanto sono qui con amiche ed amici. Difficile accada di trovarsi in piacevolissima compagnia, conoscersi da sempre. Immaginifica sintonia, sinfonia o tempesta perfetta di arte e fratellanza?

Mauro Giovanelli – Genova
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(1) Mauro Giovanelli“Verso sera”, 14/01/2017 ▪ Max Baroni“Silenzio” 29/08/2017
(2) Mauro Giovanelli “FÉMINA – Danae”, 14/01/2017
(3) Mauro Giovanelli“Sogno di una notte a meno un dodicesimo dall’estate”, 8/5/2015 ▪ Max Baroni“Spensieratezza” – 29/08/2017

SOGNO DI UNA NOTTE A MENO UN DODICESIMO DALL’OTTO DI MAGGIO

SOGNO DI UNA NOTTE A MENO UN DODICESIMO DALL’OTTO DI MAGGIO

Stanotte ho fatto un sogno, sul filo dell’incubo, c’è sempre qualcuno o qualcosa di fondamentale che ho perso e inseguo. È molto importante recuperare il bagaglio mentre sono al chek in dell’aeroporto che si trova fra palazzi periferici e gli airbus decollano uscendo dai portali. Sono ansioso di prendere il mio, la coda è lunga su passerelle metalliche labirintiche e tortuose fra le abitazioni. Cielo notturno, minaccioso rotto da luci dello stabilimento. Improvvisamente vedo che la mia valigia, peluche gigante di orso bianco, è fra le mani di un ragazzo “strafatto” laggiù in basso e lo lancia dentro l’androne di un edificio. Avviso mia figlia che devo assolutamente recuperarlo così scendo di corsa, affannato, gli innumerevoli gradini di queste passatoie riconducibili a quelle in uso negli opifici metallurgici. Mi ritrovo con una donna che desidero molto, la voglio, ma intorno ce ne sono altre, insidiose e moleste, il nostro rapporto è impossibile e nello sforzo di farmi largo per raggiungere lei, inarrivabile desiderio, ho un’erezione seguita da eiaculazione… così mi riprendo dal dormiveglia continuo…
Strano e pensoso sabato questo 6 maggio 2017.

Mauro Giovanelli – Genova
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SIGNIFICANTE NONSENSO

SIGNIFICANTE NONSENSO

Per ogni sbilenca rotazione su se stessa durante l’ellittico percorso intorno al sole nella traslazione dei corpi celesti verso chissà dove, su questa Terra c’è un momento in cui il confine fra luce ed ombra è netto, deciso, implacabile come affilatissima lama di scimitarra, privo della pur minima, impercettibile sfumatura, al punto che percorrendo e superando nel silenzio assoluto ogni ostacolo taglia in due parti nette strade, facciate di palazzi, lastricati, giardini, piazze, panorami urbani, periferie, monumenti. Tutto. È il passaggio della membrana nulla che ruota all’interno dell’universo al fine di tenerlo in equilibrio cosmico nell’infinito. Alcuni lo percepiscono, non molti. In quell’attimo inafferrabile mi assale irresistibile malinconia ed ogni cosa diventa possibile.
Chiedetelo a De Chirico, lui lo sapeva.

Mauro Giovanelli – Genova
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Immagine in evidenza: Fronte retro dell’inquietante Monumento alla duchessa di Galliera posto nei giardini a lato dell’omonimo ospedale in Genova.

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SOGNO A MENO UN DODICESIMO DALLA PRIMAVERA

SOGNO A MENO UN DODICESIMO DALLA PRIMAVERA

“Stiamo costruendo il futuro,
ma nessuno di noi si preoccupa
di sapere di quale futuro si tratterà.”
H. G. WELLS

…è indispensabile, vitale, urgente, irrinunciabile parlare con l’amministratore delegato, nessuna inefficienza rilevata nella struttura che dirigo, i miei collaboratori capaci e solerti nel concludere disordinatamente ogni pratica, come loro ho insegnato, trasmesso, portano soluzioni anziché problemi eppure incombe un fatto grave che mi viene attribuito, sembrerebbe calcolo matematico sbagliato, impossibile possa essermi accaduto… mi muovo con rabbia e destrezza fra scrivanie affollate, signorine, segretarie e manager, appollaiati, indaffarati, tanti fogli, cartelline chiuse con elastico, appunti, pile di carta, macchine da scrivere (o computer?), mezzi di comunicazione comunque neri, non ho presenti i volti anche se almeno uno ha i capelli impomatati di brillantina, neri, lucidi, come quelli degli ometti dei calciobalilla anni ‘50/‘60. Arroganti, supponenti, espressioni impiegatizie, sollecitano il motivo per cui intendo riferire con tale pervicacia, penso “excusatio non petita accusatio manifesta”, la locuzione è assillante, ogni mia spiegazione inascoltata, non interessa poiché già hanno giudicato, deciso, irremovibili, avverto la loro “chiusura”, rifiuto della verità, ostilità, disistima, chiedo un minimo di riservatezza, non mi piace discutere in presenza di altri… nulla da fare ed alla loro indifferenza nell’ascoltarmi, occupati come sono di nulla, cresce il desiderio, l’impulso di ribaltare i tavoli, annientarli… queste immagini non hanno contorno, paiono deformi ninfee ostili che ondeggiano su uno sfondo nero come pece prodotto da rabbiosi tratti di lapis punta morbida, intanto alla luce fioca e tremula dell’androne di edificio d’epoca una porta si apre al piano terra dalla quale fa capolino il viso sorridente di mia figlia minore, come avessi premuto il campanello e fossi lì ad attendere che qualcuno aprisse, mi comunica che sta preparando il trasloco, deve lasciare l’abitazione immediatamente… con la coda dell’occhio intuisco nell’oscurità del vialetto, oltre la vetrata, un auto imponente, nera, ferma, minacciosamente in attesa, macchina importante, giocattolo dei potenti, non sportiva tipo Maserati, neppure comoda Bentley, piuttosto la sagoma mi riporta alla vecchia Aurelia anni ’60, nuova fiammante, emana sortilegio, cattiveria, male assoluto, è “umana” nella sua immobilità, un lampo grigio rischiara «La “cosa” dell’altro mondo» dell’americano Ambrose Bierce (1), soprannominato dai suoi contemporanei “il lessicografo del diavolo”, racconto che lessi da bambino… seduta al volante dell’auto, non vista ma percepita, cappotto grigio scuro di ottima fattura, perfetto, giromanica preciso alle spalle, figura di uomo anch’egli immobile, fisso come statua, guarda avanti con la certezza che otterrà ciò che vuole ed io mi sento impotente… eccomi nel profondo nero quando compare, venere dormente sospesa nell’aria come in alcuni disegni dell’amico Fulvio, la donna amata da sempre, sono sconcertato aver potuto dimenticarla in questo tempo… è lei… dal nero fitto emerge il corpo fino al collo, intuisco avere i capelli biondi, unica nota di colore seppure immaginata, anche se abbracciandole i fianchi, quasi a sorreggerla, le mutandine rosa di seta, semitrasparenti, soavi, delicatezza infinita come desiderio e rimpianto che provo, mi dicono essere nera, chioma scura, riflessi blu che si propagano dal corvino, appoggio la testa sul suo ventre, avverto profumo di pitosforo misto a odore di femmina da tempo immemore posseduta, l’ombelico è da sogno, la stringo forte, forte, mi ci aggrappo, lei lascia fare, nulla dice ma parlano le pulsazioni che avverto, gambe soffici, carne morbida e pelle liscia come quella di neonato, le due curve tenere alla sommità delle cosce mi invitano a rientrare…
Questo ho sognato la notte fra il 12 e 13 aprile 2017, forse trascorsa nel dormiveglia continuo, sonno e veglia, nelle pause credo che dormissi, forse no, fluttuavo su un mare onirico, immenso, non vi era alcuna rete a mezza profondità che potesse filtrare quanto emergeva dall’abisso…

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com
© Copyright 2017 Mauro Giovanelli

Immagine in evidenza: (1) Pag. 127 – “destinazione UNIVERSO” a cura di Piero Pieroni – Illustrazioni di Leo Mattioli – Collana “I GABBIANI” – VALLECCHI EDITORE – Printed in Italy Firenze 1957 Vallecchi Editore Officine Grafiche – pagg. 592

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SOGNO DI UNA NOTTE A MENO UN DODICESIMO DALL’ESTATE

SOGNO DI UNA NOTTE A MENO UN DODICESIMO DALL’ESTATE

Importante era catturare la lucertola, mica per farle male, doveva spiegarmi qualcosa, alla fine l’ho presa perché era stanca, non riusciva a correre bene su quella campana di cemento liscio posata a terra.
Mia madre e mia sorella non hanno sentito, le ho chiamate a lungo mentre si allontanavano.
Gente rarefatta in piazza De Ferrari, le auto vecchio tipo colore dei taxi anni ‘50, nere, c’era anche del grigio, posteggiate male, al centro, di traverso. Era sera, il chiaro del giorno insopportabile, rumore muto della gente, capivo ciò che l’uomo in divisa stava dicendo a un gruppetto di persone senza volto.
Le ho raggiunte che già erano arrivate a casa, ho chiesto come mai non mi avessero sentito, le avrei accompagnate. Io alla lucertola ho parlato e… il Natale non sarà mai più come prima.

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

Immagine in evidenza: Genova anni ’50 – Piazza De Ferrari, l’ombelico del Mondo

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