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DAL FINESTRINO

Dal finestrino

Resta poco, pochissimo da dire, forse niente,
l’espressione artistica è alla fine,
cavalchiamo il nuovo corso privo di umanità
e stracolmo di potere che ci condanna al consumo,
poco importa siano bombe o pannolini,
e le fiche ormai si bagnano di solo piscio,
per giunta frettoloso, rassegniamoci,
non si può dar loro torto,
in fondo sono anch’esse supportate
da nervi e muscoli, tibie e femori, impulsi,
ed è logico li adoperino per concorrere
a far muovere la dinamo infernale
piuttosto che accudirla,
ecco perché tutto è già stato scritto, rappresentato.

Altro non resta che appoggiare la fronte
al finestrino di quel treno infinito partito a ogni alba
destinazione ignota,
e con distacco guardare fuori,
osservare il tempo che scorre,
senza neppure la speranza di scorgere laggiù,
in fondo, piccola e fugace,
la sagoma di qualcosa da aggiungere.

© Copyright 2020 Mauro Giovanelli “Le tessere del pàmpano” in forma di poesia – 1a edizione Vertigo srl – Roma
© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Pulsionale”, poesia III Millennio – 3a edizione pubblicazioni GEDI Gruppo editoriale S.p.A. sito ilmiolibro
© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Settantanove scritti o giù di lì”, vita, amore, morte, i soliti Discorsi – 2a edizione pubblicazioni GEDI Gruppo editoriale S.p.A. sito ilmiolibro – “Seventy-nine writings or thereabouts”, life, love, death and the usual – publications GEDI Gruppo editoriale S.p.A. sito ilmiolibro, second edition 2023 Translation Italian-English: Philip Mc Court.

IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI – PREFAZIONE

Prefazione

«Dunque chi sei tu infine?
Io sono parte di quella forza
che eternamente vuole il Male
ed eternamente opera il Bene»

J. W. Goethe – “Faust”

Il privilegio di poter parlare di e con un’opera di Mauro Giovanelli è che l’esperienza non rimane mai ancorata al testo, piuttosto diventa un crocevia di pensieri, interpretazioni, emozioni.
Terminata la lettura del libro, senza considerare gli appunti presi di getto durante lo scorrere delle pagine, ho sentito la mente focalizzarsi su alcuni liberi pensieri scambiati con l’Autore nel corso di precedenti collaborazioni letterarie. In particolare ricordo una riflessione su come “i tempi” avessero ormai raggiunto una sorta di punto di non ritorno, forse non evidente ai più, e oltrepassato quel limite resterà solo da augurarci ci sia almeno data la possibilità – quasi esprimendoci in termini biblici – di poter ripartire dalle ceneri perché ormai nulla del prima sarà risultato degno d’esser salvato. Da qui la ricostruzione di un nuovo mondo con la determinazione a non ripetere nessuno dei troppi errori commessi nella vita di prima. Un pensiero insolito ma credo non lontano da una delle personalissime letture che mi piacerebbe dare di questo libro.
Infatti “Il leggìo a nove posizioni” è un’opera di confine,
una terra letteraria in cui tutto è stato e, proprio per questo, tutto potrà essere, ma in veste completamente nuova. È un topos letterario vero e proprio, una marginalità filosofica dove, con tale termine, non intendiamo qualcosa di immaginario, bensì un luogo incontaminato che racchiude la bellezza interpretativa primigenia non facile da raggiungere, quindi va ricercata anche a costo di un sacrificio doloroso poiché di fondamentale importanza risorgere in essa.
Pensiamo perfino all’origine del termine leggìo, che deriva dal greco λογειον, loghĕion, che significa anche “pulpito” e, infatti, proprio in ambito sacerdotale ha la sua iniziale e poi più ampia fortuna, ma non è al senso ecclesiastico che mi voglio riferire, quanto alla sua “posizione privilegiata”. Se aveste mai avuto modo di salirci, su un pulpito, avrete notato come lassù sia immediata la sensazione di padronanza che trasmette – quasi di onnipotenza – oltre a quella di una prospettiva ben più ampia dello sguardo comune, rivelando a una persona come il cambio di veduta generi scenari inattesi. Ciò è ampiamente raffigurato nel celeberrimo “L’attimo fuggente” (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir, e magistralmente interpretato da Robin Williams nella parte del prof. John Keating che, saltando in piedi sulla scrivania, intende in modo figurativo educare i suoi studenti a mai accontentarsi di osservare le cose da un solo punto di vista. Credo che proprio questo debba essere il senso di un libro, ancor più il suo messaggio più intimo: un dischiararsi su vedute inattese, persino improbabili, se non addirittura improponibili, come se si decidesse di assaggiare il frutto proibito per arrivare alla “vera” conoscenza (termine audace ma appropriato in questo contesto). Qualora non fosse resterebbe comunque il viaggio a essere il tutto.
Lo scorrere narrativo de “Il leggìo a nove posizioni” alterna piani paralleli con un fil rouge nella figura del protagonista, quasi a confondere il lettore, affinché non abbia sempre chiara l’esecuzione temporale (perché è inevitabile: il pubblico cerca sempre gli agganci temporale e spaziale, è una necessità atavica) e che proprio in questo mancato appiglio scopra la chiave dell’indeterminatezza, variante che in certo qual modo ha una sua non circolarità ma chiusura a indefinito e infinito, fondamentale nell’insieme.
Il racconto è affascinante perché, attraverso l’origine della narrazione, che trae linfa da notevoli e diverse pubblicazioni di rilevanza mondiale, ci è presentato un protagonista, Yuzaf, che con altro nome ritroviamo dove era stato abbandonato alla fine di uno dei capitoli, “Il Grande Inquisitore” del magistrale “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. Sorprendentemente graziato dal Grande Inquisitore ma con l’ordine di scomparire e non farsi mai più vedere avendo lasciato il potere alla Chiesa, proprio lui, Gesù, tornato in terra per rimediare a quanto non è stato fatto dagli uomini nonostante il suo sacrificio, lui che ha un compito così fondamentale da assolvere, d’improvviso scopre di non essere più se stesso, neppure più morto, quasi resuscitato quindici secoli dopo, non a Siviglia, in Spagna, al tempo dell’ormai agonizzante Santa
Inquisizione, ma in Italia, a Genova, nell’epoca attuale, non riabilitato si trova a palesare l’impossibile situazione di una totale assenza di personalità, identità, perciò osserva, e fra se e se annota minuziosamente le caratteristiche del posto, del percorso che affronta nella spasmodica e urgente ricerca di un rifugio, un nuovo calvario con le sue stazioni, ed è così che potrà riprendere coscienza e identità terrena. Yuzaf è ora uomo nel termine più vero, essere in balia della non comprensione, alla ricerca di se stesso e della causa prima. Infatti è Corto, uno dei personaggi che Yuzaf incontra in questo suo ultimo viaggio, a esprimersi nei seguenti termini:

[…] «Il solo fatto che tu stia tentando di giungere alla verità potrebbe essere la prova dell’esistenza di un ulteriore, questo sì che è plausibile. Comunque chiedi troppo, vorresti tutto o niente, non solo il “qui e ora”, pure il “dopo” che possa dare la risposta al “prima”. Vivere e capire, morire e riferire. Ah! Sei troppo romantico amico, io mi accontento di molto meno. A me basterebbe che la giostra in cui mi hanno ficcato si fermasse, forse non ti è ben chiaro chi sono e in quale dimensione fingo di muovermi» […]

Da lettore, il tratto forse più affascinante del protagonista è la sua sordità. Sì, Yuzaf non ascolta, pone interrogativi, disperatamente, quasi con arroganza e violenza, ma in realtà non ascolta la risposta, è come se fosse alla ricerca di un senso perduto senza possedere gli strumenti per averne compiutezza; in questa fase Yuzaf è uomo, tragicamente uomo, che nella sua egocentricità non comprende l’insieme
che lo circonda, formato da personaggi della fantasia e della realtà a loro volta alla ricerca di un senso se non una via d’uscita dalla loro condizione. Forte, notevole l’esposizione del brevissimo incontro con Paperino:

[…] «Portava un berretto azzurro con banda nera e fiocco, direi da marinaio, infatti, mostrava grande rispetto per me. La blusa, anch’essa azzurra con due bottoni dorati, così come i galloni ai polsi, pareva una divisa. Non indossava calzoni ma stranamente non ci facevi caso, camminava scalzo, dondolando, e i piedi e la bocca erano arancioni, inconsueti, non saprei ma… le sue mani, pur avendo le dita e il pollice opponibile, non riesco a spiegarlo, assomigliavano alle estremità di ali, insomma di sostanza piumosa come il resto del corpo, bianchissimo. E la sua voce, la sua voce… era disperato. Diceva di chiamarsi Paolino, sembrava l’anello di congiunzione tra il primo anfibio e un piccolo papero, ed io così l’ho soprannominato, Paperino, mi sembrava non apprezzasse tale nomignolo… era così triste, indifeso, irascibile…» […]

Questo suo porre domande, avanzare dubbi e, in realtà, non trovare il tempo di ascoltare ogni responso, cela l’afflizione di dover recuperare la risposta definitiva, l’unica che possa soddisfarlo, la vera sentenza, la sola possibile: “Qual è la verità?”. Ecco una sua replica all’amico Srinivasa:

[…] «Bravo Ramanujan, tutto perfetto ma non come nelle tue equazioni perché su questo terreno è impossibile arrivare all’equivalenza allo stesso modo che nelle serie infinite di simboli matematici dove, al limite, si potrebbe quantomeno ipotizzarla, attribuirle un valore, inserirla nel calcolo. Qui no, rimane sempre un piccolo scarto, infinitesimale, la
differenza residua, incolmabile anche per una mente come la
tua. Non hai avuto necessità della mia conferma, ne sono certo, e di sicuro avevi intuito da solo come l’impalcatura scricchiolasse se non altro perché indimostrabile.»
[…]

Si dimena, Yuzaf, tra catene che non sono più quelle che lo imprigionavano fisicamente, ma in tutti gli altri sensi. Egli, infatti, è anche cieco, non vuole vedere l’evidenza, i suoi occhi sono coperti dal velo di Maya che gli oscura persino i presagi della salvezza, obliando sempre più la sua identità nonostante gli indizi per il conseguimento della sua liberazione che non riconosce, smarrendolo.
Il primo attimo di lucidità ci appare drammatico, lo si percepisce quando s’accorge di una presenza, da principio impalpabile, poi manifestatasi in quell’essere considerato alla stregua della feccia, un topo, che diventerà immagine potentissima lungo l’intero percorso accompagnando i protagonisti come entità dissolta ma sempre vigile fra le quinte di un teatro infernale.
Sporco, malmenato, sterminato, ha la capacità di salvarsi, risorgere, percorrendo le vie più infere, non semplicemente adattandosi, ma immergendosi nell’immondo proprio quando tutto il sovrastante e soverchiante è ciò che rimane
nella sola verità di un attimo.

[…] «Ci sarà un motivo per cui tu mi abbia suggerito di riconsiderare soprattutto gli ultimi istanti della vita di quell’uomo “perché in quel momento viene fuori la verità” dicesti. Che cosa accadde nelle ore di un supplizio che sono impresse nell’eterno divenire?» […]

E se fosse proprio questo uno degli elementi che manca a
Yuzaf? La capacità di scegliere e discernere? Come già accadde sulla croce per la salvezza sua e dei suoi compagni di sventura? Abbandonando l’impossibile tentativo di far coesistere, fede e ragione? E se fosse angoscia la sordità di fronte all’evidenza di voler andare dritti per una strada che probabilmente non porterà a nulla ma che sembrerebbe l’unica? Egli pare fin troppo trasfigurato nel vivere questa sua “rinascita” (ed è lecito obiettare: Come potrebbe non essere altrimenti? Passare dalla condanna certa, anzi due, a una vita che però in nulla può correlarsi alle sue origini), ossia rimanere sempre distaccato, mancante di quella compenetrazione tra elementi che è fondamentale.

[…] «Il fatto è che io adesso ho assunto una diversa configurazione ai tuoi occhi. Così, di punto in bianco, improvvisamente sono un approdo, e tutto il resto per te è come si fosse pietrificato, ci siamo solo noi, vivi o chissà che altro, di fronte alle possibili risposte che cerchi» […]

Avvertiamo un crescendo nello scritto, un palesarsi ostile di una ricerca per ragione che ci appare di ostacolo, fuorviante, quasi un peso che siamo costretti a trascinare, una croce portata su spalle ferite. Percepiamo opposte energie, vissute in maniera ossimorica, che bruciano in quella che è nascita di consapevolezza, destabilizzando fortemente il lettore come il protagonista, che tuttavia non può e non deve fermarsi, per quanto sia impervia la salita.
Sembra chiara la necessità di rileggere tutto scegliendo un punto saldo, ma contestualizzandolo nell’insieme, poiché lasciarsi sopraffare dal pensiero unico ci porterà ancor più alla deriva. È così che il topo si rivolge a Yuzaf, parole che sgorgano dai neri riflessi di quegli occhi intelligenti, vivi, antichi, dove iride e pupilla sono rese indistinguibili:

[…] «Il sapere deve e può essere dominato, a lui la missione definitiva, conclusiva, la “quadratura del cerchio” […]

Allo stesso modo Ramanujan:

[…] «Ripeto, cosa faceva Dio avanti la venuta del profeta? Dov’era? Perché questo confine, in quel preciso giorno, ora, attimo in cui decise di occuparsi del mondo? Nulla di così terribile e raccapricciante era accaduto prima quanto gli avvenimenti verificatisi dopo il Suo intervento» […]

A Yuzaf la sola eterna domanda cui, in certo qual modo, alla fine darà una risposta nell’estremo tentativo di trasmetterne la chiave di lettura al più umile, quindi il più “vergine” degli attori che lo circondano, l’Oste, ed è proprio da qui che tutto potrà rinascere:

[…] «Mi comprendi? Hai sentito ciò che ho detto? Tu saprai
“qual è la verità”. Sono stato chiaro? Non “cos’è la verità”.
Rispondi, dimmi che hai afferrato la differenza»
[…]

Perché i dubbi che ci insinua Mauro Giovanelli alimentano il senso di vacuo, non semplicemente di vuoto, infatti, se ragioniamo, se meditiamo, pensando di poter credere l’opposto, non tenendo conto che il momento stesso in cui si realizza un concetto ne nasce il suo doppelgänger, abbiamo posto la base che porta in perdita, poiché non è a queste dimensioni che appartiene il senso, tanto meno le risposte. Ce lo dice chiaramente nel momento in cui afferma (nota 1 Capitolo = –1/12):

[…] «Quando si designa un “più” necessariamente s’indica e si fa nascere un “meno”. Questo è il nostro peccato originale, il voler conoscere il Bene e il Male… quando si “definisce” il “bene” automaticamente ciò che ne è fuori individua, per differenza, il “male” creato dalla mente poiché prima non esisteva. Superare questo modo di vedere le cose porta al Regno, alla libertà dello spirito.» […]

L’interpretazione, infatti, che raggiungiamo alla fine è proprio l’evidenza del fallimento della scissione, soprattutto del dualismo, e di come solo una concezione agglomerante possa dare la giusta chiave di lettura e svelare quel mistero che in fondo mistero non è mai stato. Ed ecco che tutti i personaggi mutano, disvelano la loro intima natura, come se da chimere avessero abbandonato
le sembianze imposte per l’essenza “vera” (ed ecco che nuovamente utilizziamo questo termine di fuoco). Perciò, a ciascuno degli “interpreti”, l’Autore fa rivivere, da spettatori, il proprio destino, fino ad arrivare alla nemesi (e qui torniamo al concetto espresso in precedenza, ossia oltrepassato quel limite, c’è solo da sperare che in un certo senso si possa ripartire solo dalle ceneri perché ormai nulla del prima è degno di essere salvato).
Allora eccoci giunti all’ecatombe finale, Yuzaf e i suoi compagni non permetteranno che la “crocifissione” si ripeta, a nulla è servita prima, ancor meno adesso, quindi “muoia Sansone e tutti i filistei”. Il progetto iniziale era sbagliato dalle fondamenta perciò tabula rasa, anche se quella sordida mano a quattro dita, comparsa dal nulla fin dall’inizio, si materializza ancora al solo fine di sottrarre agli uomini la chiave di lettura idonea al conseguimento della piena gratificazione, vivere la vita nel suo splendore.
Sconvolge, tuttavia, il dubbio che forse tutto non sia altro che il frutto della volontà di qualcuno o qualcosa, peggio ancora un delirio della sola materia:

[…] «Sei certo non ti abbia immaginato qualcuno? Chi ci assicura che noi, qui e ora, non siamo il parto di una entità che ci sta manovrando, osserva, determina il nostro parlare? Magari ciò che sto dicendo, sono parole sue pronunciate attraverso me. Hai mai valutato la possibilità che tutti si possa essere strumenti di un’allucinazione? Pensaci.» […]

Allora cosa fare? Che prove sono state raccolte? E qual è l’origine delle Scritture? Divina non sembrerebbe proprio:

[…] «E cosa vuoi che facessero i carovanieri nei rari momenti di riposo? Nelle “pause” pranzo? Quando si trovavano riuniti intorno a un fuoco o in solitudine consideravano la loro meschina presenza sulla Terra? Parlavano. Di grandi gesta, miti, leggende, imprese più o meno inventate o ingigantite, superstizioni, paure, elaboravano improbabili risposte, concepivano entità superiori a giustificazione dell’avvicendarsi degli eventi che li travolgevano. Non c’era mica la taverna sotto casa, gratificarsi era prendere la propria donna quando la carne gli ricordava di essere animali. Per il resto… parlare, fantasticare, sognare altri mondi tanto gli era greve il loro, idealizzare un salvatore, la guida, e alla fine pure crederci. Non è forse vero che in quella lunga storia ci sono solo disperazione e angoscia?».[…]

Quali possibilità restano?

[…] «Se siamo strumenti inconsapevoli di tutto quanto succede è inutile cercare un senso delle cose perché già lo abbiamo sotto gli occhi, in ogni momento della nostra esistenza, ed è nel semplice fatto di aver vissuto, interagito con ciò che ci circonda, compiuto azioni, aver influenzato il
corso del destino, anzi averne fatto parte»
. […]

Il due che si fa uno, proprio sul finale, quando smette di interrogarsi e si abbandona al tutto, al destino, al fluire come suo lascito, quel lascito che la sua donna gli aveva chiesto, ma lui non ha mai compreso nella sua immensità. Ed è proprio da quell’ultimo bacio, riproposto in una veste speculare dall’amata rispetto a quello che gli aveva valso la grazia, che il nostro eroe trae origine, è una leggiadrìa attuale, un senso che si disvela e diventa comprensibile solo dopo aver attraversato il tutto ed essersi confrontato con la parte più profonda di se stessi, della propria natura più intima, che non ha il sapore beffardo della rinuncia alla propria identità ma quello della sua completa realizzazione.
Già! La propria natura, infatti è con un potente racconto-metafora che chiude il testo, quello dello scorpione e della rana, che per altro Mauro Giovanelli approfondisce con grande interesse nelle note.
Che vuol dire “la propria natura”? Che cos’è realmente? Ci sembra quasi negazione del libero arbitrio poiché ad essa incatenati, allora, in una circolarità senza fine si torna al dubbio di essere figli del delirio per uscirne l’istante dopo.
La risposta è personale, dipende dallo sguardo lanciato oltre, e anche quando tutto sembra racchiudersi (e non rinchiudersi) in un ritrovato equilibrio, interviene la variante personale che non può esser trascurata, diventando piuttosto quell’assoluto, la costante statica, immobile, la sola realtà cui tutto confluisce e da cui tutto riparte.

Pamela Michelis

L’istante

L’istante

Stamattina ho percepito l’universo
spostarsi di qualcosa,
definitivamente per ora,
secondo il mio tempo,
era in bilico per me, questo intendo.

Ora che in un sordo rumore compiuto
l’ultimo valico s’è dischiuso,
creando il vortice superluminale,
più nulla del prima perdurerà
nell’ordine del momento.

Ho quindi deciso per l’estrema possibilità
e tutto dinanzi a me rallenta in eterno,
ai lati ampiezze senza confini
accolgono strati d’immutabile passato
che s’impila senza tregua alle mie spalle.

Ecco il mio istante.

© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Le tessere del pàmpano” in forma di poesia – 2a edizione pubblicazioni GEDI Gruppo editoriale S.p.A. sito ilmiolibro

BEYOND

Beyond

When all the nouns
are finished,
combinations of notes
have run out,
every possible chord
terminated, harmony,
when we accept
the glitch
of finding one sole
unprecedented rhyme, line, assonance,
and when primary colours
have been eclipsed by the mixture
of limitless nuances,
even the most audacious
of the spectre of light,
when creativity
results saturated
with countless diversities
still concealed in the imagination
of Nature, or of a God
crazy, restless, desperate,
and when entropy
touches the highest high
in thermal death
which will undo the cosmos,
do not forget
to seize my hand –
with the other one I will free you from the chaos
to take you even further.

© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Seventy-nine writings or thereabouts”, life, love, death and the usual, second edition – Translation Italian-English: Philip Mc Court. – “Settantanove scritti
o giù di lì”, vita, amore, morte, i soliti discorsi”, second edition publications GEDI Gruppo editoriale S.p.A. sito ilmiolibro

ECCE DEUS

Ecce Deus

Non sono ossa,
femori e tibie,
carne nervi e sangue
due corpi che affermano l’amore,
essi abbandonano all’istante
ogni condizione fisica, terrena,
per farsi galassia, vuoto e pieno,
esito dell’universale teorema.

© Copyright 2020 Mauro Giovanelli “Le tessere del pàmpano” in forma di poesia – 1a edizione Vertigo srl – Roma
© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Pulsionale”, poesia III Millennio – 3a edizione pubblicazioni GEDI Gruppo editoriale S.p.A. sito ilmiolibro
© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Affinché morte non ci separi” – 1a edizione pubblicazioni GEDI Gruppo editoriale S.p.A. sito ilmiolibro

CERTEZZA

Certezza

Mistero del tuo sguardo,
nero al punto da essere
percepito un solo brillio
che ciascun occhio invia
nell’orizzonte in bilico
fra me e tutto quanto,
distante il tempo
del mio desiderio,
dove si placa ogni lamento,
nello spazio fra l’istante
di intensa luce,
e quella promessa abbagliante
formulata da molto prima
del periodo antecedente,
avvolto dal mio pianto,
il senso del profumo di te,
la certezza del tuo volto.

© Copyright 2020 Mauro Giovanelli “Le tessere del pàmpano” in forma di poesia – 1a edizione Vertigo srl – Roma
© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Pulsionale”, poesia III Millennio – 3a edizione – pubblicazioni GEDI Gruppo editoriale S.p.A. sito ilmiolibro

PRIMA COMUNIONE

Prima comunione

Io sono certo che l’universo
potrebbe tornare nel centro
di questo spazio immenso
se per qualche istante
riavessi l’abito della prima comunione,
intanto camicia e cravatta,
poterne valutare le dimensioni
ora difficili da immaginare,
odore del tempo, termine di riferimento,
misura cui riferirmi per capire dei mesi,
anni trascorsi, il fluire della vita,
avrei qualcosa su cui ragionare di questo,
le calze, mutande e canottiera, e le scarpe
di vernice di quel quattordici maggio.

E la sera, ripensare alle parole del parroco
contrariato del mio puntuale abbigliamento,
invece io ero certo che dinanzi al suo Dio
mi sarei presentato al gran completo,
mia sorella anche, e poi ci pareva un gioco,
un po’ come Natale e la Befana,
ecco perché con una scrollata di spalle,
il gusto dell’ostia ancora appiccicato al palato,
ripresi la lettura del Barone di Münchhausen
da dove l’avevo lasciata la notte prima,
che in fondo fu piena di ansia, e un po’ di paura,
così a cavallo della palla di cannone,
stivaloni e cappello a larghe falde con pennacchio bianco,
vidi allontanarsi veloce la mia stanza,
svanirono i vestiti, giochi e doni ricevuti.

Già allora dovetti sperimentare qualcosa che mi sfuggiva,
e sebbene non immaginai d’esser proiettato fin qui,
fu nel volgere la mente all’oggi che m’addormentai.

© Copyright 2023 Mauro Giovanelli “Le tessere del pàmpano” in forma di poesia – 2a edizione GEDI Gruppo editoriale S.p.A. sito ilmiolibro – pubblicazioni illeggìoanoveposizioni
© Copyright 2020 Mauro Giovanelli “Le tessere del pàmpano” in forma di poesia – 1a edizione Vertigo srl – Roma

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI:

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI:

Carla Infante, 20 gennaio 2019, pensiero critico
“PULSIONALE POESIA III MILLENNIO”
1a Edizione – Vertigo Edizioni srl – Roma

Vorrei rendere omaggio (avrei dovuto farlo prima) a uno degli Editor della pagina “Setteversi”, Mauro Giovanelli, che ritengo profondo conoscitore della letteratura e dell’arte italiana e internazionale. Singolare nella sua poliedricità, personalità non facile, direi rude e inavvicinabile per certi aspetti, ma sicuramente una delle più grandi penne in circolazione! Devo confessare, dopo aver letto il suo ultimo libro “Pulsionale – Poesia III millennio”, di essermi trovata di fronte a un capolavoro! Opera che contiene un ritratto della vita senza filtri, pagine in cui prosa e poesia si mescolano per raccontare l’amore o il dolore con la stessa intensità… nella sua lirica che segue, è esaltata l’importanza di avere un “grembo” in cui rifugiarsi la sera quando al ritorno a casa si ha bisogno di qualcuno cui svelarsi senza finzioni e trovare ristoro! A presto Mauro… grazie.
Carla Infante – Teacher presso Ministero Pubblica Istruzione

[…] Se non hai “quel” grembo
entro cui riversare ogni lacrima
delle tue ferite,
verso sera si va incontro a se stessi,
il pensare è compresso all’essenziale,
senza fronzoli né finzioni,
così che tutto
possa stare dentro l’abito mentale
predisposto all’ultimo,
eventuale fottuto viaggio,
e lo riporrai a ogni fottuta alba
fino a quando il sorgere del sole
ti dovesse comunicare
che un altro crudele,
fottuto giorno, sta per cominciare.
[…]
(Il mio grembo)

ESTRATTO DA “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” di MAURO GIOVANELLI

LUCY

… «Ok, va bene, però adesso dimmi a che intendevi riferirti».
«Nulla. Stavo considerando l’esatto momento in cui nacque quell’uomo, analizzare il prima e il dopo, ci deve essere un punto determinato, una faglia da cui far partire l’analisi. Ricordo i miei vecchi quando controllavano il guscio delle uova esaminandole traverso la lanterna. Se osservi con impegno, molta concentrazione, trovi sempre una piccola fessura che ti consenta di fare la tua scelta, decidere».
«Cioè?».
«Gli esseri umani che l’hanno preceduto, le grandi civiltà sorte e scomparse, le loro leggi, gli Dei che hanno adorato e venerato, e questi duemila anni».
«Quindi?».
«Che cosa faceva il tuo Dio a quel tempo?».
«Ascolta. Sono io che ho necessità di risposte, non tu. E la tua Dea Namagiri?».
Srinivasa rimane sorpreso da tale bestemmia.
«Lei è in equilibrio perfetto con tutto quanto detto, e ciò che sto per narrarti, lei non è un dogma, comunque non ti permetto di nominarla».
«Alla faccia. Allora che aspetti? Sputa il rospo».
«Te la senti?».
«Avanti. Che avrei da perdere?».
«Questo devi saperlo tu. La preistoria. Secondo una visione sufficientemente condivisa la preistoria ebbe inizio due milioni e mezzo di anni fa per arrivare al suo secondo periodo, la protostoria(9), diciamo intorno al diecimila a.C. Allora mi sorgono alcune domande. La prima è: quando fu l’uomo? Intendo dire l’essere la cui condizione nei confronti degli Dei, ammettendo esistano, oscilli tra la constatazione della sua mortalità e l’idea che possegga un elemento d’eccellenza che lo raffiguri a loro simile per la sua razionalità e la presenza di un elemento incorporeo, mente, anima, spirito che lo definiscano capace di elaborare concetti, scegliere, indagare l’ignoto. Così, a
spanne, possiamo dichiarare due milioni di anni fa? Un milione? Centomila? Diecimila prima di Cristo? La venuta di quell’uomo è ormai riferimento della storia».
«Diciamo diecimila».
«Mi sembrano pochi, come vedremo. Considera che il modello più accreditato dell’evoluzione umana, dopo i cinque, forse sei milioni di anni in cui ci siamo separati dagli scimpanzé…»
«Ecco ciò che m’interessa» – interviene Yuzaf – Quel preciso momento. Tu sai quale?».
«Ci arriveremo, forse. Mi stavo riferendo agli ardipithecus, Kadabba, Ramidus, quel che vuoi, e gli australopithecus, anamemsis, afarensis, africanus, bosei. Lucy!».
«Chi era?».
«Lucy?».
«Certo, chi altri se no?».
«Il suo nome in aramaico significa “tu sei meravigliosa”, chissà se ha amato, sofferto, pregato, sarebbe interessante
saperlo, allora i tuoi diecimila anni diventerebbero tre milioni e mezzo circa. E non dobbiamo dimenticare i generi paranthropus, aethiopicus, robustus…».
«Parlami di lei, Lucy».
«Non c’è molto da dire, non distrarti».
«Mi stavo domandando se fosse una “persona”».
«È proprio questo il punto, vedo che cominci a capire, cerca di seguirmi. In particolare a partire da circa due milioni e mezzo di anni fa, un milione dopo la tua Lucy, hanno convissuto quasi contemporaneamente cinque “specie” di nostri antenati del genere “homo”».
«Ecce Homo»…

«Che significa?».
«Mi è venuta d’istinto, “ecco l’uomo” nel senso che così dovrebbe essere, come descritto dal tuo Trockij, pregni di umanità appunto, e desiderio di conoscenza, invece fra tutti gli esseri viventi siamo i soli organismi a presentarci come animali e bestie allo stesso tempo» – e chinando la testa come se inseguisse un lontano pensiero, Yuzaf tristemente conclude – «anche se tale locuzione latina fu coniata per altri fini».

ESTRATTO DA “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” di Mauro Giovanelli

ESTRATTO DA “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” di Mauro Giovanelli

Santa meretrice

… la donna si passa un batuffolo di cotone lungo le spalle, sul petto, nella parte lasciata scoperta dalla camicetta leggera appena sostenuta dai seni perfetti, giovani. Una spallina è abbandonata lascivamente lungo il braccio a dichiarare l’appartenenza all’uomo. La carnagione creola è liscia, profumata, il viso è l’icona di una madonna tanto la dolcezza ha aderito a quell’ovale perfetto. Gli occhi grandi, neri e profondi esprimono soddisfazione femminile per aver dato godimento all’uomo, essere piaciuta e desiderata, compagna e consolatrice. Osserva con languore l’amante che si sta rivestendo nella speranza di attirare ancora la sua attenzione e cogliere in lui l’appagamento dei sensi. Bella, bellissima, fronte proporzionata, liscia, naso meticcio, regolare, muliebre, le orecchie precise, i capelli nerissimi, lucidi, con riflessi della notte, anche per la leggera e luccicante patina del sudore di un rapporto appena consumato. È seduta accanto a un robusto tavolo in noce e mentre con calma e serenità immerge il tampone nella piccola coppa per raccogliere altra essenza profumata, non stacca lo sguardo dal viso del compagno, e quello sguardo è ammiccante, generoso, dice che è ancora pronta a offrirsi, non fosse bastato.
Yuzaf la osserva malinconico, studiandola come se fosse l’ultima volta a vivere questa situazione e volesse imprimere l’immagine nella sua mente. Fatica a infilarsi il secondo stivale poi, con uno strattone, ecco fatto. Si alza, è pensieroso, abbottona distrattamente la bianca camicia, pure i polsini, continua a guardare la femmina, un’opera
d’arte definitiva, creatura perfetta. C’è calore in quell’istante, più profondo e intenso che qualunque altro vissuto, e rimpianto. Come un fulmine, il ricordo della donna amata rischiara i suoi occhi. Dopo aver allacciato i pantaloni, controlla il revolver traguardando il tamburo, i colpi ci sono tutti, con determinazione ripone l’arma nel fodero. Raccoglie l’automatica, fa scorrere il carrello per mettere la pallottola in canna, poi dedica molta cura nel riporla dietro la schiena, sotto la cintura. Nell’istante in cui s’infila il gilè, è interrotto da un vagito, scosta il lenzuolo steso su una fune lungo tutta la larghezza della stanza a fare da divisorio, un bimbo si agita nella culla, vuole la sua parte. Ora verifica ogni tasca, ritrova le sue cose, l’astuccio del tabacco, cartine, fiammiferi, e quello che sapeva doveva esserci, un sacchetto di pelle con monete d’oro. Ne raccoglie alcune, le conta facendole saltellare nella mano, ci ripensa, torna in sé e le depone tutte sul letto. I due si guardano e il loro discreto, impercettibile sorriso è la storia del mondo. Questa volta il rumore che si alza improvviso non proviene dalla culla, Yuzaf va alla finestra, solleva cautamente la tendina, e lungo il corso in direzione contraria a quella da lui presa non più tardi di due giorni fa, una folla immensa procede lentamente intonando laudi e preghiere. A guidare questo corteo, al centro, un’accozzaglia di pezzenti, alcuni in abito bianco, altri vestiti di sacco, a piedi nudi, in processione di penitenza, propiziano il Signore, volti coperti, corone di spine in capo, piedi nudi, flagelli in mano. In questa lunga sfilata ci sono nobili e plebei, vecchi e giovani, a due a due, preceduti da gonfaloni e cappellani con la croce, piangono mentre si
fustigano a sangue le spalle, il torace. Cento, mille, avanzano lenti, cadenzati invitando tutti a pentirsi dei loro peccati. A un segnale il corteo si ferma, i frati aspergono incenso a simboleggiare l’essenza divina del Cristo. Uno degli incappucciati indirizza la litania:
«O Dio, creatore e custode di ogni cosa, concedici di essere ministri della tua carità secondo lo spirito del TuoVerbo».
«Per questo ti preghiamo» risponde in coro la folla.
«O Padre, concedici di giungere alla perfezione della carità evangelica».
«Per questo ti preghiamo».
«O Padre, santifica con il tuo Santo Spirito i nostri corpi infetti».
«Per questo ti preghiamo».
«Signore, benedici le nostre carni martoriate».
«Per questo ti preghiamo».
I flagelli con cui si percuotono sono composti di una specie di bastone dal quale, sul davanti, pendono tre robuste corde con grossi nodi a loro volta attraversati da spine di ferro incrociate, molto appuntite, che li passano da parte a parte sporgendo dal nodo stesso per la lunghezza di un chicco di riso o anche più. Con questi strumenti i disgraziati si battono il busto nudo, così che si gonfia, assume una colorazione bluastra, si deforma, mentre il sangue scorre in ogni direzione imbrattando il selciato.
«Signore, donaci la forza di portare insieme ogni pena che incontriamo sul nostro cammino».
«Per questo ti preghiamo».
«Signore, accompagnaci nella missione della vita terrena per ritrovarci uniti per sempre nella gioia del tuo regno».
«Per questo ti preghiamo».
«Signore, nostro Padre e nostro Dio, per la rinuncia alle tentazioni di questa vita terrena accogli le nostre speranze per il mondo che verrà».
«Per questo ti preghiamo» fa eco quella congrega di fanatici.
Alcuni si configgono spine di ferro in profondità nella carne, nelle cosce, al punto che per toglierle, devono fare ripetuti tentativi, poi ricominciare. Le donne si tirano i capelli, a volte ne rimangono ciuffi nelle mani, stramazzano a terra e urlano, indemoniate, si strappano le vesti, tutto un contorno d’isteria collettiva.
«E aiutaci a preparare l’avvento del regno dello spirito, donaci la salvezza eterna».
«AMEN!» risponde all’unisono la moltitudine, ed è un segnale.
La processione riprende. Yuzaf osserva questa macabra rappresentazione, la mortificazione della carne, spettacolo osceno. La sua convinzione si fa sempre più forte. Ormai la risposta l’ha avuta, ora si tratta di apporre il sigillo.
«È per placare l’ira divina» – dice ingenuamente la donna – che lo richiama alla realtà, tanto per dire.
Yuzaf si volta di scatto, vede la purezza fatta persona, lei con un cenno del capo lo invita a restare, gli occhi languidi, profondi, incantevoli, lo reclamano. L’uomo getta un rapido sguardo al bambino, ritorna alla donna, abbassa la testa per vestire il cappellaccio nero, un vecchio Stetson a tesa larga e calotta schiacciata, apre la porta, la chiude dietro di sé e a tutto il resto.