LA GRANDE BELLEZZA

LA GRANDE BELLEZZA

La grande bellezza narra degli italiani nati durante l’ultima guerra, poco prima, un attimo dopo. Quelli che nella cornice più bella del mondo hanno aggredito gli anni ’60, ci sono cresciuti dentro e si sono formati, dagli orecchioni e la voce stridula, alla pubertà, lo sviluppo completo e la tempesta di testosterone che li ha travolti. Ma non erano soli. Con loro i grandi della letteratura, gli immortali registi, le musiche travolgenti e appassionate dei nostri cantautori, il genio di questo popolo. Intorno panorami e monumenti stupefacenti, l’origine della civiltà, e la Chiesa Cattolica Apostolica Romana con tutte le sue contraddizioni. Di ciò si sono nutriti, beati, e pure degli amori clandestini nei fienili durante le vacanze estive in campagna, “per far cambiare aria al ragazzo” dicevano le mamme. Tutto questo ha regalato loro il sogno e la speranza, li ha aiutati a immaginare il domani.
Oggi sono stanchi, delusi, scollati da una realtà che non gli appartiene e si limitano a considerare la pochezza della più squallida e strapagata classe dirigente del pianeta, mentre i loro figli, sbigottiti da tale, tanta e incomprensibile stupidità vorrebbero recuperare l’energia della ragazzina, artista suo malgrado, per scagliare secchiate di colore sullo sbiadito panorama che gli hanno sistemato di fronte.
L’opera di Sorrentino è la commemorazione del cinema, la chiave di volta che distribuisce il carico delle rappresentazioni di tutti i grandi della cultura nazionale e la domanda che Jep pone con apprensione alla coppia di amici “ma voi che fate stasera?” è lo smarrimento di Gassman dopo l’ultimo, fatale sorpasso, il saluto di Mastroianni che non riesce a udire il richiamo innocente della giovane, le sue parole, e si allontana nell’oblio di un’illusione, la dolce vita.
Probabilmente è di questo che parla l’unico libro scritto da Jep Gambardella, del diritto alla bellezza che ti fa accettare il senso di fine con serenità quando il vissuto ti presenta il catalogo di ciò che hai raccolto.
Il film è un’opera d’arte compiuta che non ti stancheresti mai di guardare, non ha fine, e dopo i titoli di coda potresti ritornare al metafisico ballo iniziale senza renderti conto di alcun stacco, come ammirare un altro quadro, e poi nuovamente da capo, sempre diverso, e ancora una volta nella storia infinita. È cinema “nostro” come nessun altro lo è mai stato, almeno così intimamente, e rivolgendosi all’apparato umano delle nuove generazioni cerca di comunicare ciò che i padri, di fronte allo sfacelo quotidiano di questo splendido Paese, non sono più in grado di fare. Con la sua espressione disincantata Jep li mette in guardia, dice ai giovani italiani “lottate e riappropriatevi del vostro patrimonio culturale, prezioso, unico, strappatelo dalle mani degli stupratori del futuro”.
Regia, sceneggiatura, fotografia e interpretazione magistrali sono le sfaccettature di un cristallo perfetto, tanto che Toni Servillo non sarà più quello di prima, da oggi è solo e soltanto Jep, e Verdone non uscirà mai dal Romano stritolato dal peso della città eterna. Fra musiche da lasciarti senza fiato la Ferilli ha fissato in Ramona la sua incomparabile bellezza senza età.
La galleria di fotografie che il padre fece ogni giorno al figlio, esposte in quella fantastica e surreale collezione, sono l’inutile tentativo di fermare l’attimo, recuperare e dilatare lo spazio che ci comprime e Jep, nell’osservarle, sa che “tutte quelle immagini andranno perdute nel tempo come granelli di sabbia nel deserto”. Chissà che non sia proprio questo, il deserto, a dare l’ispirazione al protagonista per scrivere un nuovo romanzo e realizzare ciò che non è riuscito a Flaubert. Raccontare il nulla da cui ripartire.

Mauro Giovanelli – Genova

Immagine in evidenza ricavata dal web

Pubblicato su “Il Secolo XIX” del 9 marzo 2014 pag. 43 con il titolo “La grande bellezza è un dono per i nostri figli”.

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POSTFAZIONE

Ogni recensione sul film di Sorrentino l’ho trovata didascalica, i critici rimangono in superficie descrivendo la città eterna così come viene magnificamente fotografata dall’assistente del regista limitandosi in alcuni casi a sfiorare appena le problematiche dei personaggi, quindi la decadenza che tutto coinvolge (anche ciò che non si vede, la periferia e un intero Paese), trascurandone alcuni che dovrebbero essere posti in primo piano per la simbologia che si è voluto dar loro. Ad esempio Romano (Carlo Verdone), l’unico vero amico di Jep (Toni Servillo) ed il solo a raggiungere il “troppo pieno” decidendo di fuggire, tornare alle proprie radici, pur nel momento in cui viene finalmente applaudito al termine della sua rappresentazione (commoventi le parole pronunciate). La performance della maga ingannatrice Talia Concept (Anita Kravos) all’oscuro delle “vibrazioni” delle quali il giornalista Gambardella chiede reiterate ed inutili spiegazioni, la bimba artista suo malgrado che lancia secchiate di colore al vuoto telone unica eredità che la generazione precedente è riuscita a trasmettere ai giovani (il vuoto esistenziale). Il boss mafioso del terrazzo sovrastante l’appartamento di Jep, l’uomo misterioso che non veste “Catellani” e solo verso la fine, al momento del suo arresto, gli dà la risposta circa il sarto cui si rivolge, “Rebecchi” aggiungendo, nel mostrare le manette ai polsi, che “persone come me hanno sorretto e continuano a farlo le sorti del Paese, produttive, non come i perditempo dell’aristocrazia e alta società romana”.
La Roma de “La grande bellezza” è sì una meraviglia ma tale aspetto è circoscritto all’inizio quando, accompagnato da una travolgente musica sacra, il turista giapponese si stacca dal gruppo per andare alla balaustra da cui può ammirare il panorama straordinario della città più bella del mondo, tanto da rimanerne folgorato.
Quasi tutti cadono nell’errore di fare un parallelo con Fellini ma la pellicola nulla ha a che fare con il grande Maestro che muoveva i suoi personaggi in una dimensione onirica (a parte “La strada” a mio avviso il suo capolavoro ed a seguire “La dolce vita”) poiché questo film è una feroce condanna dell’intera società che senza rendersene conto corre all’impazzata verso il precipizio come un branco di gnu. Ciò è molto ben espresso nella conclusione del battibecco fra la scrittrice radical chic Stefania (Galatea Ranzi) e Jep quando quest’ultimo le spiattella la verità (la medesima subirà una trasformazione abbandonando tutto per andare a far beneficenza in Africa). Ecco le parole conclusive Di Gambardella: “Stefania, madre e donna, hai 53 anni e una vita devastata come tutti noi. Anziché disprezzarci e farci la morale dovresti vederci con affetto e tenera solidarietà. Siamo tutti sull’orlo della disperazione e abbiamo un unico rimedio: farci compagnia e prenderci un po’ in giro.” Infatti è giusto tu l’abbia rimarcato “Solo pochissimi personaggi si accorgono di essere sull’orlo del precipizio, ma gli altri non solo non si scostano, ma ci si buttano dentro.”
E’ un trucco, la vita è un trucco, personalmente la definisco una pagliacciata se vai ad analizzarla al microscopio polarizzatore ed il solo momento di vera tenerezza, abbandono, oserei dire un ritorno all’umano che il protagonista ritrova si chiama Ramona (Sabrina Ferilli).
Per non dilungarmi troppo direi che Suor Maria “La Santa” (Giusi Merli), il Cardinale Bellucci (Roberto Herlitzka), il prete che ordina Champagne Cristal al ristorante dove Jep e Ramona incontrano Antonello Venditti (recita se stesso) e finanche il chirurgo plastico Alfio Bracco (Massimo Popolizio) o presunto tale che inietta botulino a 700 €uro al minuto chiedendo il doppio per le suore, ebbene tutti rappresentano la contraddizione del cattolicesimo nonché la corruzione e disattesa parola di Cristo all’interno del Vaticano. I due funerali, in particolare quello del figlio di Viola (Pamela Villoresi), sofferente di depressione e suicidatosi, sono il simbolo dell’ipocrisia incorniciato dalla descrizione che ne dà Jep definendo l’evento “l’appuntamento mondano par excellence”. L’altro, quello di Ramona, è solo menzionato.
Il film si chiude con Jep Gambardella che osserva il relitto della “Concordia” all’isola del Giglio, raffigurazione del crollo di una Nazione, obbrobrio sdraiato su un fianco, immobile, ma la mente dello scrittore va al primo grande amore non consumato (e qui ne avrei da dire), Elisa De Santis (Annaluisa Capasa), puro, vero, autentico ed in quel ricordo ritroverà la forza, chissà, di scrivere il suo secondo libro.
Oltre la sublime colonna sonora c’è da segnalare una delle più belle canzoni in assoluto di musica leggera: Loredana Bertè di “Zona Venerdì.

Mauro Giovanelli – Genova
www.icodicidimauro.com

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